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Troppe Coincidenze
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Troppe Coincidenze

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About this ebook

Una puntuale e affascinante carrellata sulla storia politica e istituzionale del nostro paese in cui si esamina, tra i vari argomenti, l’evoluzione della mafia, che ha saputo cogliere, sempre in anticipo, i cambiamenti della società, inserendosi purtroppo ogni volta nelle attività di maggior profitto. 
Non manca il profondo dolore per le stragi mafiose. In una di queste è stato ucciso il collega e amico Giovanni Falcone, una ferita che non si è mai rimarginata, e nelle pieghe dell’anima il recondito sospetto che forse, se non avesse cambiato ruolo poco prima, il prossimo sarebbe stato proprio Giuseppe Ayala. 
Una lucida e coinvolgente analisi compiuta da chi i fatti li ha vissuti anno dopo anno in prima persona, prima come braccio destro di Falcone, poi come parlamentare spettatore della crisi portata da Tangentopoli, della discesa in campo del Cavaliere e altri innumerevoli fatti che hanno fortemente e inevitabilmente trasformato per sempre il nostro paese. Il tutto descritto con un acuto piglio ironico, quel tanto che basta per vedere la luce anche nell’oscurità.

Giuseppe Ayala è nato a Caltanissetta il 18 maggio 1945. Dopo la laurea in giurisprudenza, esercita la professione di avvocato. Entra in magistratura ed è sostituto procuratore della Repubblica di Palermo, collaborando con il pool antimafia per parecchi anni. È stato pubblico ministero al primo maxiprocesso, diventando poi Consigliere di Cassazione.
Nel 1992 viene eletto alla Camera dei deputati, poco prima dell’omicidio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Nel 2006 chiude l’esperienza politica e rientra in magistratura.
Dal dicembre 2011 è in pensione.
LanguageItaliano
Release dateJun 30, 2022
ISBN9788830666214
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    Troppe Coincidenze - Giuseppe Ayala

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    Giuseppe Ayala

    TROPPE COINCIDENZE

    Mafia, politica, apparati deviati, giustizia:

    relazioni pericolose e occasioni perdute

    Published by arrangement with Delia Agenzia Letteraria.

    © 2022 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-5325-2

    I edizione maggio 2022

    Finito di stampare nel mese di maggio 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    TROPPE COINCIDENZE

    Mafia, politica, apparati deviati, giustizia:

    relazioni pericolose e occasioni perdute

    Ai contemporanei che, come me, vivono a disagio nella contemporaneità.

    Ma non si arrendono.

    Un ringraziamento particolare va a mia moglie, e per molte ragioni.

    Lei le conosce.

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Premessa

    Ho vissuto per almeno quarant’anni della mia vita una striscia di tempo che mi sembra ancora appartenere alla cronaca. Alludo ai giorni in cui gli eventi della politica si intrecciarono con quelli criminali, sino al punto da marchiare la gran parte dei percorsi che hanno segnato il destino del paese.

    L’attualità ci sorprende spesso per le modalità con cui si sviluppa. Un’analisi attenta dei fatti avvenuti consente, però, di riportare alcune circostanze misteriose alla loro effettiva dimensione di conseguenze non casuali.

    Ho vissuto da testimone diretto molte di queste vicende.

    Le più lontane nel tempo nella mia Sicilia, dove un esercito criminale decise di attaccare lo Stato costringendolo a uno scontro frontale. La risposta delle istituzioni fu pronta ma, poi, per ragioni solo in parte chiarite, a rapide avanzate seguirono smarrimenti e ripiegamenti.

    Si inserirono in quel conflitto anche pezzi deviati dello Stato, apparati malati che, indossando la cravatta di rito, tramavano giocando la loro sporca partita in mezzo alle bombe della devastazione.

    Il caso volle che nel 1992, poco prima delle tremende stragi di Capaci e via D’Amelio, cambiassi ruolo. Passai da un osservatorio privilegiato a un altro. Non più pubblico ministero a Palermo, ma membro del Parlamento proprio in coincidenza con una svolta senza precedenti. Travolto dal ciclone di Tangentopoli, crollava un intero sistema di potere. Usciva di scena la Prima Repubblica per cedere il posto alla Seconda.

    In quella fase l’Italia sembrava volersi cancellare per riscriversi da cima a fondo con un linguaggio nuovo, ripulito da ogni nefandezza. L’opinione pubblica si mostrava risvegliata e rinnovata in ogni sua piega. La grande occasione era a portata di mano. Ma il filo che in quegli anni ha tracciato le sorti del nostro paese ha finito con il tenere legati gran parte degli slanci e delle speranze.

    Mentre la rivoluzione morale provava a farsi largo, altre bombe esplosero nel 1993, lasciando a terra cadaveri e misteri. Non sopravvisse neppure il rinnovamento politico e istituzionale che sembrava alle porte. La sua energia ripiegò verso un’Italia guidata più dalla pancia che dal cuore.

    In realtà, mentre il paese si affaccia a nuovi cambiamenti, l’epoca che ho deciso di analizzare si accinge a diventare storia. Un passaggio durante il quale, però, è più che mai necessario che i buchi neri che la punteggiano siano finalmente rischiarati dalla luce della verità.

    Non sarà facile. Ma dobbiamo crederci, tenendo la fiammella della speranza al riparo dal vento dell’oblio.

    Introduzione

    L’aeroporto di Fiumicino è un luogo che frequento molto spesso. Sono abituato al brusio che lo attraversa, al susseguirsi degli annunci dei voli in partenza, all’andirivieni dei passeggeri costretti ad attendere per un’eternità l’aereo che li porterà a destinazione o, al contrario, a correre come disperati per raggiungere il gate che li aspetta per l’imbarco.

    Invece, nella serata del 23 maggio 1992, attraversai il grande salone che mi separava dal Club Freccia Alata senza percepire null’altro che i passi dei ragazzi della scorta che correvano al mio fianco. Giovanni e Francesca erano morti. E con loro anche tre angeli custodi che conoscevo benissimo. Ero concentrato con tutto me stesso su un solo obiettivo: arrivare a Palermo al più presto.

    Non avevo biglietto, né prenotazione. La prima voce che sentii distintamente fu quella della hostess, consapevole del mio problema, ma costretta lo stesso a comunicarmi che il volo era già chiuso e, per di più, completo. Il successivo sarebbe decollato due ore dopo.

    La guardai negli occhi per un po’. Non dissi nulla. Avvilito e rassegnato, mi sedetti su un divano.

    Dopo qualche minuto fui costretto a rialzarmi. La hostess aveva lasciato il suo banco e correva verso di me: «Onorevole, può imbarcarsi. Faccia presto, il comandante l’attende».

    «Ma il volo non era pieno?» farfugliai.

    «Certo, ma un passeggero ci ha comunicato di rinunciare pur di consentire il suo imbarco. Le ha ceduto il posto.»

    Con l’animo gonfio di gratitudine nei confronti dell’ignoto benefattore raggiunsi di corsa il mio posto in fondo all’aereo. Allacciai la cintura di sicurezza, alzai lo sguardo e notai una giornalista e un cameraman del Tg3 avvicinarsi e chiedermi un commento su quanto era avvenuto due ore prima a Palermo.

    «Mafia è poco. Non è solo mafia.» Sono queste le parole a cui affidai una sorta di istintivo sfogo del pensiero che, più di ogni altro, in quel momento mi martellava il cervello: l’esecuzione della strage è mafiosa; la matrice, però, è più complessa e non fa capo soltanto a Cosa Nostra. Rivendico di essere stato il primo a dichiararlo ai mass media, cedendo a una spinta emotiva, visto il momento, ma ciò non toglie che non mi pento affatto di aver detto quelle parole. In quei drammatici momenti avvertivo di essere preda di due sentimenti fortissimi. Dolore, certo, e tanto. Ma anche rabbia. Molta rabbia. Registravo una frenetica attività del mio cervello. Mi venivano in mente in modo tumultuoso valutazioni e correlazioni tra fatti che elaboravo alla disperata ricerca di capire, di inquadrare, di mettere a fuoco le ragioni che erano concorse a realizzare lo scenario che aveva portato alla tremenda strage di quel giorno.

    Stragi e coincidenze

    Una coincidenza temporale attrasse, a un certo punto, la mia riflessione.

    Ero stato eletto deputato da poco più di un mese. L’undicesima legislatura si era aperta con l’elezione di Oscar Luigi Scalfaro alla presidenza della Camera. Poi erano iniziate le votazioni per l’elezione di un altro presidente, quello della Repubblica. Francesco Cossiga, infatti, si era dimesso subito dopo la recente consultazione elettorale. Le sedute si susseguivano senza che alcun candidato riuscisse a raggiungere il quorum necessario. Nei lunghi intervalli, passeggiando in Transatlantico, ero stato informato delle difficoltà che, all’interno della Dc, incontrava il varo della prevista candidatura di Arnaldo Forlani. Il 16 maggio, arrivato in aula, appresi che quelle difficoltà erano state superate. Il voto di quel giorno, quindi, avrebbe riguardato proprio Forlani. Al termine dello scrutinio, però, contrariamente alle previsioni dei più, non si passò alla proclamazione dell’eletto. Erano mancati all’appello trentanove voti, che si ridussero a ventinove nella successiva votazione pomeridiana. La candidatura di Forlani venne ritirata. Il Quirinale continuava a rimanere senza inquilino.

    Si materializzò, a quel punto, una frenetica attività degli andreottiani. Iniziata, per la verità, con tutta la discrezione del caso, sin dalle prime votazioni, ma rimasta sotto traccia. Incassata la bocciatura di Forlani, i giochi si riaprirono e vennero allo scoperto. I parlamentari furono contattati uno per uno, me compreso, per saggiare la loro disponibilità a orientare il proprio consenso in favore del sette volte capo del governo. Cresceva e si diffondeva la convinzione che a una delle prossime votazioni Giulio Andreotti sarebbe stato trasferito da Palazzo Chigi al Colle più alto. Probabilmente già da lunedì 25 maggio.

    Mentre l’aereo iniziava la sua discesa verso Punta Raisi, mi chiedevo: dopo la strage di oggi, rimarrà in piedi la candidatura di Andreotti? Sul candidato in pectore si addensavano ombre che la drammatica straordinarietà di quel giorno rendeva assai cupe. Tra le tante, l’antica accusa di eccessiva prossimità politica con l’onorevole Salvo Lima, da sempre ritenuto contiguo agli ambienti mafiosi. Non c’erano processi a suo carico, è vero. Ma gli atti della Commissione antimafia che lo riguardavano pesavano come macigni.

    Lima era stato ucciso il 12 marzo di quell’anno. Cosa Nostra gli aveva presentato il conto del promesso, ma mancato, aggiustamento del Maxiprocesso che aveva superato indenne il vaglio della cassazione il 30 gennaio. Condanne pesantissime, tra le quali l’ergastolo per tutti i capi di Cosa Nostra, erano ormai definitive.

    A quel punto, anche Andreotti agli occhi della mafia era diventato un traditore. Il potere che Lima si era impegnato a far pesare sul verdetto della cassazione non era certo quello suo personale, di sicuro non sufficiente, ma quello del suo dante causa politico. Non c’era neanche bisogno di esplicitarlo. Quel potere, però, era rimasto inerte. E la mafia ne aveva tratto già una prima conseguenza con l’uccisione di Lima. Figurarsi se poteva restare indifferente all’ascesa del dante causa al Quirinale. Un’onta, uno sfregio: così sarebbe stata vissuta dai mafiosi la sua elezione. E non solo da loro, ma anche dai settori contigui del potere.

    L’interrogativo che ponevo a me stesso sugli effetti di quella coincidenza temporale risultò più che giustificato. In quel momento non potevo saperlo, ma la risposta era già arrivata mentre volavo verso Palermo e si materializzò nell’immediata rinuncia da parte di Andreotti a ogni ambizione quirinalizia.

    Nella stessa serata del 23 maggio, infatti, Claudio Petruccioli, che aveva curato le trattative politiche per l’elezione del presidente della Repubblica per conto del Pds, ricevette una telefonata dall’andreottiano Nino Cristofori, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, che gli chiedeva un incontro urgente. Ricorda Petruccioli nel suo Il Rendiconto che «quel sabato pomeriggio piombò la notizia dell’attentato a Falcone». E soggiunge: «L’impressione fu enorme. Lo sbandamento anche. Mi telefonò Cristofori: voleva parlarmi. Andai da lui. Mentre percorrevo i pochi metri che separano Palazzo Chigi da Montecitorio cercavo di immaginare cosa mi avrebbe detto. Pensavo all’ennesima versione del discorso dell’emergenza: Siamo a un punto gravissimo, dobbiamo trovare l’unità di tutti, chi meglio di Giulio può renderla possibile, ecc. ecc.. Sbagliavo. Trovai Cristofori pallidissimo, prostrato. Quel che mi disse non lo

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