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Le leggende del Napoli. Una città, un popolo, una squadra
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Le leggende del Napoli. Una città, un popolo, una squadra

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Napoli e il Napoli, passando attraverso i napoletani: nessun club ha un intreccio così solido, viscerale ed eterno come quello nato sotto il Vesuvio quasi un secolo fa. Il fenomeno ha una sua logica: a differenza di Milano, Torino, Roma, Genova (e finanche Verona), Napoli è l’unica grande città ad avere una sola squadra. Due scudetti, cinque Coppe Italia, due Supercoppe italiane, una Coppa Uefa, milioni e milioni di tifosi sparsi per il mondo: questa è la società calcistica meridionale più titolata a livello nazionale e internazionale e anche la più presente nei campionati di serie A. Da Sallustro a Mertens incrociando Vinicio, Sivori, Juliano, Pesaola, Ferrara, Careca, Maradona, Hamsik, Cavani, ecco la storia azzurra raccontata con aneddoti e gesta dei suoi personaggi più rappresentativi. Passione, sogni, speranze, miracoli e delusioni: il Napoli è Napoli, e viceversa. Una città, un popolo, una squadra.
LanguageItaliano
PublisherDiarkos
Release dateApr 26, 2021
ISBN9788836160846
Le leggende del Napoli. Una città, un popolo, una squadra

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    Le leggende del Napoli. Una città, un popolo, una squadra - Angelo Rossi

    Introduzione

    Mi viene chiesto: vuoi scrivere un libro sul Napoli? L’idea è stuzzicante perché vivo da trent’anni il pianeta azzurro. Però penso: ambizione o desiderio legittimo? L’ambizione non è presunzione e sfornare l’ennesimo libro sulla storia del Napoli non mi avrebbe trovato d’accordo. Raccontare però i personaggi che hanno elevato il club all’ennesima potenza di passione e tifo, questo sì che è stato un progetto da afferrare al volo perché, in fin dei conti, scavare nel passato, chiacchierare con protagonisti vecchi e nuovi, inserire qualche particolare inedito, ci può stare e non mi fa sentire presuntuoso.

    Riassumere la parentesi napoletana di ciascun idolo non è dunque la storia azzurra ma la storia di calciatori diventati leggende. È difficile raccontare Napoli attraverso il Napoli, o viceversa, si rischia di annegare tra luoghi comuni e retorica. Per cogliere le sfumature più evidenti di questo binomio che lega una città straordinaria e unica a una squadra venerata come un culto pagano, mai dimenticare che qui non esiste il derby, c’è il Napoli e basta. Una città, un popolo, una squadra è un concetto nato dall’intuizione del suo fondatore Ascarelli e sviluppatosi fino a diventare eterno.

    Il presidente mecenate acquistò campioni, ingaggiò un allenatore di fama europea, costruì il primo stadio per avere sempre Napoli a fianco del Napoli, per crescere insieme e magari vincere. Lasciò una traccia indistruttibile, indicò la strada percorsa poi dalle nostre leggende, comprese che la città ti fa vivere quel sogno. Un teorema sempre attuale, trasformato novant’anni dopo da Rafa Benítez nel meraviglioso proclama ai tifosi: «procediamo sempre spalla a spalla».

    Non troverete citati tutti gli interpreti di un affascinante racconto lungo un secolo. Sapendo già in partenza di aver scontentato qualcuno, ho immaginato che i campioni descritti siano quelli che meglio di altri abbiano trasferito sul campo la passione della città che non smette mai di gioire, soffrire e inseguire quella cosa. Questo è lo spirito del libro che, spero, riesca a trasmettere l’idea geniale di Ascarelli.

    Giorgio Ascarelli

    Sotto il segno del Leone

    Una città, una squadra. Forse un rapporto simile e così viscerale non era concepibile nel secolo scorso, e forse nemmeno cinquant’anni fa. Forse… Ma non a Napoli dove il binomio è sempre esistito, anzi, è possibile considerarlo esemplare. Calcio-città, inteso come sinergia tra città e istinto di massa, è un indice del nostro tempo dove dominano i media, semplicemente perché lo sport cento anni fa non aveva alcuna dimensione plebea e nemmeno i mezzi per diventare un fenomeno popolare. Negli anni Venti nacque una serie di eventi sportivi: il campionato a girone unico, il pugilato, il grande ciclismo. E vide la luce pure il nostro Napoli, perché nel frattempo lo sport non era più finalmente un privilegio per ricchi ma stava diventando un fatto popolare: la città non era immersa nel grande circuito industriale, era in buona parte plebe e costituiva la maggioranza della popolazione che iniziava a identificarsi nel valore folla-campione. Il calcio sbarcò in città tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, anni in cui esistevano discreti rapporti mercantili, di moda e intellettuali prevalentemente con persone straniere.

    Furono loro a importare il calcio a Napoli. La priorità spetta agli inglesi, per lo più marittimi che sfogavano la loro esuberanza negli immensi piazzali che circondavano il porto, dove venivano organizzate vere e proprie partitine. Così sbocciò il calcio in città: le cronache di allora raccontano di una prima vera partita al Campo di Marte, dove oggi sorge l’aeroporto di Capodichino. Per l’esattezza un triangolare nei giorni in cui venne partorito il Naples Cricket and Football Club, che scelse come colori sociali una maglia a strisce verticali blu e celeste.

    In questo primo Napoli ci sono inglesi, svizzeri, danesi, belgi e un presidente napoletano, l’ingegnere Andrea Salzi. La società viene partorita in un appartamento al terzo piano del centro storico, tra i fondatori anche due inglesi: Potts e Bayon. Dal Naples nacque per scissione l’Internazionale che giocava ad Agnano, e per successiva fusione, l’Internaples: artefice della svolta fu Giorgio Ascarelli, un operatore economico che appartenne alla ristretta colonia ebraica di Napoli. In città erano un centinaio le famiglie discendenti in gran parte dagli ebrei fuggiti dalla Spagna, non partecipavano granché alla vita pubblica ma sul piano industriale, forse più di quello sportivo, Ascarelli era la figura che spiccava maggiormente in quel periodo. Antenati ebrei ma napoletano verace del quartiere Pendino, importante imprenditore del ramo tessile, proprietario di un’azienda talmente sviluppata da poter contare su una filiale in Lombardia, per la precisione a Busto Arsizio.

    Era un uomo molto colto, innamorato di arti figurative, amico di industriali e pittori, con grandi interessi verso lo sport. Figura tra i soci fondatori del circolo Canottieri Napoli e sbarca nel calcio nel 1922 in piena Belle Époque. Non ha nemmeno trent’anni quando entra nell’Internaples, che indossa già un completo azzurro con colletto celeste, quasi bianco, e gioca all’Arenaccia. Il primo giorno di agosto del 1926 Ascarelli, ormai presidente, riunisce il Consiglio direttivo e propone che la squadra cambi dicitura. Ai soci fa un discorso breve e semplice:

    Cari amici, l’importanza del momento e la crescita della squadra ci suggeriscono un nome nuovo che in qualche modo rievochi il cuore e la bellezza della città che ci ha dato lavoro e ricchezza. Propongo che da questo momento in poi l’Internaples diventi per sempre Napoli. Anzi Associazione Calcio Napoli.

    Inizia così sotto il segno del Leone una storia fatta di passione infinita, un romanzo che lega la squadra di calcio alla città in maniera viscerale. Una svolta dettata in parte anche dal momento storico, siamo in piena era fascista: Internaples è un termine inglese, Internazionale suonerebbe come rivoluzionario. Napoli invece va bene perché rientra nella normalizzazione fascista ma soprattutto perché Ascarelli ha intuito che il grande sport popolare sta mettendo radici solide tra la gente: quindi un unico nome per identificare la squadra con la città è perfetto.

    Dopo pochi mesi e risultati deprimenti, ragioni politiche più che calcistiche costrinsero il grande mecenate a farsi temporaneamente da parte. Il federale Sansanelli ne prese il posto, a sua volta scalzato dal podestà Maresca di Serracapriola. Ma c’è sempre Ascarelli dietro le quinte che gestisce il club, tanto da tornare ufficialmente sul ponte di comando nel 1929 quando per la prima volta in Italia si disputa il campionato a girone unico. Ha intessuto rapporti politici e sportivi durante la sua parziale lontananza, vanta amicizie che contano: una di queste è Arpinati, un bolognese a capo della Federcalcio. Quando la retrocessione appare inevitabile, lo incontra e lo convince ad allargare il girone unico, ripescando in un colpo solo Napoli, Lazio e Triestina. Ascarelli, forte della permanenza in A, fa una promessa alla Federazione, la salvezza in cambio del nuovo stadio: ne sognava uno enorme, dovette accontentarsi di 20 mila posti, tribune in legno e progetto consegnato in sette mesi ma il primo passo era stato compiuto. Parte come stadio Vesuvio, siamo nel rione Luzzatti che sorge ai margini della zona industriale, si chiamerà poi Ascarelli e infine Partenopeo perché con il fiato sul collo dei fascisti uno stadio non poteva portare il nome di un ebreo.

    Completata la fusione squadra-città con la costruzione del nuovo stadio, il presidente si concentrò sul rafforzamento della squadra. Ebbe anche un ulteriore, grande merito: quello di credere in anticipo sui tempi di allora alla figura dell’allenatore. Realizzò la sua personale visione portando a Napoli William Garbutt, inglese, un tecnico dalle idee e dalla tattica modernissime, che resisterà ben sei stagioni lasciando un ricordo indelebile. Ascarelli gli mise a disposizione il portiere Cavanna, che era lo zio di Piola, le mezzali Vojak e Mihalich, il centravanti Sallustro, il mediano Buscaglia, il terzino Innocenti. Insomma, un primo gruppo competitivo che ruotava intorno alla figura di un tecnico atipico, brillante nelle intuizioni ma singolare nei comportamenti. Il presidente aveva visto giusto: l’aplomb inglese di Garbutt era il freno perfetto all’effervescenza napoletana, in campo e fuori. Garbutt aveva giocato nell’Arsenal ma si era fatto conoscere sulla panchina e soprattutto in Italia: Genoa la prima tappa, dove allenò per sette stagioni vincendo tre scudetti, poi il Milan e finalmente il Napoli, avendo ceduto all’insistente corteggiamento di Ascarelli. Si presentò allo spogliatoio in questo modo:

    Per fare una buona squadra ci vogliono ottimi elementi, non c’è dubbio, ma questi per diventare fuoriclasse devono saper conciliare tecnica e forza fisica. Non so se tra di voi esiste qualche fuoriclasse e se c’è lo sopporterò: a me interessano calciatori che abbiano grande coraggio e grande cuore. Chi non possiede queste virtù, può salutare la comitiva e andare via in cinque minuti. Chi invece intende restare, tra cinque minuti deve presentarsi nella mia stanza perché voglio stringere la mano uno a uno.

    Pur permettendosi rapporti quasi di amicizia con Ascarelli, l’inglese era un tipo taciturno, fumava la pipa, portava i pantaloni alla zuava, intenditore e bevitore di vini pregiati, un debole per le corse dei cavalli e un carattere intransigente. Non ammetteva alcun favoritismo, tanto meno permetteva intromissioni nelle scelte tecniche. Rispettava i calciatori ma li allenava duramente, tanto da rivoluzionare il lavoro quotidiano: palleggi e dribbling tra paletti, il pallone appeso a una corda perché tutti si abituassero a colpirlo di testa, il piede buono scalzo per allenare l’altro a calciare meglio con la scarpetta e a lui si deve l’introduzione nello spogliatoio delle multe alla squadra in caso di infrazioni disciplinari (multe che consistevano nell’offrire da bere a tutti).

    Garbutt rappresentava la perfetta pedina per le ambizioni di Ascarelli: un allenatore competente per una super squadra, come del resto stava accadendo a Milano e a Torino. Alla prima apparizione in campionato, gli azzurri finirono quinti, successivamente terzi per due volte, sul mercato fece scalpore l’acquisto di Colombari dal Torino per 250 mila lire: se gli altri mettevano in piedi i loro squadroni, Ascarelli non voleva essere da meno. I giocatori non sono più figli di famiglie ricche o borghesi, iniziano a essere calciatori di professione che si allenano tutti i giorni e che si rapportano a un tecnico possibilmente famoso. Appare all’orizzonte la spaccatura tra la squadra di provincia e quella della grande città: si costruiscono stadi enormi per quell’epoca, le campagne acquisti sono sfrenate, aumentano gli incassi al botteghino, e anche i premi ai calciatori.

    Stagioni memorabili perché subito gli azzurri seppero rivaleggiare con chi già comandava il calcio italiano: l’Ambrosiana di Meazza, il Genoa di Libonati, il Bologna di Schiavio, la Lazio di Piola, il Torino di Janni e il Milan di Boffi. Molte furono le imprese: il 5-0 a Modena, la prima vittoria in casa della Juventus nel torneo 1930-1931, il doppio successo di Milano sull’Ambrosiana e quello al Testaccio sulla Roma. Vittorie che contribuirono a mettere in piedi lo squadrone, quello che la mente lucida e generosa di Ascarelli aveva prefigurato in anticipo. Napoli già impazziva per il Napoli, venne ampliato lo stadio all’avanguardia per tecnica e servizi nel giorno del 4-0 alla Triestina. Seguì la rimonta alla Juventus (2-2) prima della doppia trasferta in Lombardia: vittoria a Brescia e allora per premio, non per punizione, squadra in ritiro prolungato sul lago Maggiore. Fu qui, due giorni prima del match contro i rossoneri, il 12 marzo 1930 che giunse la terribile telefonata da Napoli. Chiedevano di parlare a tutti i costi con mister Garbutt ma fu il difensore Innocenti a sollevare la cornetta e a dare la notizia al gruppo: il presidente è morto. A soli trentasei anni, fulminato da una peritonite, dopo aver visto appena i primissimi frutti del proprio lavoro. Città paralizzata da Posillipo al cimitero ebraico per i funerali seguiti da una folla immensa, la squadra volle rientrare a Napoli per salutare il suo presidente. Viaggio notturno in treno in seconda classe e subito in campo all’Arena contro il Milan: 2-2, doppietta di Vojak, tutti con il lutto al braccio, sguardo spento e occhi rossi per la tristezza.

    Il Napoli deve al suo fondatore un merito enorme: aver regalato alla città un allenatore di fama europea, un team competitivo e un vero impianto per il football. Lo stadio Ascarelli, nato come Vesuvio e morto come Partenopeo, vide la luce in un rione popolare. La collocazione venne scelta per valorizzare il quartiere e per legare le fortune della squadra a una fascia di popolazione consistente, operaia e impiegatizia, che poi era quella che rappresentava la maggior parte di Napoli. Non è forse un caso se lo stadio fu distrutto qualche anno dopo la morte del suo fondatore: in esso si sintetizza la storia della città durante l’ascesa del fascismo con la crisi economica, la guerra, i terribili bombardamenti che annientarono lo stadio e rasero al suolo il popolare quartiere dove esso era nato. Ma non la geniale intuizione dell’illuminato mecenate: il binomio una squadra-una città è la traccia eterna lasciata da Ascarelli.

    Attila Sallustro

    Il primo mito

    «Un giorno andremo a vivere a Napoli. È splendida, c’è il sole, il mare, un paradiso: vedrete, vedrete…» La litania di papà Gaetano, farmacista emigrato ad Asunción in Paraguay, alla fine convinse tutti. La famiglia Sallustro (genitori e undici figli) si divise, si imbarcarono sulla nave dall’altra parte dell’oceano la madre, il padre e tre ragazzi. Tra questi c’era Attila, dodici anni quando lasciò il Sudamerica. Anni venti del Novecento, quel tipo di viaggio era quasi un’odissea, un mese in mare aperto prima di sbarcare al vecchio porto di Napoli. Confusione, tanta, polvere al posto dell’asfalto per strada, l’impatto fu quanto meno amletico. Attila si rivolse a papà Gaetano: «Questo sarebbe il tuo paradiso?» E lui «Vedrete, vedrete».

    La storia di Sallustro a Napoli è un autentico romanzo. Fu il primo grande idolo della folla, o l’ultimo dei dilettanti del calcio italiano come amava definirsi. Quando era ancora ragazzino, un medico gli consigliò di fare sport e lui iniziò a tirare calci nei giovanissimi dell’Asunción. Appena mise piede in città, trovò una scuola adatta a lui e la Villa comunale come primo campo di calcio: il Naples e l’Internaples non se lo lasciarono sfuggire, quando Ascarelli fondò il Napoli lui aveva diciotto anni e già indossava la numero 9 azzurra. Il pupillo del mitico presidente sarebbe diventato il re dei napoletani e non solo per le sue doti calcistiche: era alto, biondo, un fisico notevole, bello e piaceva tantissimo alle donne. Idolo perché incarnava il dualismo con il nord: a Milano comandava Peppino Meazza, centravanti dell’Inter e della Nazionale, Napoli rispondeva con il suo leader, meno dotato tecnicamente ma più generoso, più atletico. Una montagna di gol nelle prime stagioni a girone unico con Garbutt in panchina che lo aveva soprannominato Gaucho: lui però resterà per sempre il Veltro, il levriero, impressionante per la velocità dei guizzi con i quali partiva da centrocampo e andava in gol.

    Si fece subito notare e amare per la sua impressionante precisione sotto rete; abitava nella zona chic della città, in via Filangieri, e la domenica dopo ogni vittoria doveva affacciarsi al balcone per salutare i tifosi che lo osannavano. La rivalità con Meazza sfociò anche in Nazionale: Pozzo convocava sistematicamente il nerazzurro e per Sallustro alla fine arrivarono soltanto due chiamate (Italia-Portogallo a Milano e Italia-Svizzera a Napoli). Il ct non aveva particolare simpatia per il calcio meridionale, forse non era nemmeno aggiornato più di tanto: preferiva sempre Meazza, oltre che per l’indiscussa bravura dell’interista, pare anche per la fama di donnaiolo che si era fatto il napoletano.

    Tra i due calciatori c’era stima, forse anche amicizia, e nelle sfide dirette Attila sapeva dare sempre il meglio di sé. In quegli anni mise più volte la firma sulle vittorie contro l’Inter e in una di queste occasioni regalò una medaglia d’oro al rivale. Il Veltro giunse a Napoli in compagnia di uno dei suoi fratelli, Oreste, anch’egli calciatore. Attila si preoccupava tantissimo per lui: voleva a tutti i costi che giocasse bene e questo lo condizionava. Oreste si presentò da mister Garbutt: «Mister non mi faccia giocare sempre con mio fratello, lui ci soffre e non voglio che ne possa risentire anche la squadra». Avrebbero comunque giocato tante altre volte insieme, contribuendo alle fortune di quel Napoli memorabile. Quando i genitori rientrarono in Sudamerica, in città rimasero alcuni fratelli e sorelle accuditi dalla signora Evelina ma era Attila, in assenza della figura paterna, a fare le veci del capo famiglia. Il padre aveva vietato a lui e Oreste di prendere soldi dalla società e anche i premi partita.

    Dopo qualche anno, la popolarità di Attila era salita alle stelle, letteralmente portato in trionfo dopo le vittorie sulla Roma e sulla Juventus. Anni Trenta, in pieno boom il bomber venne richiamato alle armi nonostante fossero state tentate tutte le strade per evitare la partenza. Fu assegnato al Genio di Caserta e poi all’Arenaccia. Per quanto vicino casa, il rendimento diminuì e la squadra, dopo un girone di andata eccezionale culminato con la vittoria in casa dei campioni d’Italia della Juventus, precipitò a metà classifica e salutò mestamente la stagione con due invasioni di campo dell’Ascarelli, che costarono una lunga squalifica. Poi un paio di stagioni altalenanti, dove Sallustro era sempre in cima alle classifiche di gol segnati: a parte un orologio d’oro e una Balilla nera ricevuti in dono da Ascarelli dopo la storica cinquina rifilata in casa del Modena, come abbiamo detto non vide mai una lira. I soldi divennero una necessità alla partenza dei genitori: Attila abbandonò gli studi e passò tra i professionisti perché qualcuno doveva pur pagare l’affitto di casa per mantenere fratelli e sorelle. Partì da 900 lire al mese, quando ormai era diventato l’idolo della città incassava uno stipendio di quasi 3 mila lire con premi partita a parte.

    Uno come lui, e non poteva essere diversamente, poteva permettersi tutte le donne che voleva. Frequentava spesso il Teatro Nuovo per gli spettacoli del varietà, qui incrociava il principe Umberto di casa Savoia che si dedicava alla bella vita più che alla politica: in città il Teatro Nuovo era ormai l’ultimo baluardo della Belle Époque, covo di ballerine bellissime, due su tutte, Charlotte Bergman e Lucy d’Albert. Sia Attila sia il principe furono attratti da quest’ultima, napoletana verace, figlia di un inglese e di una russa. Mentre il principe rimase incerto, Attila fece sul serio e giocò d’anticipo nonostante la differenza di età: lui ventiquattro anni, lei nemmeno maggiorenne.

    In campo, nonostante l’inizio soddisfacente di stagione con nove gol nelle prime nove partite di campionato, le prestazioni si affievolirono: Sallustro era in crisi, profondamente innamorato. Ben presto formò con Lucy una coppia perfetta, invidiata, sapeva benissimo però che le fortune della squadra erano legate alle sue scarse condizioni di forma. Ci mise l’anima per recuperare smalto, velocità e fiuto del gol ma alla lunga il matrimonio lo avrebbe condannato per ovvie ragioni alla flessione atletica. Non prima, comunque, di aver ottenuto

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