Oceano Irrazionale: Cronache di uno psicoterapeuta
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Book preview
Oceano Irrazionale - Matteo Maria Bonani
Frontespizio
Matteo Maria Bonani
Oceano Irrazionale
Cronache di uno psicoterapeuta
Prima edizione
© 2022 MAUNA LOA EDIZIONI
Dedica
A mia figlia Arianna che mi ha offerto il filo
per (ri)uscire dal labirinto della domanda che non ha risposta.
Grazie
a tutti gli incontri
che sono sempre fonti
di comprensioni importanti.
A tutti i viandanti
che lasciano segni evidenti
ma non tracce pesanti.
Grazie per aver potuto conoscervi davvero,
grazie per ogni gesto sincero:
mi avete aiutato in questo grande mistero.
Un ringraziamento speciale a Silvia
per camminare al mio fianco.
Prolegomena
La vita ci offre continue occasioni per imparare a navigare a vista nei mari dell’esistenza, e l’assenza di una rotta predefinita può rivelarsi una risorsa inimmaginata, quando ci affidiamo a ciò che deve ancora accadere.
E’ una scoperta che solitamente facciamo a posteriori, quando, ripensando a qualcosa che abbiamo vissuto, (ve)diamo un senso che ci conforta, che ci riappacifica con la nostra storia. La mente cerca casa nei significati che può dare agli eventi e, quando li ha arredati, può finalmente rilassarsi.
Ma se lo facessimo prima? Se potessimo rilassarci prima di aver dato un senso, se riuscissimo semplicemente ad affidarci all’esistenza anche senza sapere dove ci porterà, che cosa accadrà tra un attimo?
Se potessimo smettere di sentirci separati o separabili dalla vita, nuotarvi come i pesci in pieno oceano, sebbene le sue acque ci appaiano insidiose, oscure, irrazionali?
In queste pagine racconto le prove e gli errori, gli slanci e i terrori, le cadute e le comprensioni maturate lungo la via della fiducia che percorro come uomo e come psicoterapeuta.
La sofferenza, anche quando diviene follia, è una delle forze evolutive più capaci di suscitare in noi gli interrogativi necessari ad aprire il nostro personale dialogo con la vita.
Ogni ferita può diventare una preziosa finestra sull’esistenza.
Primo capitolo. Infinito. Primo me-s-saggio
" Hai voglia di venire con me sul Precipizio degli Asteroidi ?", disse un giorno mio fratello.
Di venire dove?
.
" Sul Precipizio degli Asteroidi ".
Non saprei, a fare cosa?
.
" Oceano irrazionale , una via spaziale!".
Così si annunciò il mio battesimo con l’infinito.
Ancora non sapevo che cosa mi aspettava ma in quel momento scelsi di incontrare l'assoluto... o forse mi lasciai scegliere.
Questo viaggio cominciò circa trent'anni fa.
Avevo sedici, forse diciassette anni, e mio fratello mi propose di andare in Val di Mello ad arrampicare.
Io, lui e i suoi amici.
Partire per queste imprese con loro, molto più grandi di me, significava essere stato scelto: mi sentivo un eletto. A quell’età ero timido, impacciato, il classico adolescente che si sente sempre e comunque inadeguato; quella proposta era la mia grande occasione per imparare tutto quello che potevo e diventare anch’io come loro.
L'avventura si dimostrò senza eguali.
Il monolite di granito su cui si sviluppa la via Oceano irrazionale , sul versante della montagna detto Precipizio degli Asteroidi , a memoria è alto settecento metri circa. Il grado di difficoltà è molto impegnativo e la mia preparazione di allora assolutamente insufficiente, ma mio fratello era uno spericolato ed io, semplicemente, uno sprovveduto.
Partimmo. Il viaggio iniziatico cominciò subito come esperienza extra ordinaria tra bevande e altri spiriti della natura che amplificavano, espandendola, la nostra percezione. Allora era il nostro modo di sentire meglio, di coinvolgerci pienamente nelle cose, di andare oltre. Esperienze che, oggi lo so, fatte nel modo giusto possono aprire l'occhio all'ignoto, espandere la coscienza al cosmo, ma rischiano di precipitarci nel marasma più confuso se fatte al di fuori di un rituale e di un insegnamento – tradizioni che la nostra cultura ha perso da tempo.
Ero lì, ad un passo dal primo grande salto nel Vuoto. Mai avrei immaginato quanto quell'esperienza mi sarebbe stata d'aiuto vent'anni dopo nel lavoro di psicoterapeuta, di fronte al vuoto cosmico dell'esordio psicotico, tra le voragini dell’esperienza paranoide, nel buio disperato del grande buco nero della depressione.
Impossibile dire quanto ci mettemmo a raggiungere l'attacco della via, avevo già perso il senso del tempo e dello spazio ma non dimenticherò mai l’inizio: lo zoccolo.
Quando si va a scalare in montagna, a differenza della falesia dove trovi tutto attrezzato e pronto, la via la devi cercare, raggiungere, seguendo le tracce. Ti devi proteggere, non trovi le sicurezze già piantate: gli spit
, i chiodi resinati ai quali puoi agganciare moschettoni e corda. Devi assicurarti con i friends
, gli amici della tua scalata, dispositivi a farfalla da incastrare a pressione nella roccia e ai quali agganciare i moschettoni dove passa la corda. Questo significa che la roccia deve essere ben compatta, dura, ma spesso la parte iniziale, detta zoccolo, è fatta di roccia friabile, ciuffi d’erba e qualche appiglio qua e là. Quindi?
Capita che si faccia in libera, cioè senza protezioni.
Di solito non è un tratto arduo, il grado di difficoltà difficilmente supera il quarto grado ma può essere molto insidioso, scivoloso, insomma: serve sapersi muovere. Come un felino, leggero, veloce, senza esitazione, risoluto.
Questo avvicinamento, da fare slegati, misurava due, forse trecento metri. Pur non soffrendo l’altitudine avvertivo una certa ansia, compagnia insidiosa per una scalata; infatti, arrivati alla cengia di partenza per me l’avventura poteva dirsi finita, avevo già dato tutto quanto era in mia potenza.
Ma andare avanti, oltre il punto dove abbiamo imparato a credere non sia possibile, è una capacità di vitale importanza. Il ricordo di questa esperienza sarebbe non a caso riaffiorato in una particolare circostanza: al tribunale penale, la prima udienza per la valutazione della pericolosità sociale del paziente che nella vita professionale mi ha maggiormente cambiato l'esistenza.
Iniziammo l'ascensione. Per la prima volta sentivo l’onda lunga dell’adrenalina: non avevo scelta, non potevo fermarmi nemmeno a riflettere; ero inchiodato in uno stato di attenzione totale. La mente continuamente cedeva alla pressione della vertigine. Oceano irrazionale , mai nome fu più spietatamente calzante.
Quando la forza della corrente non può essere domata, non resta che abbandonarsi al flusso, alla scoperta di una nuova risorsa. Questa lezione mi avrebbe salvato la vita diverse volte, aiutandomi ad andare oltre mentre mi trovavo in terre sconosciute, a muovermi senza coordinate certe, confidando in capacità nascoste che il corpo conosce quando la mente ancora non è in grado di concepirle.
Dopo un paio di tiri di corda eravamo già a cinquecento metri da terra e ci accingevamo ad affrontare la tromba : una diagonale lunga circa venti metri, 7A+ il grado di difficoltà. Granito liscio, svasato. Serviva una forza nelle dita e nelle spalle che io non avevo, oltre ad una capacità tecnica di scalata che, all’epoca, nemmeno sognavo.
Al quinto metro, più o meno, cedetti.
Mi lasciai cadere nel vuoto per una decina di metri e mi trovai a oscillare nel nulla, appeso senza appoggio per i piedi né appiglio per le mani. Appena realizzai la situazione, mi venne da piangere.
Iniziai una serie di tentativi di risalita sulla corda ma gli avambracci erano già ‘ghisati’, duri come l’acciaio, e le dita cedevano. Restai così ad annaspare nel vuoto per un tempo infinito, un'ora o forse più. Non so che cosa mi permise a un certo punto di tirarmi su lungo la corda e raggiungere la sfesa diagonale dove entrai strisciando fino alla sosta chiamata Pulpito dell'Eremita; lì mi accasciai sfinito, vicino a un pino bonsai che spuntava dal granito liscio e lunare. Sotto la valle e tutto intorno, solo la roccia e il suono del vento.
Mio fratello era un arrampicatore esperto che aveva già fatto il Monte Bianco, il mio compagno da secondo era un buono scalatore in grado di affrontare circostanze complicate; io ero già oltre il limite di ogni mia possibilità, fisica, emotiva e mentale.
Ma il peggio doveva ancora arrivare.
Eravamo ripartiti da poco, avevamo fatto appena un centinaio di metri, quando la corda con la quale facevamo sicura a mio fratello, che saliva da primo, terminò. Nessun grido o indicazione, quelle che di solito ci si lancia tra chi è salito e ha raggiunto la sosta e chi deve sganciarsi e risalire una volta assicurato.
Questo significava che chi stava salendo non aveva trovato ancora un punto di ancoraggio, cosa che può accadere ma che rende la situazione molto più delicata.
Staccati, mi sa che dobbiamo andare su in conserva
, mi disse il compagno che saliva con me da secondo.
In conserva? Che cosa significa?
, chiesi senza avere nemmeno la forza di preoccuparmi.
Vuol dire che la corda è finita, tuo fratello non ha trovato la sosta. Ora dobbiamo salire attaccati tutti e tre insieme ma non siamo assicurati a niente, quindi, se cade uno, tira giù anche gli altri due
.
Di nuovo una scarica di adrenalina e la percezione si fece più ovattata, come quando una nebbia fredda sfuma ogni contorno percettivo. Ci trovavamo a seicento metri da terra e ne mancavano altri duecento; eravamo slegati, anzi peggio: legati insieme ma senza sicurezza, e le mie mani, i miei piedi non rispondevano più ai comandi.
Smisi di decidere.
Istintivamente presi a salire, muto, per un tempo infinito, in uno spazio sconosciuto; dentro di me solo vuoto. Più che muovermi mi sentivo mosso. La stessa sensazione l’avrei provata in altre occasioni, sempre al cospetto delle forze della natura come nell’oceano pacifico in Costa Rica, quando mi avventurai per una nuotata che divenne un’odissea panica, oppure in barca a vela in Australia, quando l’equipaggio decise di rientrare in fretta perché stava sopraggiungendo una bufera e il vento aveva una potenza mai sentita.
In un tempo impossibile da quantificare per lo stato di coscienza alterato in cui mi trovavo, riuscimmo ad arrivare in vetta.
Il buio stava già scendendo e non avevamo niente con noi per fare bivacco; la via era da percorrere in giornata e, per salire più leggeri, avevamo lasciato alla base l’attrezzatura per eventuali soste notturne. Eravamo a duemila metri circa sul livello del mare, in pieno aprile: di giorno faceva caldo, di notte la temperatura scendeva sottozero e noi eravamo in calzamaglia e maglietta, niente da mangiare e acqua finita.
Dovevamo muoverci, e anche molto in fretta, per rientrare in tempo alle tende. Iniziammo le calate con le corde doppie per accelerare il passo ma, giunti alla cengia dello zoccolo, a circa quattrocento metri da terra arrivò la notte. Splendida, stellata, tersa. Ma soprattutto ghiacciata.
Riuscimmo a sistemarci in quella terrazza naturale e con qualche ramo secco accendemmo un fuoco; un rivolo d'acqua che scendeva lungo la roccia ci permise almeno di dissetarci.
Ci svegliammo al mattino sopra alle braci ormai spente, aggrovigliati tra noi in un abbraccio stretto per tenerci al caldo. Non era ancora finita: avevamo altre cinque o sei calate da fare, era l'alba, e quella sosta notturna al freddo non ci aveva per niente rigenerati.
Iniziammo. Giù per un tratto e, quando alla sosta cercammo di