La luce del nero
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Insoddisfatto della famiglia e del lavoro, affetto da una attrazione ossessiva per il sesso a carattere compensativo. Per questi motivi esistenziali, inizia una Terapia Analitica, che sospende dopo appena quattro sedute per il silenzio assoluto da parte dell’Analista, che trova incomprensibile e senza beneficio.
La piatta quotidianità di Leonardo si ribalta quando riceve una proposta da un misterioso cliente della banca, che lo porterà a Como per svolgere un lavoro di riciclaggio di denaro.
Durante la notte che precede la prima prova a cui è chiamato, Leo racconta gli episodi salienti della sua vita, immaginando di trovarsi in Sedute Analitiche come desiderava che si svolgessero con l’Analista a cui potersi rivolgere.
A Como per Leo inizia una nuova vita. Incontra una donna più anziana di vent’anni, affascinante, ricca, cocainomane e spacciatrice in ambienti ricchi; nasce una passione veemente che pare inspiegabile, motivata proprio dalla differenza di età.
Inaspettati e successivi eventi, troveranno eco nella citazione di Dostoevskij
Sandro Traversi è nato a Roma e svolge da molti anni la professione di Psicoterapeuta. Per decenni si è occupato di Devianza negli Istituti Penitenziari e di Tossicodipendenze.
Ha già pubblicato un romanzo “La Traduttrice”, oltre a vari Saggi e Studi, in riviste specializzate.
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La luce del nero - Sandro Traversi
Sandro Traversi
La luce del nero
© 2022 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma
www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com
ISBN 978-88-306-5849-3
I edizione maggio 2022
Finito di stampare nel mese di maggio 2022
presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa
Foto di copertina di Stefania Rossi Accorsi
La luce del nero
A Marina, mia moglie.
Nuove Voci - Prefazione di Barbara Alberti
Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.
È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.
Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi
Non esiste un vascello come un libro
per portarci in terre lontane
né corsieri come una pagina
di poesia che s’impenna.
Questa traversata la può fare anche un povero,
tanto è frugale il carro dell’anima
(Trad. Ginevra Bompiani).
A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.
Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.
Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.
Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov
.
Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.
Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.
Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.
Tutto al mondo è perfetto, tutto è innocente, meno l’Uomo
Fedor Dostoevskij
PARTE PRIMA
Provavo la sensazione di essere arrivato a Como, da appena poche ore.
Vi ero da più di cinque giorni, invece. Accavallati in fotocopia, senza un diverso scorrere, un tempo e una storia che li delineasse. Trascorsi identici, in ozio e solitudine obbligati.
E quando va così, il tempo non esiste; c’è solo un perpetuo presente.
Conoscenze, rapporti e parole, si erano racchiusi nell’essermi presentato nella Filiale della Banca dove ero stato assegnato; le rituali formalità per l’incarico da Direttore; l’assegnazione della stanza che mi spettava.
E da allora, noiose mattinate, dietro una pretenziosa scrivania.
Certo, qualche leggera emozione, persino piacevole, l’avevo vissuta. L’esaltazione, anche fisica, di non trovarmi più in un ruolo subalterno, l’ebrezza per l’autorità, i falsi ossequi, graditi e stimolanti ugualmente ai complimenti, agli auguri, alle congratulazioni e via dicendo; le presentazioni degli otto impiegati, del Cassiere capo e del mio vice Maugeri, un uomo più anziano, ad occhio e croce, di una quindicina d’anni.
Continuavo a sentirmi distante e assente da tutto e da tutti; consapevole d’essere qui per decisione di altri, che da me avrebbero preteso ciò che di preciso ancora ignoravo.
Maugeri era qui da tempo immemorabile, forse fin da quando la Filiale fu aperta; in uno slargo di fronte al lago, con nel mezzo un giardinetto circolare con tre panchine di legno marrone, sotto olmi alti e frondosi. Fu l’unico, in verità, a lanciarmi uno sguardo amico. Lo intesi, però, più da complice.
È un uomo che sembra sul punto d’andare in pensione la mattina dopo; un’aria sconsolata e malinconica, verso le cose da fare una commiserazione di sufficienza. Veste sciatto, senza cura di sé, con la esibita trasandatezza dell’uomo che vive da solo. Ma ogni tanto con degli sguardi appagati, di chi pregusta che sono in arrivo cambiamenti che attende.
L’autunno da poco arrivato era già a buon punto; avevo trovato foglie rosse a nascondere tutto il selciato intorno alle aiuole.
Venuto da Roma in treno, atteso alla stazione da una Mercedes bianca, ero stato direttamente accompagnato a prendere possesso dell’appartamento che, secondo accordi, mi spettava; in un palazzetto dell’Ottocento, austero, elegante, di appena tre piani, alle spalle di piazza Cavour. Con un portone possente di lucida noce e i citofoni dorati.
È al centro di Como
aveva bofonchiato l’autista fra i denti, mentre scaricava le valigie sul marciapiede, con un tono quasi di rimprovero, come se io stessi ricevendo un privilegio immeritato.
La casa la trovai ammobiliata di tutto punto, dal cucchiaino all’armadio.
Il salotto con divani di velluto color ceralacca e soffici tappeti azzurri; un tavolo ovale di mogano antico, con sedie dalle spalliere di pelle color panna, sotto tre finestre alte fino al soffitto. Un lineare e spoglio camino, in un angolo. Un letto matrimoniale bordato con due poltroncine beige e un balcone da cui, fra costruzioni distanti, spunta un triangolo di lago e il traffico del lungo Lario. La cucina, spaziosa. Ci si potrebbe mangiare in sei persone
, pensai. Un bagno rettangolare accessoriato di ninnoli, sali e profumi.
Mi era stata insomma consegnata un’abitazione curata; soprattutto vissuta. Mi aspettavo un anonimo appartamentino di un Residence, non una casa che desse la sensazione d’essere stata abitata fino alla sera prima. Nulla da ridire, infatti; superava ogni ottimistica previsione. Tranne per lo stile dell’arredamento, lontano dai miei gusti.
Dopo poco, appena uscito in strada, mi trovai davanti quel ragazzone dall’aspetto da marine, presentato a Napoli. Buongiorno, dottore. Non mi riconosce? Si ricorda… sono Salvatore...
Come no. Sei già qui? Non immaginavo di vederti…
Lo sa, glielo avevano detto, vivo a Como da anni. Abito a cento metri. Le dò il numero di telefono; sa che dovremmo vederci spesso… E di qualunque cosa avesse bisogno, mi chiami e sarò da lei. A disposizione. Ma le è piaciuta la casa?
Sì, molto. Va bene, Salvatore, ci vediamo
.
La chiusi lì.
Aveva portato l’atmosfera di quando, a Napoli, lo incrociai per la prima volta. Aggiungerla adesso a questa sarebbe stato insopportabile.
Oggi, come nei precedenti pomeriggi, ho camminato da stranito turista in lungo e in largo, senza meta, per avere almeno un’idea di dove fossi finito. Vagabondavo fra la gente, cercando il motivo per cui lo facessi. Forse per stancarmi e sperare in una notte di quiete.
La mattina avevo chiesto a Maugeri, il mio vice, cosa ci fosse a Como da vedere per farsene un’idea.
Dovrei sapere che ti interessa. Qui c’è di tutto. Arte, storia, panorami incantevoli, un centro storico e uno moderno pieno di negozi lussuosi. Non troverai differenza con quelli della tua Roma, ne puoi star certo. E tanta bella gente intorno. Donne eleganti …
sorrise ammiccando. ...e poi ritroverai la tua città in qualche parte... ci sono le vestigia dell’impero romano, costruzioni... reperti archeologici. Sai che Como è stata fondata da Giulio Cesare mezzo secolo prima di Cristo?
No. Non lo sapevo
Vedi? C’è qualcuno che t’ha preceduto. Ti sentirai così meno straniero…
rise e riprese a lavorare.
Di visitare resti archeologici, chiese e basiliche, non ne avevo nessuna voglia, né di girare fra le vetrine del centro.
Preferii sedermi sul lungo Lario, su una panchina a riflettere, guardando il lago. Mi sorprese un battello, per quanto simile ai vaporetti di Venezia; nulla di più.
Ho sempre detestato i laghi; vedo una caricatura del mare, un’imitazione per pochi sfigati, costretti ad accontentarsi. Fanno avvertire la terra che li lambisce e che hanno sotto l’acqua; l’affondare i piedi in una melma senza profumo. E, poi, questo che ho davanti, con le alte montagne che ha a serrarlo, con qualche cima già innevata, sfocata e lontanissima, sembra un fantasioso scherzo della Natura, un suo errore.
Verso le sei del pomeriggio, arrivai davanti allo Stadio, il Sinigaglia.
Che nome curioso, ricorda il mare. Però, piacevole la posizione fra il Tempio Valtiano e un Aereo Club che porta a fantasticare
pensai.
Mi monta il desiderio di varcarne il cancello d’ingresso.
La ragione è che, se mi trovo vicino a un luogo in cui si celebra il rito del Calcio, parte un ricordo dolcissimo: quello di mio padre che raccontava di quando entrò per la prima volta a Roma nello Stadio Olimpico, dello stupore entusiasta da cui fu colpito.
Avrà avuto non più di sei, sette, anni; lo accompagnava lo zio.
Vorrei ora entrare qui, per riprovare quella stessa emozione che, dopo tantissimi anni, ancora ricordava nitida e che raccontandola voleva trasmettermi.
Mio padre, prima di quel pomeriggio, aveva conoscenza del terreno di gioco negli Stadi dalle foto dei giornali o dai film Luce, quando raramente i genitori lo portavano al Cinema. Lo aveva visto, perciò, in bianco e nero. E nella sua testolina lo fantasticava, lo teneva nei desideri, come uno spazio di terra battuta, arida e grigia, un campo simile a quelli improvvisati fra i palazzi in costruzione vicino casa, dove gridando scalciavano ragazzi allegri e più grandi; che invidiava.
Raccontava che, terminato di salire la rampa di scale per accedere agli spalti, fu un abbaglio accecante scoprire che, sotto quel tanto sole, c’era un’erba verdissima, perfettamente rasata, da sembrare infinita.
Ma è un prato verde! Ma giocano su un prato?!
esclamò, ammaliato e stupito. E cadde in un sogno che si faceva realtà.
Non può entrare
arriva da dietro una voce femminile.
Mi giro e c’è una donna matura, dall’aspetto di ragazza, con alle mani dei guanti da lavoro.
Lei è la custode?
le faccio.
No, ci sto lavorando
.
Infatti rientra nello stadio e sento dare indicazioni, impartire ordini, a voce alta.
Dopo poco, riappare.
Se non è la custode, posso chiedere cosa ci fa, che sta facendo...?
.
Mi avevano un po’ colpito i fluenti capelli biondo rossi, che le incorniciavano il volto e scendevano oltre le spalle.
Lavoro. Che, non si vede? Stiamo allestendo una ripresa televisiva
È di Como, allora...
Non direi
e sorride scoprendo una dentatura forte, contadina, da una bocca bellissima. Ho fatto più di quattrocentocinquanta chilometri per essere qui
Caspita!
.
Si toglie i guanti per stappare una lattina di coca cola e si appoggia allo sportello di un pulmino.
Scopre mani delicate e candide, dalle lunghe dita affusolate.
Sono con mio marito, lavoriamo insieme. Facciamo riprese televisive per le Federazioni Calcistiche... per la Rai. Se da qui mi sente, è perché a volte ce l’ho con lui. Gli uomini sanno fare poco. Hanno solo presunzione e saper dare ordini alle donne… spesso sbagliati
mi risponde in un sorriso stretto, appoggiando le labbra sul barattolo della coca cola.
Sapeva parlare in modo compito, con voce delicata e garbata. Un po’ strideva, o forse neppure, dal modo in cui era vestita: pesanti scarpe da uomo in gomma dura, e avvolta in un non so che, una specie di tuta nera che non lasciava libero un lembo di pelle, che doveva essere bianchissima. Faceva immaginare anche un bel corpo, pieno e solido.
È faticoso?
presi a domandare, vedendola tirare cavi e fili elettrici verso alcune telecamere trasportate da dei ragazzi.
No. Se si ha voglia di fare
replicò.
Girò le spalle e sparì dietro il cancello.
Avrà sicuramente un bel caratterino
immaginai.
Presi a riflettere sul motivo per cui donne del genere mi facciano scattare una delicata e irrazionale calamita.
Forse perché appartengono a chi porta dentro e sa dire a chi sappia ascoltare una gran voglia di vita; soffocata, stretta, in un recinto che la delimita e la chiude.
Ne fanno udire involontari richiami; un po’ come gli uccelli che si trovano in gabbia. Da cui, sanno e sappiamo, non potranno mai uscire.
Raggiunsi il centro, dopo poco.
Trovai strade strette; bar eleganti con i tavoli fuori, vetrine con vestiti femminili dell’ultima moda. In un odore d’acqua, denso d’acqua, che il lago mandava come un respiro.
E le persone che incrociavo, in sintonia con questo pacato e solido benessere, non ostentato, non provinciale. Quel benessere che si ha da generazioni, per cui non conta darne sfoggio; è ormai nell’ aspetto, visibile a tutti.
Benché le stradine fossero affollate, le voci giungevano da delicati fruscii.
Mi misi seduto a un tavolino di un bar all’aperto. Qualche vetrina aveva acceso le luci. Mi venne voglia di fumare. Lo faccio raramente. Non sono mai stato un fumatore regolare. Solo in particolari momenti, mi accendo una Camel. Dovevo trovarmi in uno di questi. Ordinai una birra ghiacciata, due tramezzini e mi misi ad osservare le donne passare.
Attesi che le strade si sgonfiassero, che sulle vetrine piombassero rotolando le saracinesche e presi distrattamente ad andare verso casa, tra una macchina e un muro.
Alle dieci ero già lì. Passai una mezz’ora a vedere la fine di un film in televisione, a gironzolare aprendo cassetti, armadi, i pensili della cucina, per scoprire qualcosa di intimo, personale, solo per entrare in confidenza.
Però questa notte non c’è proprio nulla da fare a prender sonno; s’è fatta ormai circa l’una.
Come nelle altre notti da che sono qui, anche se dormo qualche ora, di fatto, dormo. Non ho un risveglio, perché ho sempre vegliato.
La notte non mi ha ricoverato nel letto; ho avvertito il carico e la pesantezza del corpo disteso. Non ho fatto sogni, ma complicate spiegazioni; ripassi delle azioni, poche e scialbe, fatte il giorno.
Pur avendo previsto che questo alla vigilia sarebbe accaduto, forse nelle cose, dà ugualmente ai nervi non trovar da due ore posizione, fuggire con rabbia dove ho intiepidito e lasciato odori umidi. Ma il letto c’entra poco... alla sua eccessiva morbidezza, mi sono abituato.
Non ne è questa la ragione. Nel buio ossessivo, ripetitivo e invadente, si proietta il film di ciò che domani mattina mi aspetta in Banca. Non c’è altra trama se non quella che segnerà il battesimo con la malavita; con la criminalità vera, senza compromessi e sconti, che dovrà assorbirmi senza rumore, docile e remissivo.
Fantastico su che tipo di volto, uomo o donna, chiederà di me. Per consegnarmi poi... cosa? Una busta, una elegante valigetta, un pacchetto di carta gialla, serrato alla meno peggio con del nastro adesivo.
Ma è solo quando non ci pensi che il tempo passa.
Ho un magone che non se va, non sa esprimersi. Conosce solo il respiro. Resta lì, come una serietà dolorosa ripiegata su se stessa. Mi sento una moneta lanciata in aria, perennemente in aria, che, fino a che non cade a terra, non sai il verso del destino.
Per quietarmi, per non arrendermi a venti gocce di Tavor, mi impongo di uscire da questa sala di cinema per andare in un’altra; per un film più reale, senza faticosi sforzi di immaginazione. E che lentamente, faccia strada al sonno.
Scelgo il cinema dove si proiettano gli anni trascorsi, i giorni lontani e recenti che hanno deciso di condurmi lontano da casa seicento chilometri. Mi viene da pensare che sia non per una spiegazione, piuttosto per trovarne una giustificazione plausibile.
L’ideale poltrona che ora mi accoglie è diversa; simile a quella su cui mi accomodavo nello Studio del mio psicanalista, nel corso delle poche sedute; un omino sessantenne, delicato, con il volto paffuto e innocuo, calvo e rotondetto, dai passi corti e veloci quando lo seguivo dall’ingresso. Dalle mani piccole, candide, immancabilmente vestito con un papillon azzurro su una camicia scozzese a piccoli quadri.
Vorrei essere lì; e quello che ora impongo, nel buio di questa solitudine inquieta, sono le mie parole, dette a voce alta; raccontare a lui, che dietro sia ad ascoltare nello stesso silenzio di allora.
L’unica cosa che aveva mostrato di saper fare perfettamente.
Perché risponda agli interrogativi, mi dia una mano a capire, gli ripeterò quello che dissi durante le quattro sedute. Ma con più particolari, in modo dettagliato, non attraverso le libere associazioni a cui prescriveva di abbandonarmi, facendomi saltare da un anno a un altro, da un’emozione a un’altra, che confondeva le idee.
Perché questa notte sento di avere più parole, sguardi e ricordi più netti, riflessioni da fare, desiderio-necessità di buttare fuori tutto, ma in modo ordinato e legato, cronologico, nel tempo in cui avvennero. E senza nessun imbarazzo.
Imprevedibilmente il film si apre, ne intuisco il perché, nel giorno esatto, in quei precisi momenti, in cui uscii dal suo Studio per l’ultima volta.
La fotografia è così nitida da mostrare cose insignificanti, in quel pomeriggio notate con distrazione; di far affiorare i pensieri che mi avvolsero, che mi entrarono in testa. Era un giorno fra tanti più o meno uguali, appariva ora invece che tutto, per un sortilegio, uscisse dal nero cilindro di un prestigiatore.
Stando supino, le braccia incrociate dietro la testa poggiata su un cuscino ostile, lucidi fotogrammi prendono a scorrere ritmati, nel buio degli occhi. Accompagnati da una voce fuori campo senza suono, un narratore aggiunto, il narratore di me stesso che vuole che questa voce cada precisa in un altro silenzio, quello del suo Studio. Per poi capire e spiegare, nel caso le immagini non bastassero.
Sapevo, così almeno avevo letto da qualche parte, che il risultato di una Terapia Analitica è arrivare a scoprire e leggere se stessi attraverso la propria narrazione.
Allora le spiegazioni che hai da uno specialista delle dinamiche della psiche, mi chiedevo, non potrebbero essere aggiuntive e persino superflue?
Basterebbe rivedendosi, raccontarsi per capire; ciò che si riuscirebbe a dire, diventerebbe, potrebbe essere, l’unica Terapia.
Perché la nostra mente è affetta da presbiopia: vede male le cose vicine, ma meglio quelle lontane. Non siamo contemporanei al nostro presente. Se lo si riuscisse a vedere e comprendere, durante i momenti in cui lo si vive con lo stesso nitore e fascinazione delle emozioni e della chiarezza che si ha ricordandolo, saremmo più consapevoli di noi e degli altri.
Per questo si paga chi sia ad ascoltarci, perché i nostri non siano ricordi e pensieri a marcire. Si facciano realtà, attraverso la parola.
Adesso, però, a Marsili, non darò parola nei modi svelanti che mi aspettavo nel suo Studio. Non la voglio più.
Deve offrire ancora il suo silenzio; sarò io a riempirlo con parole mie, udite per la prima volta. Sarò ad ascoltare, la mia di voce.
Ed essere in solitudine a far questo, sarà più facile e utile senza di lui, seduto dietro, a valutare, a soppesare...
Sarò io ad interpretare, non lui. Diventerò l’Analista di me stesso.
E per questo ho deciso che anche stanotte Marsili stia qui, dietro di me, ma come il suo fantasma; o un amico qualsiasi, un confessore. In silenzio, come lo è stato per quattro sedute.
Le prime immagini vengono da quel pomeriggio in cui fui a giurarmi che da te non ci sarei più tornato. E di quanto fu difficile prendere questa decisione, appena fuori dal tuo severo Studio sempre in penombra, con il pesante odore di legno, di libri e della pelle della poltrona dove mi facevi accomodare. Ero arrivato alla determinazione, nel momento di posare gli ottanta euro sulla scrivania. E la conservavo convinta anche dopo, in quel bar scadente dove ero entrato per un caffè per vedermi il volto riflesso, spezzato tra bottiglie e bicchieri. La volontà era scaturita dalla rabbia che, alla quarta seduta e nelle tre precedenti, tu mi avessi detto una sola frase: Si faccia un amico
; oltre al buongiorno e buonasera, secondo l’orario, si accomodi e per oggi abbiamo terminato. A chi guadagnava milleseicento al mese con l’impiego in banca, e un figlio da mantenere all’università, capisci bene il perché fossi deluso e arrabbiato con te. C’era, sì, mia moglie Giulia, che, come insegnante di Scienze Naturali, ne aggiungeva milletrecento. Sulle altre poche centinaia al mese che rimediava insegnando aerobica in una palestra, era stata chiara: Regalini e sfizi per nostro figlio, senza che debba sentire i tuoi rimbrotti; e per me, un parrucchiere in più, qualche libro, un dvd
. Poi la prescrizione che mi avevi dato da psicanalista, sai che rivelazione... che gran scoperta. Si faccia un amico
. Magari a trovarlo un amico. Me lo potevi presentare tu, con tutti i soldi che ti davo, uno simpatico, intelligente e sincero, che non se la tirasse tanto, che mi potesse far cambiare idea. Lo avrei accolto a braccia aperte.
Ritenni, però, che, della mia decisione, ne dovessi parlare con Carla, la collega sportellista che mi aveva inviato da te. Era stata tua paziente, la ricorderai, fino a due anni prima, per la durata di tre. Per un problema che definì grave, ma non volle raccontare. Tra noi infatti non c’era amicizia, né tanto meno confidenza; però, lavoravamo insieme da quasi sei anni e un minimo di chiacchiere ogni tanto si faceva. Attraversavo allora un periodo in cui mi ero assentato dal lavoro, a ripetizione; dieci, poi quindici, fino a venti giorni di seguito, con brevi intervalli di un paio di mesi. A Carla avevo detto che non avevo nulla di fisico; ero restato nel vago; niente di specifico, una stanchezza mentale, la perdita degli interessi, il rapporto con Giulia che si era allentato, un fumosa infelicità senza desideri. Per questo, mi indirizzò da te. Ma magari ci fosse stato solo questo! Ne era la cornice; il quadro era altro. Di certo, non l’avrei mostrato a Carla, non perché non la stimassi, non mi piacesse fisicamente, tutt’altro; ma per la ragione che, vederla ogni giorno da collega, mi scivolava via per farle confidenze, così come nell’ attrazione per il suo corpo. Con le donne mi andava infatti così: chi mi ingolosiva, o riuscivo ad averla nel giro di qualche giorno di corteggiamento, o lì finiva. Le cicalate assillanti su argomenti che non mi fregava ascoltare le mettevo dentro uno scafandro che inghiottiva belle gambe, sedere, seno. Sparivano dagli occhi, perdevano la forza di eccitarmi, tanto che alle volte mi preoccupavo di essere diventato così neutro; il timore che il richiamo del sesso si stesse spegnendo.
Carla fu una di quelle che, il primo giorno che giunse in Agenzia, mi colpì al primo sguardo: capelli curati, biondo scuro, voluminosi, fin sulle spalle; un raffinato tailleur blu e tacchi alti; le gambe levigate e candide. Elegante e sinuosa, appena profumata, ancheggiante, dava a mostrare i suoi quarantacinque anni senza finzioni, come a dirti Ne so fare, ne ho fatte di cose… tranquillo, l’esperienza non manca
. Ci provai il giorno stesso, approfittando della pausa pranzo. La invitai in una trattoria a due passi, con il pretesto che fosse tradizione offrire il pranzo a una collega appena arrivata. Non portava la fede; nel tragitto a piedi, confidò infatti di essere separata e di vivere da sola. Situazione perfetta, pensai. Ma, prima di iniziare, sapevo che per l’emozione avrei appena spiluccato, e ordinato un costoso vino rosso per disporla al prossimo invito, se ne uscì che da un anno era legata a un uomo sposato, in una situazione che la stava facendo impazzire, che il trasferimento lo aveva chiesto per essere più vicino a casa, tanto era stressata da non sopportare più quella mezz’oretta di traffico per raggiungere il luogo di lavoro. Ricordo che da quel veloce incontro a tavola partirono due giorni d’ eccitazione in crescendo. Erano le sue cosce piene, le gambe lunghe che sedendosi sapeva accavallare con eleganza e sensualità, i turgidi e sporgenti capezzoli, se indossava una maglietta aderente, il seno duro e piccolo se con una camicetta; le labbra carnose di un lucido rosso vermiglio. E cercai presto di arrivare a sorprenderla in un angolo appartato, vicino alle fotocopiatrici, alla cassaforte, agli ingressi dei bagni, per avvicinarmi di pochi centimetri all’odore della sua pelle e farle sentire il mio; circuirla, insomma, con ogni espediente di seduzione che potessi conoscere. Ero arrivato persino a profumarmi, abitudine che non avevo, con campioncini di prestigiose marche trovati nel bagno di casa, di quelli che regalavano a mia moglie per i suoi acquisti nelle profumerie. Non importava se fossero da donna; li mettevo nel taschino della giacca, pronti all’uso al momento opportuno. Ero arrivato a vestirmi con più cura; un giorno sportivo, altri finto-trasandato, all’inglese, sportivo, perché il fatto di intuire che sedurla non sarebbe stato facile né veloce, non mi fermava. La sera, prima di prendere sonno, mi cullavo sul suo corpo da scoprire, e lo disegnavo come l’avrei desiderato trovare. Il quinto giorno da che era qui, vedendola arrivare trafelata, pur con l’abitazione a duecento metri, in orario, e sorrido per tranquillizzarla, offrire un dolce conforto su cui adagiare l’ansia, mi sentii rispondere in un tumulto d’ ira repressa che la notte non aveva chiuso occhio per colpa di quel tale... che è un lurido egoista...che ha fatto, invece di... che la moglie fa la furba e lui non lo capisce... che se ne frega delle mie necessità...che io delle vacanze ne ho bisogno, dopo un anno di lavoro di merda... e non sa se sarà libero per agosto neppure per una settimana, capito?, solo sette giorni... e di me non gli frega un cazzo. Ecco, di colpo, Carla mi va ad assomigliare a tutte, a una senza più nessun richiamo. Sento di detestarla; mi viene persino di offenderla, di mandarla direttamente al