I segni nascosti
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Mentre il Re Gösta si interroga sulle azioni compiute e sui sentimenti che lo animano a guerra conclusa, dubitando, per la prima volta, della direzione che da molto tempo, ormai, ha dato alla sua esistenza, il destino di un altro uomo si intreccia al suo: è quello di Martin, alla disperata ricerca della piccola Eli, sua figlia, sparita durante l’incendio della capitale di Grande Settentrione.
Attorno a loro si muovono altri personaggi: Sigurd, un vecchio viandante che sta andando a morire in un luogo dove le anime vivono una sorta di Paradiso in terra; Eveldon, il falconiere venuto da Sorgere del Sole per dare la caccia a Urian; Ramwal, un giovane guerriero che con i suoi pochi seguaci si oppone al Re. Insieme, si imbattono nella violenza delle genti dell’Altopiano, la cui mente è avvelenata da Urian, nella crudeltà di sacrifici rituali, nelle insidie di castelli abbandonati e boschi solitari, nei pericoli provenienti dal serpente-drago e dal Re.
Ambientato in un mondo immaginario di matrice nordica, sullo sfondo della storia si combinano temi fantastici ed elementi di ispirazione cavalleresca.
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I segni nascosti - Giancarlo Corsetti
Prologo
Era quasi l’ora del tramonto. La luce del sole si stendeva esausta sulle foglie dei grandi faggi che crescevano ovunque sulla collina. L’aria era piena di bagliori e di ombre.
I cani correvano agitati, su e su nella boscaglia. La battuta di caccia durava dalle prime luci dell’alba; a mezzogiorno, Gösta aveva lasciato che gli uomini si dirigessero a nord del bosco, verso il rifugio, e aveva continuato da solo la ricerca del grande cervo dalle corna d’oro che viveva nel profondo della selva.
Sull’altura non si udiva più nulla. Non si vedevano tracce: forse l’animale era troppo lontano. Gösta stava per rinunciare, quando i cani iniziarono a guaire spaventati. Capì subito che, loro malgrado, non avevano incontrato un semplice cervo.
Avvicinandosi in sella al suo cavallo, da lontano scorse delle presenze scure che incombevano su una macchia della vegetazione; comprendendo i contorni paurosi delle figure che s’intravedevano tra i rami, Gösta trasalì e si fermò, prima di essere visto, dietro il fusto di un giovane albero.
All’interno del bosco, proprio vicino a una vecchia baracca usata dai taglialegna, cinque lupi enormi dai mantelli grigio-porpora si erano fermati a bere a una sorgente d’acqua, in una radura di terra soffice che si apriva sotto le fronde dei faggi.
Accortisi della presenza dei cani da caccia, i lupi avevano alzato le teste quasi all’unisono. Gösta vide nei loro occhi uno scintillio feroce.
Sentì aumentare il ritmo dei battiti del suo cuore.
Quelli sono horm, lupi posseduti dai demoni, si disse.
Il pericolo di quell’apparizione gli si mostrò istantaneamente: il branco dei grigio-porpora avrebbe potuto attaccarlo, e forse anche ucciderlo, di lì a pochi secondi. Percepì l’istinto della fuga balenare nella sua mente, ma riuscì a dominarsi. Pensò, febbrilmente, che se i lupi avessero avvertito nell’aria le vibrazioni della sua paura lo avrebbero individuato e sarebbero corsi, sicuramente, nella sua direzione.
I cani erano rimasti fermi in un punto in cui il terreno scivolava verso la sorgente, a trenta lunghezze dal branco.
Gösta vide le ombre nere dei lupi correre a grande velocità, su per il declivio, in direzione dei segugi. In un momento, furono loro addosso, azzannando le gole e graffiando e mordendo i corpi senza difesa dei poveri animali, che cadevano a terra incendiati dal terrore.
Alcuni cani cercarono di scappare, ma gli horm li raggiunsero con crudeltà, rovesciandosi su di loro, strappandone a morsi le carni, disputandosene le zampe e le viscere.
Con gli occhi fissi sul massacro che continuava, Gösta ebbe la sensazione di avere un ruolo limitato in un incubo a occhi aperti. Fu indeciso se intervenire comunque o scappare: i suoi segugi ormai erano stati uccisi. La guerra contro gli orchi era finita da tempo e da allora lui non aveva più combattuto in uno scontro corpo a corpo. Quale sarebbe stata la sua velocità? Avrebbe potuto raccogliere le forze e tentare di usare la magia, ma non era sicuro di farcela. La difficoltà di concentrazione avrebbe potuto essergli fatale.
Sarei un re ben minuscolo se usassi la magia contro un branco di bestie, si rimproverò con fermezza; per un attimo si affacciò nella sua mente, a rinsaldare quell’idea, la figura senza eguali di Urian.
Non posso fuggire e lasciarli morti così, si disse. Sono i miei cani. Quest’ultimo pensiero gli fece salire il sangue alla testa e lo spinse a farsi avanti.
Strinse le gambe ai fianchi del cavallo e lo incitò ad attaccare con grande velocità verso quello che gli sembrò il più grosso degli horm.
Passò la mano destra sulla spada e appena fu vicino all’animale si abbassò rimanendo in sella e lo colpì alla testa, uccidendolo sul colpo. Si guardò velocemente intorno e vide che gli altri quattro lupi-demoni si stavano lanciando contro di lui. Decise che doveva scendere dal cavallo perché l’animale, che gli era servito per lanciare l’attacco in velocità, nel seguito dell’azione avrebbe potuto rallentarlo o, addirittura, ostacolargli la difesa nel corpo a corpo.
Saltò a terra e si precipitò contro un altro horm, conficcandogli la spada in un fianco, sfondandogli il torace. Il cavallo, scartando, travolse le altre belve, frenandone l’attacco. Quindi, istintivamente, Gösta si girò di scatto. Compiendo un movimento rapido su se stesso, riuscì a tagliare al ventre un’altra bestia, poco prima che gli infilasse i denti nella carne del braccio.
A quel punto si accovacciò e sentì che la sua paura iniziale si era trasformata in puro istinto assassino. Guardò i due lupi rimasti e capì che erano in preda a un profondo terrore. Lanciò un urlo e quelli, ormai abbandonati dai loro demoni, corsero via all’istante, sparendo tra gli alberi.
Si guardò intorno. Sentì che gli mancava il respiro e capì che avrebbe potuto morire da solo in quel bosco.
Rimase immobilizzato tra le carcasse dei lupi e quelle dei poveri segugi, riverse tra le macchie di sangue sparse sul terreno. Non era la prima volta che si trovava in un luogo avvolto dalla morte, ma rifiutava di accettare l’idea che i cani fossero morti per causa sua. Realizzò in fretta che non avrebbe avuto la meglio sul branco degli horm se non avesse avuto il tempo di approntare con lucidità il suo spirito al combattimento. I cani con il loro sacrificio gli avevano salvato la vita.
Per quanto cercasse, per molto tempo non riuscì a staccare lo sguardo dalle ferite dei segugi uccisi. Nell’occhio di uno di essi c’era un’infelicità che lo attraversò, dura come il piombo. Si sentì privo di forze.
Prima di mettersi alla ricerca del cavallo, che era corso chissà dove, si sedette su un tronco d’albero tagliato e restò fermo per qualche minuto. Pareva che tutte le cose sullo sfondo della scena ruotassero intorno a lui, inclinandosi di fianco, come se la luce del sole morente, entrando attraverso le foglie degli alberi, facesse ondeggiare il bosco, ingrandendolo. Stava ancora sudando per l’eccitazione della lotta.
Mi sono salvato perché hanno attaccato per prima la muta dei cani; ho avuto il tempo di abituarmi alla tensione. Se avessi cercato di fuggire mi avrebbero scoperto e per me sarebbe stata morte certa: non sarei stato in grado di affrontare una situazione simile. È stata la volontà e non la paura a guidarmi nel combattimento. La mia forza e la mia intelligenza continuano ad appartenermi.
Come uscendo da se stesso, si sentì riempire di orgoglio all’idea di possedere ancora quel cuore di tenebra che tante volte gli aveva dato la vittoria in battaglia.
Sono io l’essere più pericoloso qui, si disse, come se fosse l’osservazione più naturale da fare in quella situazione, mentre fissava lo sguardo sulle belve che aveva ucciso. Faggi, gerani e orchidee dai fiori verdi sfumati di rosa crescevano ovunque intorno a lui, facendo da flora ornamentale a quel massacro. In pochi attimi, l’intero corso dei suoi pensieri era cambiato.
Se qualcuno, in quel momento, fosse passato in quella zona della selva e lo avesse visto, avrebbe pensato che il Re fosse uscito di senno. Dopo un’ultima occhiata ai corpi vuoti dei lupi demoniaci, Gösta aveva abbassato la testa tra le spalle e, con lo sguardo fisso a terra e i gomiti sulle ginocchia, aveva cominciato a ridere forte.
1
Era pomeriggio inoltrato sull’Altopiano e da sud soffiava una brezza leggera.
Il sole di fine inverno illuminava i resti di un baraccamento di lavoranti, incredibilmente grande, in cui il paesaggio era stato inghiottito. Le casupole che lo componevano stavano in fila, grigie e giallognole, come macchie spettrali, trasmettendo una vaga impressione di operosità per com’erano disposte meccanicamente, l’una di fianco all’altra, fino a una distanza di centinaia e centinaia di metri in avanti e di lato rispetto all’osservatore.
Tuttavia, c’era un singolare silenzio nella landa desolata. Il campo di lavoro, che in un’epoca imprecisata doveva esser stato un crocevia fragoroso di carri, uomini e occupazioni, era in tutto e per tutto abbandonato.
Solo due giovani uomini a cavallo girovagavano come fantasmi tra gli edifici, fermandosi di tanto in tanto a osservare da vicino le facciate cadenti, sporgendosi a guardare oltre i vetri delle finestre rotte, appressandosi a indicare gli usci delle porte divelte. I due, che si chiamavano Martin e Drystan, erano così assorti nella perlustrazione, che quella doveva essere la loro prima volta in quel singolare insediamento.
Erano smilzi e ben vestiti, con camiciotti stretti e pantaloni verde-blu; il che si addiceva molto al loro antico impiego di tessitori già al servizio dei signori più ricchi di Grande Settentrione; del resto, quelli che indossavano erano, insieme a pochi altri abiti di valore che tenevano nelle loro borse, tutto ciò che avevano potuto portare con sé la notte in cui erano stati evacuati dalla Città che rovinava tra le fiamme e trasportati, contro la loro volontà, fino alle terre di Grande Meridione.
Nel loro soffermarsi agli incroci e scambiarsi parole sembravano legati in ogni momento da un filo sottilissimo, come quelli che si incontrano nei rapporti d’amicizia profondi.
Le baracche e le capanne quadrate del campo erano divise da piccole strade in cui la luce del sole si infilava con la sua naturale forza fluttuante, riempiendo le pareti e le facciate e stimolando nei due viaggiatori vaghe, incoerenti fantasticherie su quali fossero stati i sentimenti e i dialoghi della gente che aveva animato le forme materiali di quel luogo.
In quell’area deserta dell’Altopiano, che Martin e Drystan attraversavano a cavallo respirando l’aria dell’inverno morente, c’era stata, prima della guerra contro gli orchi e dell’incendio della Città, una foresta primordiale, rigogliosa e immensa.
Sennonché, la costruzione urgente di decine e decine di forni per la lavorazione dei metalli, indispensabili negli anni del conflitto per produrre armi, ferro e corazze, aveva imposto il taglio di tutti gli alberi: per ordine del Re Gösta erano stati abbattuti esattamente tremilacinque abeti e novecentotrenta larici.
Com’è penoso tutto questo, avevano pensato a quel tempo coloro che, prima della guerra, avevano visto ed esplorato quel bosco maestoso, pieno di fiori rosati e azzurrognoli. Era impossibile stancarsi della vista della selva che il popolo chiamava Samudorro, ripetevano gli antichi visitatori della foresta; tuttavia, gli alberi erano stati abbattuti per far posto ai mulini e ai carboni ardenti dei forni.
Il Re Gösta era stato costretto al disboscamento per non lasciare che gli orchi continuassero a incombere sulla regione dell’Altopiano, sfigurando facce e rompendo ossa.
I loro occhi arancioni e i loro musi sprezzanti, dalle carni verdastre, rosse e violacee, erano dappertutto; un canto di morte si levava nei castelli del regno. Cos’altro poteva fare il Re, per distruggere i mostri che inesorabilmente avanzavano, a migliaia? La belligeranza era arrivata alla sua notte più buia e la resistenza non aveva avuto alternativa. Non c’era stata la minima probabilità di riuscire a ristabilire l’antica, pacifica convivenza tra i due popoli, degli uomini e degli orchi, che era stata decisa ai tempi in cui era nato il regno millenario di Grande Settentrione.
Il velo della civiltà era stato strappato del tutto.
Durante la guerra il campo era stato pieno di fatiche, suoni e avvenimenti. Finito il conflitto, tuttavia, ciò che restava sulla terra battuta erano file di costruzioni simili a scatole vuote, disposte lungo assi perpendicolari; il luogo era stato, letteralmente, lasciato a se stesso. Solo di tanto in tanto si intravedevano sulla terra pochi arbusti e spini selvatici.
C’erano stormi di uccelli, forse passeri e capinere di ritorno dal sud, che volavano sopra i due viaggiatori, formando masse che si univano e si dividevano, riempiendo di vita la solitudine del posto. Nessun uomo popolava il paesaggio all’infuori di Martin e Drystan.
Drystan diceva qualche cosa ogni tanto e canticchiava distrattamente una canzonetta nella lingua delle Isole. Martin era assorto nei suoi pensieri. Osservava con occhi trasognati l’immobilità definitiva di quel luogo che li accoglieva. Si guardava intorno cercando di rendersi conto da quanto tempo le cose che lo circondavano avessero cessato di essere vitali, al punto che qualsiasi patina dell’uso umano sembrava ormai sparita da decenni.
Non erano trascorsi, invece, neanche due anni dalla fine della guerra combattuta dal Re Gösta contro l’armata guidata da Hering, l’orco dalla statura di tre uomini. Certo, a patto che la guerra potesse dirsi realmente conclusa; prima o poi, qualcuno degli orchi sopravvissuti avrebbe potuto stancarsi di soffocare il suo istinto assassino. Una nuova guerra sembrava, a ogni modo, lontana.
Con le spade e gli scudi forgiati nel Samudorro il Re aveva armato i suoi soldati migliori, inquadrati nella compagnia dell’Aquila Rossa, per arginare la marea crescente di nemici. Le aquile rosse lottavano senza corazza, selvagge e forti; mordevano e assalivano gli orchi sfidandoli senza paura, conservando intatto il coraggio ancor prima del corpo, come erano state addestrate a fare dal Re Gösta e dal generale Will. In ogni giorno dei nove anni della guerra contro Hering, il Re era andato feroce come un lupo alla testa dei suoi uomini, cacciando i nemici, abbattendoli con la sua spada e con il suo furore.
Martin sospirò. Per quanto gli orchi adesso si tenessero alla larga, nascosti dentro le grandi caverne del sottosuolo, tutto recava ancora scritta la loro presenza.
Non era solo quella riflessione a renderlo infelice.
Ricordava, come immagini sbiadite dal trascorrere del tempo, Eli e Linda. Eli giocava fuori l’uscio di casa mentre qualche nuvoletta sfrangiata scorreva nel cielo deserto; in lontananza, oltre le spalle di Linda, c’era, non visto, il mare. In quell’epoca della sua vita, Martin pensava che avrebbe vissuto in maniera sempre uguale, giorni e anni, insieme a sua moglie e sua figlia, in quella casa: doveva essere quella, la felicità cui fermarsi, il fine ultimo dell’esistenza. Nessuna avventura, niente imprevisti.
Ora che, invece, lui e Drystan si trovavano a quasi un anno dalla loro partenza da Grande Meridione, dove le guardie del Re li avevano condotti dopo l’incendio della Città, e al ventesimo giorno consecutivo di cammino senza avvistare un villaggio, Martin pensò con dispiacere che, oltre a non avere ancora nessuna notizia di Eli, prima di procedere oltre avrebbero dovuto passare di nuovo la notte in un riparo di fortuna. Sognava un bagno caldo e un letto comodo, ma sapeva che quello che lo aspettava erano delle gallette di riso razionate e uno dei capanni abbandonati dai mastri ferrai, con il tetto coperto da rami secchi intrecciati e vecchie pelli di animale.
All’inizio, quando erano entrati nel campo di lavoro, avevano preso per direzione di marcia