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Fabrizio De André l'ultimo trovatore
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Fabrizio De André l'ultimo trovatore

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Amato da intere generazioni, letto e studiato in antologie letterarie, Fabrizio De André continua ad ispirare biografie e iniziative musicali.
L’autore compie, in questo volume, un viaggio intorno al mito De André ponendo la propria attenzione soprattutto sugli aspetti musicali, sulla personalità di Faber, sulla sua profonda genovesità che gli ha ispirato pagine di notevole fascino come Creuza de mä. Emerge il ritratto di un artista di profonda cultura, abile nel trovare, di volta in volta, i compagni d’avventura giusti, pur mantenendo sempre un proprio, inconfondibile «marchio» di fabbrica.
Anarchico solitario e irriverente, laico dalla intima vena religiosa: l’autore lo immagina come una sorta di ultimo trovatore genovese, non più al servizio dei potenti, ma solo di se stesso e della sua fede morale.
LanguageItaliano
Release dateOct 14, 2013
ISBN9788875639228
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    Fabrizio De André l'ultimo trovatore - Roberto Iovino

    Prologo

    Ci sono musiche e musicisti che ti seguono tutta la vita e diventa inevitabile, ad un certo momento, occuparsene. Ci sono musiche e musicisti che attraversano la tua esistenza all’improvviso, inaspettati, suggeriti da altri. E, a volte, ti catturano.

    Nella mia attività di scrittore di fatti musicali, Fabrizio De André appartiene alla seconda categoria.

    Da giovane ne cantavo (come tutta la mia generazione cresciuta intorno al Sessantotto) le prime canzoni, attratto dalle grottesche disavventure di Re Carlo o dalla dolce Marinella o ancora dalla disarmante e masochistica bontà dello sfortunato Piero. Poi i miei interessi hanno imboccato altre strade e confesso di essere stato un ascoltatore alquanto distratto delle successive e pur importanti fatiche poetico-musicali di Fabrizio De André.

    Quando l’editore Frilli mi ha proposto di scrivere un libro sul mio illustre concittadino, ho avuto, pertanto, non poche perplessità.

    Un altro libro su De André! La bibliografia è incredibilmente vasta se si considera che Fabrizio ci ha lasciato da soli sette anni.

    Cosa dire di un artista che è diventato un mito per intere generazioni? Tutti i cantautori si sono inchinati a lui, eleggendolo a loro padre. Solo Battisti ebbe a suo tempo il coraggio di tirarsi fuori dal coro, non risparmiandogli qualche critica; e la quasi unanimità di consensi post mortem, debbo dire, mi è sempre parsa sospetta, quasi che parlar bene di De André fosse una sorta di obbligo morale.

    Mi sono, dunque, preso un periodo di riflessione e ho cominciato ad ascoltare. I vari Lp, le singole canzoni, le riletture del suo repertorio da parte di altri artisti.

    Ho letto e visto in video interviste. E direi che mi ha interessato prima l’uomo che l’artista. La sua cultura, il suo modo di esprimersi, estremamente controllato, la parola giusta al momento giusto; come nei suoi versi, cesellati con la passione e la meticolosità di un letterato finissimo.

    E poi, la sua genovesità, nella quale mi sono rispecchiato. La riservatezza e l’ironia, l’apertura mentale di chi guarda il mare e sa vedere (e immaginare) oltre, il mugugno e la tolleranza, la coerenza morale e la libertà intellettuale.

    Ho così cominciato il mio viaggio esplorativo intorno al mito De André. Mi sono ritrovato a passeggiare per via del Campo, a raggiungere Sant’Ilario per immaginarmi Bocca di Rosa, a inerpicarmi su per una creuza, a sostare davanti alla sua tomba a Staglieno.

    Ho cercato di ascoltarlo, di capirlo, di analizzarlo. Ho rivissuto episodi della mia vita e della società in cui sono cresciuto, alla luce delle sue canzoni, condividendo o meno, a seconda dei casi, le sue parole. Non vorrei usare il termine messaggio perché lui non gradirebbe. E

    non credo che a De André interessasse tanto convincere i propri ascoltatori (e lettori) quanto indurli a riflettere.

    Ha finito per affascinarmi, suscitando tuttavia in me anche non poche perplessità. Non lo considero il padre di tutti i cantautori, trovo altrettanto importante il ruolo esercitato da altri artisti (ad esempio Modugno o lo stesso Battisti, almeno sul piano musicale). Amo alcuni suoi lavori, meno altri. Ma credo sia normale per un artista che, come un intrepido navigatore genovese d’altri tempi, ha esplorato lidi lontani e diversi fra loro ed ha avuto la capacità di far imboccare alla canzone d’autore, sulla scia dei francesi, una strada che sarebbe stata poi seguita da molti altri.

    Il risultato è questo libro che contiene il Fabrizio De André che non ho conosciuto direttamente, ma che mi sono ricostruito attraverso le sue canzoni, immaginandomelo come una sorta di ultimo trovatore genovese, non più al servizio dei potenti, ma solo di se stesso e della sua fede morale. Distaccato, ironico, intelligente nel non prendersi mai troppo sul serio, rifiutando il ruolo di predicatore che sarebbe stato persino troppo facile farsi cucire addosso.

    Ringrazio quanti mi hanno aiutato in questo lavoro. Innanzitutto l’editore che mi ha offerto il libro, spingendomi in questa avventura. E poi Ines Aliprandi, Gianna Calcagno, Vittorio Centanaro, Vittorio De Scalzi, Ileana Mattion, Giampiero Reverberi, Paola Siragna, Stefano Verdino.

    I.

    Gli inizi

    Fra Backhaus e Claudio Villa

    Il 1955 fu un’annata importante per il Carlo Felice. Il vecchio Teatro del Barabino, tornato in attività dopo le laceranti ferite della guerra, scoperchiato, ma non abbattuto, rappresentava allora il motore della rinascita culturale di Genova, una città che nei bombardamenti aveva perso quasi tutti i suoi palcoscenici storici, dal Politeama Genovese, al Paganini, al Politeama Regina Margherita.

    In quel 1955, era stato inaugurato il nuovo Politeama Genovese e il sipario del Carlo Felice (dall’anno precedente dotato di un’orchestra stabile) si aprì per la prima volta su Porgy and Bess capolavoro d’oltreoceano di Gershwin (e fra le interpreti c’era la giovanissima Gloria Davy). Ma propose anche due titoli di uno dei più lucidi autori di teatro musicale del tempo, Giancarlo Menotti (La Medium, Il telefono) e la prima assoluta del Prometeo di Luigi Cortese, il più autorevole compositore genovese del Novecento, formatosi alla scuola di Alfredo Casella, ma con profondi legami con la cultura parigina (non a caso aveva firmato le sue prime opere con il nome di Louis). Il mondo musicale non si limitava all’opera. In estate ai Parchi di Nervi era nato il Festival del Balletto voluto da Mario Porcile. E in dicembre il Carlo Felice ospitò due mostri sacri della tastiera, Wilhelm Backhaus (7) e Wilhelm Kempff (16), ai quali si aggiunse il mito dei chitarristi, André Segovia (22), mentre il 29 Hermann Scherchen diresse un concerto straordinario interamente dedicato a Arthur Honegger, morto il mese precedente a Parigi.

    Il 9 dicembre, intanto, il Secolo XIX aveva dato la notizia di una calca incredibile in corso Sardegna a causa di Claudio Villa.

    Il celebre cantante era impegnato in quei giorni al Teatro Massimo di Sampierdarena e aveva deciso di far visita a una sua fan dodicenne ammalata. La notizia si era immediatamente diffusa e sotto il portone della ragazzina si era formata appunto una vera e propria folla di ventenni e cinquantenni uniti dall’ammirazione per il reuccio.

    Con la sua voce tenorile, potente e chiara, Villa era uno degli esponenti di punta della canzone melodica italiana.

    Proprio in quell’anno stava consumandosi in America una vera e propria rivoluzione musicale con la nascita del rock and roll, diffuso ovunque dai nuovi, giganteschi juke-box, mentre il mercato discografico si gettava nella produzione dei 45 giri.

    In Italia pionieri del nuovo erano stati Renato Carosone che fondeva le ritmiche moderne con la musica napoletana e Fred Buscaglione, solido musicista dalle profonde conoscenze jazz. In entrambi, come nello storico Quartetto Cetra (nato nel 1941 ma arrivato alla formazione definitiva nel 1947), era evidente il senso dell’ironia (e come non ricordare, sotto quest’aspetto, un’altra colonna della musica italiana, Nicola Arigliano?) che costituì una componente importante della nuova canzone.

    In Italia la rivoluzione sarebbe arrivata nel 1958. Un uomo del sud, Domenico Modugno, attore con De Filippo, Comencini, Pasolini, De Sica, personalità esuberante, voce bella, calda, potente e singolare, avrebbe trionfato a Sanremo con Nel blu dipinto di blu: un uomo in sogno si dipinge la faccia e le mani di blu e poi vola felice. Un testo onirico, simbolista costruito su una musica straordinariamente trascinante che avrebbe fatto piazza pulita di rose rosse (Grazie dei fior), di edere (Son qui tra le tue braccia ancor), di pesciolini e fiori di lillà (Aveva una casetta piccolina in Canada), di papaveri (Lo sai che i papaveri son alti alti alti). Il gusto per il metafisico e per il surreale avrebbe del resto ispirato un altro testo splendido di Modugno: Vecchio frac, l’addio di un raffinato uomo di mondo ad un’epoca ormai al tramonto. Modugno avrebbe venduto circa 22 milioni di copie con Nel blu dipinto di blu, nella interpretazione non solo sua, ma anche di autentici mostri sacri della musica internazionale, come Dean Martin ed Ella Fritzgerald. E pochi anni dopo, Elvin Presley avrebbe portato al successo internazionale un’altra sua fortunata canzone, Io (nella versione americana, Ask me).

    La fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta sarebbero stati molto densi di avvenimenti per la musica leggera italiana: il potenziamento dell’industria del disco, l’entrata in attività di Sergio Endrigo, della presunta scuola genovese, Gino Paoli, Luigi Tenco, Umberto Bindi, Bruno Lauzi e di alcuni milanesi (da Gaber a Jannacci a Celentano), le nuove voci femminili, Mina e Ornella Vanoni; gli urlatori, da Dallara a Betty Curtis a Joe Sentieri... E, ancora nel 1958, sarebbe arrivata per la prima volta, dalla Francia, Dalida, con Zingari.

    Abbiamo accennato a una presunta scuola genovese. In realtà, una effettiva scuola non nacque mai: non ci fu un manifesto comune, troppo diversi furono tra loro i percorsi stilistici, differenti gli approdi. Tuttavia in tutti, da Paoli a Tenco, da Bindi a Lauzi e Fabrizio (con il tramite autorevole di Reverberi, per un certo tempo, guida musicale del gruppo) si avverte una genovesità che nasceva naturalmente dal loro legame profondo, culturale e sociale con la città: la malinconia, spesso mista a distaccato umorismo, nobile e popolare insieme, la riservatezza, la lontananza dai centri di potere del mercato discografico, la consapevolezza di doversi conquistare una posizione uscendo dal proprio ambiente, la accettazione del distacco, ma nello stesso tempo, l’aspirazione al ritorno. Solo in questo senso, si può probabilmente parlare di una scuola genovese.

    Perché Genova? – si è chiesto Marco Neirotti¹ – Forse proprio perché qui, tra quei ragazzi che non cantavano per arrivismo divistico, che hanno alle spalle una base culturale, che cercano di esprimere emozioni nuove, trova terreno e agisce come una scintilla il modello di Georges Brassens e Leo Ferré, di Jacques Brel e Gilbert Becaud. I cantautori genovesi scendono con i piedi per terra, ricordano che l’amore è anche fisico, restituiscono naturalezza e profondità alle piccole storie quotidiane...

    E, da parte sua, De André avrebbe in seguito affermato²:

    La scuola genovese non esiste. Sarebbe così se fossimo decollati uno sulla scia dell’altro. Invece ognuno si è fatto i cavoli suoi. Avevamo in comune la scelta di una vita scapestrata, conquistata dando un calcio alla famiglia...

    Ma torniamo al 1955. In dicembre, il Carlo Felice ospitò pure uno spettacolo benefico organizzato dalla Società Auxilium. E quella sera sul più importante palcoscenico cittadino, secondo la testimonianza di alcuni biografi, si esibì in trio un ragazzino appena quindicenne, allora del tutto sconosciuto. Si chiamava Fabrizio De André, con i suoi compagni di ventura Giraldo e Mariano Dellepiane propose Beguine the beguine.

    1 M. Neirotti, Fabrizio De André, Eda, Torino, 1982.

    2 In M. Neirotti, op. cit.

    La famiglia

    De André era nato il 18 febbraio 1940 a Genova Pegli, sulle note del Valzer campestre di Gino Marinuzzi, una pagina che il padre amava particolarmente e che avrebbe poi ispirato allo stesso Fabrizio Valzer per un amore (1964).

    Il padre, Giuseppe (1912-1985), torinese, laureato a 22 anni in lettere e filosofia aveva sposato, Luigia Amerio (1911-1995) nel 1935 e l’anno successivo era nato il primogenito Mauro.

    Mauro e Fabrizio furono profondamente legati tutta la vita, pur essendo diversissimi: studioso, razionale, rigoroso, il primo, pieno di fantasia, esuberante, insofferente alle regole, il secondo.

    Con lo scoppio della guerra e le prime difficoltà in città, i De André decisero di trasferirsi nell’astigiano nella Cascina dell’Orto a Revigliano.

    Lì la mamma e i due figli trascorsero il periodo bellico, mentre il padre (che aveva rilevato l’Istituto scolastico Palazzi), quando poteva, faceva il pendolare o si rifugiava nella Cascina per sfuggire ai fascisti.

    Per Fabrizio furono anni bellissimi di scoperte, di contatti completi con la natura. Viveva allo stato brado, girava la campagna con gli amici (Nina Priocca, sua coetanea, ricordata nella canzone Ho visto Nina volare, 1996), seguiva i lavori dei contadini, cercava di impararne le tecniche. Assaporò in quegli anni il sapore della libertà totale, quella libertà che gli sarebbe mancata in seguito e che avrebbe in qualche modo segnato profondamente la personalità dell’uomo e dell’artista.

    In campagna gli echi degli orrori della guerra arrivavano attutiti. Tuttavia per i De André (e in particolare per Mauro e Fabrizio) fu choccante il ritorno dal fronte dello zio Francesco (fratello della mamma) da un campo di concentramento: smagrito, svuotato, incapace di reagire. Un altro uomo, distrutto nel fisico e nello spirito. L’impatto con lo zio si sarebbe rivelato fondamentale per Fabrizio al momento di riflettere sulle tematiche della guerra, così frequenti nella prima tranche della sua attività musicale e

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