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I Falchi Rossi e le Colombe Bianche
I Falchi Rossi e le Colombe Bianche
I Falchi Rossi e le Colombe Bianche
Ebook365 pages5 hours

I Falchi Rossi e le Colombe Bianche

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About this ebook

Un frammento di pergamena, un indizio apparentemente insignificante dal contenuto enigmatico che cambierà il corso della vita di Esmeralda Angel, spingendola a tornare a Parigi, nel palazzo di famiglia, per fare luce sul mistero che aleggia intorno alla morte dell'amata sorella Luna, scomparsa ormai da due anni… Vecchie conoscenze emergono da un passato scomodo per mostrarle la natura ipocrita e gretta della società perbenista in cui era cresciuta.

Una personalità audace, indipendente e dall'animo puro costretta a destreggiarsi tra un amore perduto e poi ritrovato, nuove amicizie e la scoperta dell'esistenza ambigua di alcuni membri della sua famiglia, una doppia identità celata dietro una maschera.

Un intricato dramma di corte, un romanzo storico e d'azione che una volta si sarebbe definito un feuilleton, ricco di passione, tradimenti e colpi di scena. Ambientato nella Francia del XVIII secolo, racconta splendori e miserie della nobiltà d'Oltralpe attraverso la rivalità e la lotta, a volte trascinata da una follia omicida, tra due antiche confraternite: i Falchi Rossi e le Colombe Bianche…
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateSep 27, 2022
ISBN9791221428773
I Falchi Rossi e le Colombe Bianche

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    I Falchi Rossi e le Colombe Bianche - Roberto Pinzone Vecchio

    1 Ritorno a Parigi

    21 Marzo 1783

    Avere qualcuno a cui dedicare una buona parte della tua vita è una cosa bellissima, ciò per cui vale la pena vivere, tutti lo definiscono amare e io sento di aver perso la possibilità di farlo da quando hai smesso di esistere.

    Penso costantemente ai tuoi occhi, mi sento crollare il mondo addosso come allora, credo di aver perso il respiro per una manciata di secondi mentre osservavo il tuo corpo esanime al centro del Salone Bianco, dove da bambine giocavamo e sognavamo di essere delle principesse. Eri lì immobile come una bambola di porcellana con indosso il tuo vestito migliore, degno di una contessa del nostro rango, i tuoi occhi azzurri come un cielo limpido avevano perso quello scintillio che era stato un faro per me nelle notti buie e intimidatorie da quando i nostri genitori erano morti e noi eravamo delle semplici bambine, fin troppo protette dentro il loro castello di vetro da credere di non vederlo mai infrangersi. In quell’istante l’ho sentito, sai, ho sentito che la vita mi costringeva a mollare la presa, un burattino senza fili gettato a terra, incapace di muoversi.

    Stringo tra le mani questo frammento di pergamena che ti apparteneva, quasi a volerlo soffocare per quanta rabbia mi provoca; se dopo due anni ho deciso di ritornare nella nostra casa, il palazzo dove siamo cresciute, è proprio grazie a questo frammento che Maria, la dolce e premurosa governante di Palazzo Angel, mi ha consegnato mesi fa in America. Una donna ormai troppo in là con gli anni che ha affrontato un lungo viaggio in mare dalla Francia solo perché io potessi far luce sul mistero che aleggia intorno alla tua morte. Adesso ne ho la certezza, non si è trattato di suicidio: non poteva essere altrimenti, non eri malata come mi hanno fatto credere in questi ultimi due anni e come hanno fatto credere a tutti quelli che ti stavano intorno e ti volevano bene.

    Mia dolce sorella Luna, torno per te, perché ti venga restituito l’onore tolto, per smacchiare via dalla tua anima quel disonore che non ti appartiene, un disonore rifilato da colui che in maniera riprovevole si è reso responsabile di un tale crimine e ti ha spinta giù dal cornicione del nostro palazzo privandoti della tua meravigliosa vita.

    Per mia fortuna la carrozza procede lentamente per le strade di Parigi dandomi il tempo necessario per riflettere su come agire una volta varcata la soglia di quel cancello, ma quella è casa mia, non dovrei sentirmi un’estranea sebbene gli ultimi dieci anni della mia vita li abbia trascorsi più sulla riva opposta dell’Oceano Atlantico che qui a Parigi accanto a te, nella casa dei nostri illustri antenati.

    Non posso più rimandare, sarebbe inutile attendere oltre, due anni sono stati più che sufficienti a marcire nell’oblio della mia ingenuità, ma adesso che la vita mi ha dato un segno non posso più ignorarlo, non devo.

    Improvvisamente la carrozza si ferma, sento i passi del cocchiere sempre più vicini, lo sportello dell’abitacolo si apre, faccio un profondo respiro e mi preparo a scendere, approfitto della gentilezza e mi sostengo sulla mano del cocchiere. L’abito che indosso è meno pratico di quanto pensassi, con il corpetto stretto e la gonna ampia, ma ci tenevo a fare la mia entrata trionfale, mi hanno detto che è all’ultima moda parigina incluso il vistoso cappello; il tessuto bianco a pois neri mi dona, sebbene rischi di fondersi con la mia carnagione chiara fa risaltare la mia lunga chioma ondulata corvina e i miei occhi verde smeraldo. Considerando che oggi il cielo è più luminoso rispetto ai giorni precedenti e sono le prime ore del pomeriggio, brillano più del solito, rischierei di accecare qualche passante che abbia il coraggio di rivolgermi lo sguardo e soffermarsi sul mio per più di una manciata di secondi.

    Devo ammettere che la mia vita stretta e il mio fisico asciutto e tonico nei punti giusti lo fanno sembrare ancora più elegante e raffinato, da far invidia alla dama più vanitosa di tutta la corte reale, ma forse è meglio mettere da parte questi pensieri frivoli e concentrarsi sulle questioni importanti: non mi aspettavo di trovare il cancello aperto, tanto meglio, così non sapranno del mio arrivo, sarà proprio una bella sorpresa, in particolar modo per qualcuno.

    Tutto è come lo ricordavo, come lo avevo lasciato due anni fa, il viale che si apre dinanzi a me è ben curato, il prato è come un tappeto, così morbido al contatto coi miei passi, e poi ci sono loro, i guardiani di questo paradiso terrestre, statue di angeli bianchi nelle loro pose compassionevoli ed eroiche a formare due file laterali per tutta la lunghezza del viale. Camminare in mezzo a questi giganti di marmo mi fa sentire una nullità, così piccola e indifesa, con i loro sguardi accusatori; ricordo che quando ero piccola trascorrevo ore intere a fissarli aspettando che mi rivolgessero la parola animandosi grazie a una forza magica interiore, per poi rispondergli a tono che io ero Esmeralda Adelaide Angel, contessa di Lovin e padrona del giardino sul quale poggiavano i loro candidi piedistalli.

    Sono ancora Esmeralda Adelaide Angel contessa di Lovin, e aggiungerei anche marchesa di Parigi: questo secondo titolo l’ho ereditato dal ramo materno, quello dei Cherubini, solo che adesso ho perso quella magia che portavo dentro da bambina, ho smesso di sognare e di immaginare il mondo come un immenso giardino segreto dove mai niente e nessuno avrebbe potuto rovinare l’atmosfera idilliaca e magica.

    Eccolo lì, che si staglia in tutta la sua maestosa grandezza in mezzo a una vallata delimitata lungo tutto il suo perimetro da un recinto naturale di alberi e arbusti: Palazzo Angel, un palazzo di tre piani dalla facciata e gli infissi bianchi e dal cornicione decorato in tutto il suo perimetro da statue di angeli bianchi distanti tra di loro circa due metri.

    Credetemi, fa sempre un certo effetto vederlo, e io ci sono cresciuta e vissuta fino all’età di vent’anni, ma adesso che ne ho trenta di anni mi sembra di non essermene mai andata, come se il tempo si fosse cristallizzato e noi costretti a vivere un presente perenne.

    Sembra esserci sempre stato, ma in realtà è stato costruito duecento anni fa dai miei antenati. Prima di allora il mio casato dimorava stabilmente nel castello medievale della contea di Lovin, situata alla periferia di Parigi giusto a una decina di chilometri di distanza, ma l’ambizione dei miei antenati di affermare sempre di più la loro presenza nella culla della società aristocratica francese li spinse a erigere una nuova residenza ai margini della città e di conseguenza a trasformare il castello di Lovin in una residenza estiva o comunque da utilizzare saltuariamente.

    Sono stata sempre incuriosita dalla pianta a L dell’edificio, come a voler indicare che dal lato sinistro non finisce ma continua a essere ancora più maestoso di quanto non lo fosse già alla vista della facciata frontale.

    Oggi sembra proprio la mia giornata fortunata, il portone principale d’accesso in cima ai gradini è socchiuso, posso entrare senza essere annunciata, coglierli tutti di sorpresa; il pavimento a scacchiera di marmo lucido nella prima stanza ai piedi della grande scalinata, che conduce ai piani superiori e che prosegue alla mia sinistra nel Salone Bianco, è così levigato che potrei scivolare a momenti, ma percepisco dei passi scendere lungo la scalinata di fronte a me. È lei, con la sua espressione da bambina ingenua ma che nasconde uno sguardo perspicace e inquisitorio.

    Vedermi la paralizza per qualche secondo, ma poi inizia a correre giù per le scale saltandomi addosso, attraverso il suo abbraccio così vigoroso riesco a sentire il calore di un altro essere umano diffondersi dentro le mie viscere; che strano, non provavo questa sensazione da molto tempo. Adesso sono io quella paralizzata, non riesco a muovere le braccia per ricambiare, spero non se la prenda a male, ma sono certa che non lo farà. Rachel è sempre stata la più affettuosa delle due e di certo ricorderà la mia incapacità e il mio imbarazzo nel manifestare i sentimenti.

    «Che gioia riaverti qui, cugina» esclama Rachel con tutta la voce che ha in corpo dopo avermi liberata dai suoi tentacoli.

    «Sì lo so, anch’io morivo dalla voglia di rivederti.»

    Ma sa che sto mentendo: sono tornata per un motivo molto più importante e urgente, le basta guardarmi negli occhi per capirlo.

    «Ogni cosa a suo tempo, ti dirò tutto, ma prima dobbiamo liberarci di una serpe che striscia sulle fondamenta della nostra casa» la anticipo facendole capire che ho letto i suoi pensieri in qualche modo.

    «Non credo ai miei occhi, sei tu, la mia dolce e bellissima cognata Esmeralda… sarà bello godere della tua compagnia nei giorni a venire.»

    Eccolo lì, davanti a me, che si avvicina con il suo portamento spavaldo e sicuro di sé, la sua folta chioma biondo scuro, i suoi occhi azzurri e le sue spalle larghe. Ammetto che l’ho sempre considerato un uomo avvenente, abbastanza attraente, non mi meraviglia che gli sia bastato poco per conquistare il cuore di mia sorella anni fa; lo consideravo quasi un fratello ed ero felice di lasciare mia sorella da sola con lui, la faceva sentire protetta e amata e la riempiva sempre di attenzioni, ma adesso lo odio con tutta me stessa. Più si avvicina e più sento il battito del mio cuore accelerare, come se volesse uscirmi fuori dal petto; se in questo momento mi porgessero una pistola già carica gli sparerei senza esitare e senza mancare la mira vista la poca distanza che ci separa.

    «Fermo lì, marchese Jonathan Devil» lo addito come un criminale. «Ti chiedo di andartene via da questa casa, di portare immediatamente la tua presenza oltre i confini della tenuta.»

    Rachel e Amelia, la governante del palazzo che stava passando con le braccia appesantite da una cesta colma di indumenti sporchi, restano basite, iniziando a temere che la cosa possa degenerare.

    «Cara cognata, perché mi dici questo?» Jonathan si mette sulla difensiva lasciando da parte il suo atteggiamento amichevole. «Come osi rivolgerti a me con tale spudorata irriverenza? Il marito di tua sorella, colui che negli ultimi due anni ha gestito da solo il patrimonio della tua famiglia.»

    «La mia famiglia ti è grata per i servizi resi, ma adesso non abbiamo più bisogno di te, soprattutto se è un assassino ad abitare tra le mura di questo palazzo; raccogli le tue cose e vattene, ti concedo un’ora, non un minuto di più.»

    Ho smesso di additarlo, ma non riesco a togliergli di dosso il mio sguardo profondo e accusatore.

    «Assassino? Di cosa diavolo parli?» mi risponde con un tono più pacato, sperando di convincermi del contrario.

    «So per certo che sei stato tu a uccidere Luna due anni fa» grido con tutta la voce che ho in corpo, le mie mani iniziano a tremare dalla rabbia. «L’hai spinta giù dal cornicione, me l’hai ammazzata come un cane randagio, anzi peggio, adesso ne ho le prove e anche i testimoni, e giuro che, fosse anche l’ultima cosa che farò, scoprirò il movente che ti ha spinto a commettere una simile empietà e ti consegnerò alla giustizia di questo paese, e nessuno ti salverà dalla pena capitale.»

    «Fandonie, non hai prove né tantomeno testimoni e ti giuro sulla memoria di colei che ho amato più di ogni cosa al mondo che non sono stato io, non avrei mai potuto farlo.»

    «Non osare nominarla in mia presenza, mai più, e adesso vattene, hai finito di godere dei benefici e dei privilegi concessi ai membri di questa famiglia, mio caro marchese.»

    Gli passo accanto senza guardarlo negli occhi, quasi fosse invisibile. Continuo a camminare senza voltarmi per tutta l’estensione del Salone Bianco, lasciandolo fermo a osservarmi senza proferire parola insieme a mia cugina e ad Amelia, fino a quando la mia silhouette si fonde con la penombra del lato opposto della sala.

    2 Le Colombe Bianche

    Erano trascorsi un paio di giorni da quando mi ero stabilita di nuovo a Palazzo Angel: adesso era soltanto mio, ero l’unica legittima erede del patrimonio degli Angel, morta Luna rimanevo solo io. I nostri genitori, morti vent’anni fa in un tragico incidente con la carrozza, hanno generato solamente noi due, ma credo che a loro bastasse; Luna, essendo la primogenita, avrebbe ereditato la contea di mio padre, il conte Arthur Angel, e io avrei ereditato il marchesato dei Cherubini di Parigi, la famiglia di mia madre, che a pensarci bene non era destinata a diventare marchesa appartenendo a un ramo cadetto di quella famiglia in quanto suo nonno paterno era il fratello dell’illustre marchese Cherubini, ma quando morirono i suoi genitori e il suo prozio in veneranda età e senza aver mai generato un erede diventò lei la legittima erede e si ritrovò all’età di 15 anni con il titolo di marchesa e l’ingente patrimonio che ne conseguiva.

    Mia madre, la marchesa Adelaide Helena Cherubini, era una bellissima donna, generosa fino all’eccesso e amata e rispettata da tutti. Da lei ho ereditato i tratti dei Cherubini, i capelli corvini, gli occhi verdi e la carnagione chiara, mentre Luna era una degna erede del casato degli Angel, avendo ereditato la chioma biondo cenere da mio padre e anche i suoi occhi azzurri; era bella come il sole, vederla ti metteva di buonumore, era sempre sorridente, positiva e altruista e anche spiritosa, quando ero giù di morale si inventava di tutto per farmi sorridere. Ricordo che il giorno che morirono i nostri genitori in quello sfortunato incidente con la carrozza io avevo dieci anni e lei dodici, e per non rendere la cosa più triste di quanto fosse già si sforzò di non piangere in mia presenza. Voleva proteggermi dal dolore, ma quella notte la sentii piangere dalla mia camera; non glielo dissi mai, non volevo lasciarle intendere che i suoi sforzi erano stati vani.

    Da allora a occuparsi di noi, oltre alla servitù e alle nostre amorevoli governanti Amelia e Maria, era stata nostra zia Lucy, sorella di mio padre, contessa Angel per nascita e baronessa Barry per matrimonio; è la madre di Rachel, anche con lei la vita è stata poco gentile, gettandola nel disonore un paio di mesi dopo la morte dei miei genitori.

    Mostrai a Rachel e ad Amelia quel frammento di pergamena che mi ero portata dall’America, loro dissero di non averlo mai visto e non erano sicure che fosse appartenuto a Luna; non seppero neanche decifrare il significato della frase scritta sul frammento:

    La lista, cercatela

    Ma a quale lista si riferiva mia sorella, lista di cosa? Una cosa era certa, era morta per proteggere quella lista. Chissà quale segreto nascondeva, e poi cercare dove, dentro il palazzo? Era come cercare un ago in un pagliaio.

    Trascorsi tutta la mattinata insieme a Rachel a rovistare nella biblioteca del palazzo, era lì che Luna trascorreva il suo tempo libero, a leggere ognuno di quei libri, forse per questo era più brava di me a gestire i nostri patrimoni, anni di lettura l’avevano resa così intelligente e capace.

    Sfogliammo uno a uno quei libri, ma nulla, nessuno strappo su nessuna di quelle pagine. Non sapevo in quale altro angolo del palazzo cercare, Rachel insinuò pure che fossi diventata un po’ paranoica e che Maria, da quando era morta Luna, aveva smesso di prestare servizio presso la nostra famiglia: sicuramente era rimasta molto scossa, era molto legata a Luna e non voleva rassegnarsi alla questione del suicidio, non riusciva ad accettarla. Allora perché era venuta a cercarmi, affrontando un viaggio tanto lungo per mare? Mi aveva confidato che, mentre osservava - sconvolta quasi a perdere i sensi - il corpo di Luna schiantato a terra in una pozza di sangue nel giardino di fronte al palazzo, aveva notato che stringeva in una delle sue mani quel frammento di pergamena, non appena udì dei passi avvicinarsi glielo sottrasse e andò a nascondersi senza mai rivelare a nessuno quello che aveva fatto.

    Era più che certa che quel giorno a palazzo ci fossero solo la contessa e il marchese oltre a lei, perché al resto della servitù era stato concesso un giorno di riposo per godersi la festa annuale del raccolto per le strade di Parigi.

    Mi aveva anche detto che una mezz’oretta prima di trovare il cadavere in giardino dalla finestra delle cucine aveva visto una sagoma con un lungo abito azzurro correre verso il palazzo e poco dopo un’altra sagoma, più scura e meno aggraziata della prima, che correva anch’essa nella stessa direzione; ipotizzò che si trattasse della contessa e del marchese, chi altri poteva entrare dall’ingresso principale senza essere annunciato se il resto della servitù compresa Rachel non era presente?

    Se ci riflettevo bene, ricordavo che lo stesso giorno che tornai dalle Americhe, come era mia abitudine un paio di volte l’anno, e trovai il corpo di mia sorella esanime, mi avevano informata che il vestito insanguinato che indossava quando l’avevano trovata in giardino era azzurro, il suo colore preferito, come se in quel momento mi importasse che abito indossasse prima di morire.

    Non facevo altro che leggere e rileggere quel frammento, ma non riuscivo a venirne a capo. Mi serviva qualche altro indizio, mi sembrava di impazzire: era un’impresa più grande di me, ma non potevo fallire, lo dovevo a Luna, non potevo deluderla, lei sicuramente avrebbe trovato il modo giusto per far luce sul mistero.

    In preda al delirio e percorrendo la mia stanza avanti e indietro con indosso la mia vestaglia di seta bianca e i capelli sciolti sentii bussare alla porta. Era Amelia con una busta per me, un invito. Chi può essere mai, sono qui solamente da due giorni, pensai. Aprii la lettera e non credevo ai miei occhi. Non sentivo quel nome da anni, neanche sapevo fosse ancora viva: la contessa Penelope Altaya, una vecchia e cara amica dei miei genitori, mi invitava a raggiungerla nel suo castello quello stesso pomeriggio perché doveva parlarmi, Faceva riferimento a questioni personali e di famiglia, mi chiedeva di portare con me anche la baronessa Rachel Barry, mia cugina.

    ***

    Prendere il calesse per raggiungere la tenuta degli Altaya fu una buona idea: sorge in mezzo alla foresta della contea di Angiò a pochi chilometri da Parigi e passeggiare lungo quei sentieri naturali e selvaggi è piuttosto piacevole, quasi primordiale aggiungerei, lontano dal caos della città, dagli schiamazzi della gente, da qualsiasi forma di civiltà insomma. Ovviamente evitare la carrozza e la scorta del cocchiere fu un’idea di Rachel: la questione non la convinceva molto, meglio non creare ulteriori testimoni.

    Lì fuori c’era troppo silenzio, sembrava quasi un luogo abbandonato: nessuno ad accoglierci, nemmeno un accenno di servitù, nessun giardiniere a occuparsi della manutenzione dell’immenso giardino, le fontane spente… peccato, un tempo doveva essere davvero un bel giardino che faceva da cornice al castello altrettanto maestoso. Scendemmo dal calesse e iniziammo a guardarci intorno facendoci assalire dal dubbio che forse quella lettera fosse uno scherzo di cattivo gusto e che qui in questo luogo dimenticato da Dio non ci fosse nessuno ad attenderci.

    «Prego, mesdemoiselles, seguitemi» disse una voce dal tono più autorevole che garbato dalla cima della scalinata principale d’accesso del Castello.

    Ci colse di sorpresa e Rachel d’istinto mi strinse la mano, ma poi capimmo che si trattava di una serva della contessa, anche se non ne aveva l’aspetto: era ben vestita, sapeva muoversi con eleganza, ma non era nemmeno una governante, probabilmente era una dama di compagnia, una sorta di assistente.

    La seguimmo fino a una sala, sembrava una biblioteca con dei divani eleganti e un camino spento, piuttosto buia e dall’aria stantia, dava l’impressione che le tende della finestra non venissero scostate da un bel po’; ci fece accomodare e ci informò che la nostra ospite ci avrebbe raggiunte a momenti.

    Mi divertivo a osservare Rachel mentre memorizzava con i suoi occhi ogni singolo dettaglio della sala; era così concentrata che nemmeno si accorse del mio sguardo posato su di lei, ma qualcos’altro attirò la mia attenzione, qualcosa che catturava l’unico raggio di luce che aveva la fortuna di entrare attraverso quei pesanti tendaggi. Decisi di avvicinarmi per osservarlo con maggiore accuratezza: un grande ritratto appeso alla parete alla nostra sinistra accanto al camino, un gruppo di persone, degli aristocratici in posa con il giardino che avevo visto prima a fare da sfondo, quei volti sorridenti e quegli sguardi complici. Dovevano essere molto legati i protagonisti di questo dipinto, quasi riuscivo a percepire il loro sodalizio nonostante fossero passati molti anni dalla realizzazione. Ero talmente distratta da altri dettagli che quasi non mi accorsi che due di quel gruppo di amici sofisticati li conoscevo benissimo: erano i miei genitori, in posa, sorridenti e avvolti in un caloroso abbraccio. Stentavo a credere ai miei occhi, la mia espressione era talmente basita che attirò l’attenzione di Rachel. Le stavo facendo cenno di avvicinarsi quando una voce ci colse di sorpresa.

    «Li riconoscete, vero? Esatto, sono loro i tuoi genitori, i cari Arthur e Adelaide; se guardate meglio ci sono anche i genitori della qui presente baronessa Barry e altre persone a me care, compresa la sottoscritta.»

    Non vedevo quella donna da molti anni, forse da quando erano morti i miei genitori; ricordavo benissimo com’era, una delle donne più belle della corte francese, così forte, impavida e sicura di sé. Insieme ai nostri genitori e ad altri personaggi influenti dominava incontrastata la vita dell’alta società, tutto ruotava intorno a loro, ogni evento, adesso riuscivo a ricordare.

    Ma cosa era rimasto della donna che era un tempo? Nulla, aveva circa sessant’anni, coetanea dei miei genitori se fossero sopravvissuti, il volto pieno di rughe, i capelli un tempo gialli come il grano adesso cosparsi di ciocche argentee. Sembrava stentare a reggersi in piedi, usava infatti un bastone per camminare e darsi sostegno, tossiva continuamente; è proprio vero, quando si è giovani e in salute il mondo è tuo, ma se inizi a scricchiolare come una dimora fatiscente allora tutto inizia a scivolarti dalle mani, la fama, il rispetto e il potere.

    «Scosto le tende così possiamo guardarci meglio negli occhi, anche se sarà più piacevole per me che per voi, ormai sono un rottame, il mio corpo non funziona più bene come una volta, soltanto la mia mente sembra resistere alle crudeltà degli anni che avanzano» pronunciando quelle parole si sedette alla sua scrivania e iniziò a fissarci. «Siete lo specchio dei vostri genitori, spero che riflettiate anche la loro anima e non solo i loro tratti somatici.»

    «Contessa, come siete venuta a conoscenza del mio arrivo qui a Parigi? Perché quel ritratto, che cosa significa? Di quali questioni urgenti volevate parlarci?» misi da parte le formalità e con tono diretto mi rivolsi a lei sperando di ottenere delle risposte esaustive.

    «Mie care, iniziamo dalle cose più semplici e ovvie: innanzitutto il ritratto è stato eseguito molti anni fa nel giardino principale di questa tenuta, c’eravate anche voi insieme ai figli degli altri soggetti del quadro, eravate troppo piccole per ricordare, ma io ricordo benissimo che ci volle una squadra di serve per tenervi a bada mentre scappavate su e giù per questi giardini e noi ci sforzavamo di rimanere in posa per molte ore» il racconto di quell’aneddoto la fece sorridere di gioia, per un attimo rividi la donna bella e spavalda di un tempo.

    Decise di alzarsi e di avvicinarsi al quadro, con l’ausilio del bastone iniziò a indicare uno ad uno tutti i soggetti del quadro. I miei genitori, i conti Angel; i genitori di Rachel, il barone Daniel Barry e mia zia Lucy; il marchese Ferrara; la contessa Nicole Delancrè; gli Oscar; i Baudelaire, Charles e Charlotte, non erano aristocratici ma appartenevano all’alta borghesia, degli industriali molto ricchi e potenti; monsieur Edward Callen e la moglie inglese Lady Kristin; Sua Maestà il re Giulio II di Francia con la regina Barbara, i genitori dell’attuale re di Francia; il marchese Robert Carax con la moglie e infine lei, la contessa Penelope Altaya.

    Mentre la contessa parlava mi sembrava di essere l’unica ad ascoltarla, Rachel era rimasta incantata a osservare il ritratto del padre accanto a quello della madre, non lo vedeva da vent’anni e nemmeno sapeva se fosse ancora vivo.

    Ci disse che la maggior parte dei membri negli anni successivi al ritratto erano stati assassinati o erano morti in circostanze alquanto sospette, e che pochi erano sopravvissuti come lei.

    Restai sotto shock per qualche secondo, non potevo credere a quanto avevo appena sentito: i miei genitori assassinati? In quali menzogne avevo vissuto in tutti questi anni, chi avrebbe mai potuto ucciderli e perché, contro chi si erano messi? E perché stavo pensando a Luna? Anche a lei era toccato lo stesso tragico destino. Ma non era il momento di abbattersi, per quello ci sarebbe stato tempo. Dovevo sapere ogni cosa, basta menzogne, non ero più una bambina, la vita mi aveva costretto a non esserlo più da molti anni. Volevo interromperla e tempestarla di domande, ma poi tutto mi si annebbiò nella mente e pensai solamente all’omicidio dei miei genitori.

    La voce della nostra ospite mi riportò al mondo reale.

    «Esmeralda, lo so che le mie parole hanno lacerato il tuo cuore più di quanto non lo fosse già, ma ti prego di ascoltarmi, quello che vi dirò vi aiuterà a mettere insieme i pezzi.»

    Incominciò a spiegarci che l’incidente di vent’anni prima, con la carrozza che precipitò in un burrone provocando la morte dei miei genitori, in realtà era stato raccontato a me e a mia sorella perché eravamo delle bambine. La carrozza non era finita fuori dal sentiero e poi precipitata perché il cocchiere aveva perso il controllo, ma era stata fatta saltare in aria: qualcuno aveva piazzato della polvere da sparo sotto l’abitacolo, solo che il caso era stato chiuso perché la Guardia Reale non aveva indizi a sufficienza per portare avanti le indagini e trovare i responsabili. Stesso destino era toccato agli altri membri: la contessa Nicole Delancrè precipitò giù da una delle finestre al secondo piano del suo palazzo e il colpevole non fu mai trovato, per molti si era trattato di suicidio; il marchese Ferrara fu trovato morto nel suo letto, nudo con i polsi legati alla testiera e le caviglie alla pediera, con almeno una ventina di ferite all’addome causate probabilmente da un’arma bianca come un pugnale dalla lama molto affilata; gli Oscar furono trovati tutti morti nella loro tenuta di campagna, una vera e propria strage familiare, non risparmiarono nessuno, donne, bambini, anziani e perfino la servitù presente in quel momento, evidentemente i responsabili non volevano lasciare testimoni in giro. Nemmeno ai Baudelaire fu riservato un destino meno tragico: erano morti in un incendio scoppiato durante la notte nel loro palazzo situato nel cuore di Parigi, un incendio doloso, ma anche in quel caso i responsabili non furono mai trovati.

    Quelle parole risuonarono in me con un tono piuttosto grave, tutte quelle persone assassinate, padri e madri di famiglia, mariti e mogli, figli, fratelli e amici.

    «Perché questi omicidi all’interno della stessa cerchia di individui, cosa vi legava oltre l’amicizia?» chiese Rachel timidamente, portandosi con la mano sinistra una ciocca di capelli dietro l’orecchio e abbassando lo sguardo temendo un richiamo per averla interrotta.

    Le parole di Rachel mi anticiparono, stavo per fare la stessa domanda; la sua complicità mi dava molta forza, dal momento in cui aveva appreso dell’assassinio dei miei genitori mi aveva preso la mano e non l’aveva più lasciata. È sempre stata più una sorella che una cugina, infatti per me e per Luna era la terza sorella che non avevamo mai avuto, idem noi per lei che era figlia unica.

    «Mie care ragazze, siete più perspicaci di quanto credessi, e questo è un bene, credetemi, mi serviranno due tipe sveglie come voi… Ma la tua domanda, Rachel, è più che lecita: avete ragione, cosa legava me ai vostri genitori oltre a una profonda e sincera amicizia? Io e tutti i membri di quel quadro, o quasi tutti, facevamo parte di una società segreta, un’organizzazione che celava le nostre vere identità a coloro che non ne facevano parte; perseguivamo un nobile scopo, mantenere la giustizia in questo paese corrotto e fermare i soggetti più pericolosi per salvaguardare l’incolumità di ogni singolo cittadino francese a costo della nostra stessa vita. Il nome di questa confraternita è Colombe Bianche, è una società molto antica nata sei secoli fa, intorno al 1123 d.C., fu fondata dall’allora re dei Franchi che scelse come membri i suoi sudditi più fidati, perché in quell’epoca la lotta per il potere era all’ordine del giorno e così fu necessario formare una squadra di

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