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Le leggende del ciclismo: Da Gerbi a Pantani, tante grandi storie sui due ruote
Le leggende del ciclismo: Da Gerbi a Pantani, tante grandi storie sui due ruote
Le leggende del ciclismo: Da Gerbi a Pantani, tante grandi storie sui due ruote
Ebook383 pages6 hours

Le leggende del ciclismo: Da Gerbi a Pantani, tante grandi storie sui due ruote

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About this ebook

Il ciclismo racchiude storie di vita, è mestiere, è una metafora della nostra esistenza. Per questo i trenta campioni raccontati a tu per tu in questo libro sono capaci non solo di descrivere avventure, volate e traguardi sportivi che hanno segnato differenti epoche, ma di uscire dai confini delle due ruote per far parte della nostra storia in senso assoluto. I nomi sono quelli cari alle grandi sfide del ciclismo, e non solo. Nomi che appartengono alla memoria dell'agonismo, del sacrificio, delle imprese impossibili compiute nonostante le proprie fragilità: Giovanni Gerbi, il mitico Diavolo Rosso astigiano, Girardengo, il primo campionissimo, Binda e Guerra, ma anche Gimondi e Adorni, Merckx e Anquetil, Hinault e Fignon, Bugno e Chiappucci, Coppi e Bartali, e tanti altri, per chiudere con l’ultima leggenda, Marco Pantani, il Pirata. Trenta leggende che, senza mai smettere di pedalare, hanno fatto, a modo loro, la storia del ciclismo e del Novecento.
LanguageItaliano
PublisherDiarkos
Release dateFeb 28, 2020
ISBN9788836160174
Le leggende del ciclismo: Da Gerbi a Pantani, tante grandi storie sui due ruote

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    Le leggende del ciclismo - Beppe Conti

    Presentazione

    Trenta personaggi del Novecento che raccontano storie struggenti e ricche di fascino, che vale davvero la pena leggere con attenzione. La scelta non è stata facile, perché il ciclismo ha proposto nel tempo molte altre figure che appartengono non soltanto allo sport ma anche al costume d’un secolo straordinario e ricco di eventi tragici e gioiosi.

    I trenta che abbiamo scelto, però, sono sufficienti a descrivere eventi e avventure che hanno segnato differenti epoche. I nomi sono quelli cari agli appassionati di ciclismo, ma anche a chi lo sport della bicicletta ha soltanto sfiorato da lontano, consci che Coppi e Bartali, i simboli, siano campioni che escono dai confini dello sport per far parte della nostra storia in senso assoluto.

    L’intenzione è stata quella di raccontare le loro gesta senza troppi commenti e eccessivi giudizi. Raccontare e basta. Mischiando con attenzione e con piacere l’impresa realizzata, ma anche il retroscena, fra aneddoti, testimonianze e curiosità, per mettere in evidenza il fascino d’uno sport differente da tanti altri, visto che – non mi stancherò mai di ribadirlo – il ciclismo racchiude storie di vita, è mestiere, è una metafora della nostra esistenza.

    Dunque, raccontiamo il campione ma anche l’uomo. Col malcelato orgoglio d’aver seguito per più di quarant’anni il Giro d’Italia e le altre grandi sfide e dunque d’aver conosciuto nel tempo tanti personaggi che fanno parte di questo libro. Campioni che mi hanno proposto racconti spesso inediti e gustosi, piacevoli da offrire, ribadendo che i giudizi spettano al lettore, dopo aver preso nota delle storie e degli eventi.

    Si comincia con il Diavolo Rosso, vale a dire l’astigiano Giovanni Gerbi, epica figura d’inizio Novecento, così fascinoso e leggendario che l’ha cantato anche Paolo Conte. E si chiude con Pantani, il Pirata. Tanto grande sui pedali quanto fragile nella vita di tutti i giorni. Quanto basta per invogliare alla lettura pensando a quel che c’è da scoprire fra quei due straordinari personaggi. Tante leggende.

    Giovanni Gerbi

    Il Diavolo Rosso

    Lo ha cantato anche Paolo Conte, parole e musica davvero struggenti e ricche di fascino: «Diavolo Rosso dimentica la strada / vieni qui con noi a bere un’aranciata / contro luce tutto il tempo se ne va… Guarda le notti più alte / di questo nord-ovest bardato di stelle / e le piste dei carri gelati / come gli sguardi dei francesi…»

    È appena iniziato il Novecento, l’Italia è sconvolta dall’uccisione del re Umberto I la sera del 29 luglio, una domenica, dopo le 22, a Monza. Stava tornando a casa nella sua residenza reale dopo aver assistito a un saggio ginnico. Lo ha colpito a morte con alcuni colpi di pistola l’anarchico Gaetano Bresci, che poi verrà condannato all’ergastolo, ma il 22 maggio della stagione successiva lo trovarono impiccato in cella, nel carcere di Santo Stefano, vicino a Ventotene, isole Ponziane. Un suicidio che destò fin da subito mille dubbi e altrettante perplessità.

    Giovanni Gerbi, il Diavolo rosso, è un astigiano tenace e grintoso, che indossa una maglia sempre rossa e s’inventa mille diavolerie pur di vincere quelle folli sfide, fra infiniti e un po’ pesanti trucchi del mestiere, scorrettezze forti e ingegnose beffe.

    Ma perché Diavolo rosso?

    La leggenda vuole che un giorno, tutto solo al comando in una sfida importante, transitando nella sua Asti scatenato all’attacco, sia finito letteralmente dentro un lungo corteo d’un funerale. E il prete impaurito abbia urlato: «Ma chi è quel Diavolo rosso?».

    A Milano lo chiamavano el Sciur Diavul, quasi dimenticando il suo vero nome. Lui a Milano era emigrato a quindici anni in cerca di quattrini con le corse in bicicletta. Tre anni prima infatti, era stato espulso dalle scuole comunali di Asti a causa delle frequenti risse con gli altri ragazzini. E i genitori – il padre era proprietario d’una avviata osteria – lo lasciavano sfogare in bicicletta, assecondando quella forte passione, purché non facesse altri danni.

    A Milano in quei primi anni del Novecento si corre in piazza d’Armi, dove oggi c’è la fiera, e si guadagna anche bene con quelle sfide senza esclusioni di colpi e d’ingegno. I ciclisti vengono visti dalla gente come strani personaggi, un po’ zingari e un po’ matti, ma di certo ricchi di fascino.

    In quel clima Gerbi s’impone presto all’attenzione di tutti gli appassionati di ciclismo. Nel 1903, a diciotto anni, vince la Milano-Alessandria, duellando in maniera molto rusticana con Giovanni Cuniolo di Tortona, colui che sta diventando il suo acerrimo rivale. Poi, nell’estate s’aggiudica rocambolescamente anche la Milano-Torino, con condizioni tremende di pioggia e vento.

    La Milano-Torino è la nostra più antica classica, nata addirittura nel 1876; si corre ancora oggi che siamo nel terzo millennio e ha raccontato, nelle varie differenti epoche, la grande storia del ciclismo. Nel 1894 si svolse su una distanza di 530 km, un viaggio infinito nella pianura padana, partenza alle 11 da Milano e arrivo il giorno successivo verso le 14 a Torino più di 24 ore in sella su quei rudimentali mezzi.

    Nel 1903, quando Gerbi arriva tutto solo al traguardo alla periferia della città torinese, in Barriera di Milano, all’altezza della cascina Marchesa, non trova neppure i giudici ad aspettarlo. Si rifugia in un bar. I commissari di gara avevano effettuato il percorso in treno, per fare un controllo lungo la strada, per verificare che i ciclisti non prendessero scorciatoie o che salissero su quelle prime rudimentali auto del seguito.

    Però prendendo poi il treno successivo non ce la fecero a tener testa ai primi corridori.

    Gerbi s’infuria, minaccia di fare sfracelli, racconta tutto a un cronometrista presente nel bar, poi si placa. Ha trovato un testimone che può garantire sul suo successo, visto che ha rifilato ben 23 minuti di distacco al rivale classico Giovanni Rossignoli, detto Baslot, (in dialetto pavese, scodella di vino), un campione di longevità straordinaria, che a quarantaquattro anni, nel ’27 correva ancora Giro e Tour nella stessa estate e soprattutto che seppe prendersi su Gerbi una rivincita straordinaria proprio dopo quella Milano-Torino.

    Rossignoli vinse infatti la Gran Fondo, con partenza e arrivo a Milano, al Trotter, ma viaggiando verso Piacenza, Cremona, Mantova, Brescia e poi ritorno a Milano. La vinse con ben sei ore di vantaggio. Erano maratone infinite, con quelle biciclette ancora grezze, viaggiando di notte e di giorno su strade impossibili.

    Gerbi era fortissimo anche su pista, nelle gare dietro grossi motori, gli stayers, che purtroppo non ci sono più. Sembrava fatto per simili sfide paurose e spettacolari, a velocità folli per l’epoca, al rullo di grosse, rumorose e pericolose motociclette, corse di grinta e di coraggio.

    Moto carenate, munite d’un rudimentale paravento posteriore (120 x 65 cm) dietro al quale si piazzava il ciclista.

    La bici è leggermente modificata e la ruota anteriore è più piccola per consentirgli di raccogliersi meglio dietro la moto. Il motociclista invece, detto anche allenatore, possiede un manubrio allungato, grazie al quale può stare (in pratica) col busto eretto per offrire maggior protezione dal vento a chi pedala. La ruota anteriore della bici sfiora quella posteriore della moto. Per parecchio tempo non inventeranno il rullo, poi diventato classico, dietro la ruota posteriore della moto.

    Sfide in cui nel 1909 un francese, Paul Guignard, non più giovane, sulla pista di Monaco di Baviera, dietro a una moto a tre cilindri, raggiunse la velocità sul giro di pista di 101,623 km all’ora, fra l’entusiasmo degli spettatori. Il motore era analogo a quello dell’aereo con cui due mesi prima Louis Blériot aveva sorvolato per primo la Manica.

    C’erano anche i mondiali della specialità dietro motori, per dilettanti (a partire dal 1893 a Chicago) e per professionisti (dall’85 a Colonia), sulle piste del mondo, Copenaghen, Glasgow, Vienna, Montreal, Parigi, Berlino. Fascinose stagioni in cui il ciclismo su pista era molto popolare.

    Ne vinse parecchie, il giovane Gerbi, di simili sfide, vinse anche il titolo italiano, e la Federciclo, a soli diciannove anni, lo scelse come azzurro ai mondiali della specialità sui 100 km al velodromo di Londra, il Crystal Palace.

    Gerbi andò a Londra assieme a Giuseppe Nuvolari, zio di Tazio, altro pistard di talento, il vero e proprio idolo del piccolo Tazio (correva in bici anche il papà, Arturo). Treno e traghetto, un viaggio non facile e non breve per quei giorni. In extremis lo fecero gareggiare fra i professionisti, nonostante la giovane età, contro i mostri sacri, da Walthour a Audemars, campioni molto popolari all’estero. Una sfida spietata e tragica. Invano Pietro Bixio, pistard genovese di razza a fine Ottocento, alla partenza gli offrì un casco di cuoio.

    «E veui gnente, e veui gnente!» gli urlò Gerbi in piemontese. Non voglio niente, nessun casco, nessuna protezione, perché la gente doveva vederli in faccia quegli eroi, come fossero dei toreri nel bel mezzo di un’arena. Così aumentavano follemente il proprio fascino fra la gente. Gli appassionati dovevano vedere i loro volti durante il massimo sforzo. Sì, lui non voleva nulla, nessun casco. E non gli andava neppure di indossare la maglia tricolore che gli veniva offerta, preferiva la sua, rosso fiammante. Ma soprattutto nessuna protezione.

    Una gara folle, quel mondiale londinese. L’americano Robert Bobby Walthour di Atlanta, fra i più forti specialisti, idolo della gente, a metà gara è nettamente al comando, ma alle sue spalle d’improvviso viene fuori lui, Gerbi, il Diavolo rosso. Stacca gli altri specialisti più forti, lo svizzero Audemars, ma stacca soprattutto il francese César Simar, di Lille. Insegue il battistrada, guadagna terreno, si avvicina. La gente è in piedi sulle tribune, nell’assordante rumore delle moto, al Crystal Palace. Gerbi urla al suo motociclista di aumentare ancora la velocità, «Pi fort, pi fort!» in piemontese.

    Il milanese Brambilla, motociclista, scuote il capo. La moto non riesce ad andare più forte, anzi sta perdendo clamorosamente colpi, metro dopo metro. E all’improvviso, in curva, Gerbi piomba addosso a quel rombante mezzo che lo precede. Le biciclette su pista, già all’epoca, erano senza freni e col pignone fisso. Il Diavolo rosso lancia un’imprecazione forte seguita da uno straziante grido. Compie un volo pauroso, annunciato dall’urlo della gente, ai 70 all’ora.

    Lo raccolsero con un trauma cranico, gravi ferite al capo, alle braccia, alle gambe, in una pozza di sangue. Gerbi rimase cinque giorni in coma e in pericolo di vita. Poi, si riprese, fra l’incredulità degli stessi medici londinesi. E nella stagione successiva a Torino vinse dietro quelle moto il campionato italiano di resistenza sui 100 km, pari a 250 giri di pista.

    Ebbe maggior fortuna di tutti i protagonisti di simile sfide che persero assurdamente la vita nei velodromi, gli americani Harry Helkes, Mac Lean e Georges Leander, il francese Charles Brécy, il belga Karel Verbist, i tedeschi Schuitter e Metling, il danese Sevenik. Un’ecatombe.

    Il Diavolo rosso partecipò anche al Tour de France, a soli diciannove anni, alla seconda edizione di quella leggendaria sfida, nel 1904. La seconda, ma che rischiò di essere anche l’ultima per tutto quello che accadde in corsa.

    Nella fase d’avvio della seconda tappa, infatti, da Lione a Marsiglia, sul Col de la République, verso Saint-Étienne, alle 3 di notte, illuminati da arcaici fari e dal chiarore della luna, i corridori furono vittime di un vero e proprio agguato. Al comando c’era il campione di casa, André Faure, con lieve vantaggio, quando dalle tenebre e da un bosco uscì un gruppetto di facinorosi che presero d’assalto i protagonisti del Tour de France. E fra questi il Diavolo rosso Gerbi, forse a causa del colore della sua vistosa maglia. Bastonate, calci, pugni, ma Gerbi non voleva mollare la sua bicicletta e ricevette una serie di colpi alle mani e alle braccia che lo costrinsero ad abbandonare la scena. Quei folli volevano a tutti i costi che a Saint-Étienne passasse per primo, verso Marsiglia, André Faure.

    Gerbi dovette così ritirarsi. E dire che stava correndo il Tour fra i protagonisti, quarto al traguardo di Lione, nella prima tappa, vinta da Maurice Garin. Lui ha sempre giurato che gli altri piazzati di quella infinita frazione, Frédérick e Chevalier, li aveva visti per un lungo tratto in auto.

    Gli organizzatori, capeggiati da Henri Desgrange, a bordo delle poche vetture del seguito, spararono colpi di pistola in aria per disperdere gli assalitori, sul Col de la République. Ma Gerbi dovette tornare a casa.

    La stagione successiva, nel 1905, mentre imperversa la guerra russo-giapponese e negli States viene fondata la città di Las Vegas, nasce in Italia la prima leggendaria classica, il Giro di Lombardia.

    Fin dalla prima edizione è la corsa di chiusura dell’annata, addirittura va in scena il 12 novembre. Una corsa fin da subito epica, che stagione dopo stagione racconterà leggendarie sfide fra i campioni più popolari d’Italia e del mondo.

    Partenza e arrivo a Milano, 240 i chilometri, pochi per quei tempi, verso Lodi, Crema, Bergamo e ritorno. Gerbi andò a studiarsi con calma il tracciato, alla ricerca di qualche diavoleria delle sue. Era davvero avanti rispetto agli avversari. Andava già a far le ricognizioni dei percorsi, e pare sia stato fra i primi a farsi massaggiare le gambe prima di una grande sfida.

    El sciur diavul trovò in fretta l’inghippo. Sulla strada da Milano a Lodi le rotaie del trenino, a fianco della strada, avevano le traversine bene interrate. Si poteva dunque procedere in bicicletta in mezzo ai binari, dove non c’era fango. Gerbi nella ricognizione si accorse, però, che dopo alcuni chilometri le rotaie si sdoppiavano e l’ago dello scambio bloccava il passaggio. Bisognava portarsi poco prima sulla banchina ciclabile, per evitare di restare bloccati.

    Ecco perché il Diavolo rosso in gara passò in testa fra le rotaie, pedalando sulla sua gloriosa Bianchi, montando per la prima volta i tubolari, ma di colpo si spostò nel fango, fra la sorpresa dei rivali e segnatamente di Cuniolo, costantemente alla sua ruota. Tutti pronti a dileggiarlo e a irriderlo per quella strana mossa: per quale motivo pedalare nel fango, quando era così comodo stare fra le rotaie del trenino?

    Ma d’improvviso ecco lo scambio dei binari, le imprecazioni, gli incidenti, il volo collettivo dei suoi avversari. Gerbi, sogghignando, fra colorite maledizioni nei confronti dei rivali, seppur nel fango, procedette spedito, aumentando sensibilmente la velocità con rinnovata grinta. Nella sua scia resistette per poco tal Parini. Poi El sciur diavul restò solitario al comando. A Milano, con il suo ghigno beffardo e felice, arrivò con 40 minuti di vantaggio.

    La folla lo applaudì a lungo, lui si lavò e si pulì restando però nei pressi del traguardo, per aspettare i battuti e guardarli intensamente negli occhi quando arrivavano boccheggianti e stravolti.

    Quanti rocamboleschi duelli nelle magiche annate d’inizio Novecento! Gerbi, come abbiamo ricordato, a vent’anni è campione d’Italia su pista nel mezzofondo, fra gli stayers. Al velodromo Umberto I a Torino, nel quartiere elegante della Crocetta, presero parte alla gara tre corridori. Un impianto storico, dedicato al re, dove all’interno della pista sul prato a fine Ottocento si disputarono le prime partite del campionato italiano di calcio.

    Gerbi è pilotato in moto da Reale della Peugeot, gli avversari sono i milanesi Singrossi, allenato da Minozzi, e Conti, allenato da Maffeis. 100 km in pista, Gerbi passa al comando dopo 58 giri (pista di circa 500 metri), i due avversari si rassegnano presto e lui prosegue con la sua consueta grinta sino al traguardo finale. In un’ora percorre 124 giri, vale a dire 49,600 km di media, nel 1905, con simili biciclette. I 100 km li chiude in 2 ore e 40’, salutato da lunghissimi applausi da parte dei torinesi. E i suoi fans di Asti gli offrono, finita la corsa, una fascia tricolore di campione d’Italia.

    Vinse anche la celebre Corsa Nazionale su strada all’insegna delle consuete sceneggiate a tinte forti. È solo al comando nella sua Asti, l’entusiasmo della folla è incontenibile. Un ragazzino attraversa la strada, Gerbi lo centra, cade, picchia la testa, sembra perdere i sensi, sanguina abbondantemente dal capo, lo sollevano di peso e lo portano in una farmacia poco lontano.

    Un medico sutura la ferita al capo con alcuni punti e vorrebbe ricoverarlo in ospedale. Lui si rianima, urla, sbraita, si fa dare un cognac e – incerottato e fasciato –, dopo aver mandato a quel paese il medico, riprende la sfida. Raggiunge anche Gaioni, che l’aveva superato, lo stacca ancora e vince fra gli applausi. È il nuovo idolo della folla. È primo anche nella prestigiosa Coppa di Alessandria.

    I suoi trucchi e i suoi inganni stavano diventando celebri fra gli appassionati. Su quelle strade spesso deserte e lontane dai centri abitati, magari a un incrocio, di notte, Gerbi piazzava un suo amico vestito da carabiniere del re, oppure da guardia municipale, o magari da milite della Croce Rossa, il quale mandava tutti sulla strada sbagliata, mentre lui poco prima aveva simulato un incidente, staccandosi per poi prendere la strada giusta. Uno dei suoi fedeli compari, secondo Clemente Canepari, corridore lombardo d’inizio secolo che disputò ben 11 Giri d’Italia, pare fosse Amilcare Savoiardo, ciclista e sportivo di Asti, fondatore, fra l’altro, dell’Alessandria Football Club. Storie favolose di un’epoca fascinosa e lontana.

    Nascevano ogni anno nuove sfide in quell’inizio del Novecento. Il Giro d’Italia avrebbe visto la luce nel 1909. Nel 1906, invece, si corre per la prima volta il Giro del Piemonte. Gerbi vince i primi tre consecutivi all’insegna delle consuete diavolerie. Inizia la serie staccando tutti sulla Serra, dopo Biella e verso Torino. Ma a Chivasso trova un treno merci fermo sulle rotaie, con il passaggio a livello chiuso. Lui stesso raccontò a distanza di tempo quell’episodio a Ruggero Radice detto Raro, amico caro e indimenticabile maestro di giornalismo, cantore del grande ciclismo per il Guerin Sportivo, La Stampa, la Gazzetta del Popolo e Tuttosport.

    Gerbi scavalca le sbarre cercando di passare sotto il treno, ma i ferrovieri lo vedono e lo bloccano. Nasce una rissa, i ferrovieri essendo numerosi riescono a immobilizzarlo, lo rinchiudono addirittura in uno stanzino a fianco dei binari. Il Diavolo rosso sembra una belva in gabbia, urla, sbraita e inveisce, fin quando arriva un’auto della giuria e viene chiarito l’equivoco.

    Gerbi si libera, è sempre al comando, ma nel finale verso il traguardo torinese va in crisi di fame. E raccontò a Raro d’essersi fermato in una pasticceria e di aver mangiato ben 24 cannoli alla crema.

    Storie infinite di fantastiche avventure. Nella Milano-Roma in due tappe, la prima a Bologna, Gerbi è protagonista di un’altra tragicomica vicenda. Nella seconda frazione, verso Firenze, sull’Appennino, stacca tutti e resta solo al comando con una ventina di minuti di vantaggio. Ma in quelle paurose discese su strade infami, Gerbi stacca anche le rare vetture del seguito, comprese quelle che dovrebbero fare da staffetta. È in testa alla corsa quando nelle terre maremmane perde la retta via, imprecando invano contro tutti i santi del firmamento.

    Gerbi, completamente fuori strada, affamato e furibondo, trova rifugio in un’osteria. Mangia follemente, al cospetto dello stralunato oste, gli racconta chi è e, soprattutto, che non ha una lira in tasca. L’oste chiama i carabinieri, ma lui nell’attesa dei carabinieri riusce a fuggire dalla finestra con la sua fida bicicletta.

    A Roma vince Carlo Galetti, milanese di Corsico, tipografo, altro acerrimo rivale del Diavolo rosso, che vincerà ben due Giri d’Italia, più un terzo con classifica a squadre.

    Erano davvero anni gloriosi di grande ciclismo. Nel 1907 nasce la Milano-Sanremo in maniera davvero strana. Nella precedente stagione, infatti, s’era svolta una Milano-Acqui-Sanremo in auto, ma soltanto due delle trenta macchine erano riuscite a raggiungere il traguardo. Facile aggiungere che l’esperimento fallì. Ma i sanremesi, attratti come tanti dal fascino di quelle già leggendarie maratone in bicicletta, proposero a Eugenio Costamagna e alla Gazzetta dello Sport una Milano-Sanremo per i ciclisti

    Prima edizione il 14 aprile 1907, soltanto 33 partenti, attacco di Gerbi ai piedi del Turchino. In vetta è primo con 3’ di vantaggio. A Savona, però, lo riprende il francese Garrigou. Gerbi non collabora, aspetta che arrivi dalle retrovie il compagno di squadra Petit-Breton. Entrambi corrono infatti per la Bianchi.

    Lucien Georges Mazan, bretone che visse parecchio tempo in Argentina, si diede quel nome, Petit-Breton sembra per nascondersi al padre, che non lo voleva ciclista. Gerbi sa che il francese è più veloce e questa volta saggiamente sta ai patti. Anzi, ostacola fin oltre il lecito Garrigou in vista dello sprint e concede così la prima storica vittoria nella classicissima all’amico Petit-Breton. In cambio, è ovvio, esige e ottiene una giusta ricompensa in denaro.

    Che personaggi, quei campioni! Petit-Breton vinse due volte il Tour de France, vinse le classiche e realizzò il record dell’ora. Una star in Francia. Purtroppo non ebbe fortuna nella vita. Trovò la morte, infatti, in un banale incidente d’auto al fronte, durante la Grande guerra.

    In quanto a Gerbi, persa la prima Sanremo, continuò però a vincere su tutti i fronti. Colse la classica sfida Roma-Napoli-Roma, rivinse il Giro del Piemonte.

    Al Giro di Lombardia, invece, architetta un nuovo diabolico piano che però questa volta fallisce. Sa che verso San Vittore Olona c’è un passaggio a livello spesso chiuso, e quando sta per transitare la corsa lui attacca, scavalca le sbarre con l’aiuto di un gruppo di amici, i quali poi costringono gli avversari a fermarsi. Nasce così una improvvisa rissa, mentre lui, Gerbi, guadagna terreno col passare dei chilometri e arriva trionfalmente a Milano, fra gli applausi della gente.

    Gli avversari però, capeggiati dai francesi, fanno reclamo e la mattina successiva, il 4 novembre, la giuria decide di squalificare Gerbi.

    La vittoria al Giro di Lombardia va così al francese Gustave Garrigou, primo straniero ad aggiudicarsi la classica di chiusura della stagione ciclistica. Gerbi viene addirittura sospeso per due anni, una punizione poi ridotta a furor di popolo a soli sei mesi.

    Ed è proprio in quell’annata, il 1908, che nasce l’idea del Giro d’Italia. L’annuncio della Gazzetta dello Sport è infatti del 7 agosto, con un titolone in prima pagina su sette colonne. L’estate dei Giochi di Londra, è la quarta olimpiade. L’estate della Pro Vercelli che vince lo scudetto. Prima edizione del Giro nel 1909, è una storia che appartiene da tempo alla leggenda dello sport della bicicletta.

    Il signor Angelo Gatti, che aveva lasciato la Bianchi per fondare l’Atala, aveva saputo che il Corriere della Sera, assieme al Touring Club e alla Bianchi, stava per lanciare un Giro d’Italia ciclistico dopo aver tentato invano quello motoristico. Un Giro d’Italia anche per copiare la grande sfida che dal 1903 andava in scena sulle strade di Francia, il Tour. Gatti rivelò l’idea a Tullo Morgagni, caporedattore della Gazzetta, il quale avvertì il direttore e fondatore Eugenio Costamagna e Armando Cougnet, figura storica, che sino al ’48 sarà il direttore della grande sfida, prima di lasciare il posto al giovane e geniale Vincenzo Torriani.

    Ebbe inizio così l’avventura del Giro d’Italia. Partenza da Milano, in piazzale Loreto, il 13 maggio 1909, verso le tre di notte. Si partiva di notte perché viaggiando ai venti all’ora in quelle infinite maratone, non si poteva far altro per arrivare al pomeriggio, fra la gente. Partirono in 127 i corridori, per il primo Giro, fra una serie di colpi di scena che suscitarono entusiasmo fra gli appassionati.

    Prima tappa verso Bologna passando dal Veneto, ben 397 km, ma già a Milano il primo a finire a terra fu proprio lui, uno dei più attesi protagonisti, il Diavolo rosso Giovanni Gerbi. Cadde e si rialzò dolorante e contuso ma con la bicicletta inservibile. Il regolamento dell’epoca non ammetteva sconti. Doveva ripararla lui la bici, senza alcun aiuto, pena la squalifica e l’esclusione dalla corsa. Così Gerbi, rabbioso e furente come spesso accadeva, raggiunse la vicina officina della Bianchi per riparare da solo il mezzo. Impiegò quasi tre ore, addio sogni.

    Quel primo Giro lo vinse ai punti il varesino Luigi Ganna, la classifica a tempi venne ideata infatti soltanto nel ’14. Famosa la prima intervista concessa da Ganna all’Arena di Milano, portato in trionfo dalla sua gente. A un incauto cronista che gli chiese qual era la sua prima impressione, Ganna lo guardò stralunato e gli urlò: «Mi brucia tanto il culo...».

    Erano otto le tappe, alcune delle quali fra i 300 e 400 km condotte a una media di poco superiore ai 20 all’ora. Si fa in fretta a fare il conto di quante ore dovevano stare in sella i ciclisti.

    Fallito il Giro d’Italia, Gerbi continuò a correre, ma sempre con minor fortuna al cospetto di avversari più giovani di lui, e le sue diavolerie ormai stavano diventando anche prevedibili. Nell’estate del ’20, a trentacinque, anni la giuria del Giro lo sorprese attaccato a un sidecar. Lo cacciarono dalla corsa, anche se la folla inveì contro i giudici e gli organizzatori, schierandosi dalla parte di quell’antico eroe che non sapeva più scendere di bici, pur diventando un industriale del settore. A quarantasette anni affrontò ancora la Sanremo, a quarantotto anni il Giro, a cinquanta anni realizzò il record dell’ora dei veterani, a cinquantasei vinse uno spettacolare Giro del Monferrato.

    Beffarda la sua scomparsa nel ‘54, quando aveva sessantanove anni. Era rimasto vittima di un grave incidente d’auto rientrando a casa dalla visita a un antico rivale e amico, Giovanni Rossignoli. Il medico gli intimò di stare a letto per parecchi giorni, se voleva guarire. Lui lo lasciò uscire di casa e si alzò. Lo colse un embolo, ma almeno era morto in piedi, come esigeva la sua avventurosa storia di vita.

    MAURICE GARIN

    Lo Spazzacamino

    È stato fra i primi e più grandi giganti della strada, anche se era alto soltanto 1,62 e pesava 61 chili. Faceva lo spazzacamino Maurice Garin da ragazzo, proveniva da un piccolo villaggio sulla strada che da Aosta porta a Courmayeur, la frazione che ricorda il suo cognome, Chez-les-Garin, nel comune di Arvier, basse case di pietra attorno alla chiesa ed al castello, strade strette, le vigne dell’Enfer in lontananza verso il ghiacciaio del Château Blanc.

    La Val d’Aosta nell’Ottocento – vista anche la posizione geografica – era spesso in ballo fra Italia e Francia; appartenuta al ducato di Savoia e poi al Regno di Sardegna, sempre impegnata a conservare le proprie identità culturali e linguistiche.

    Maurice era il quarto di nove figli di Clément e Maria Teresa Ozello. La mamma veniva da Locana, nelle valli piemontesi, verso Ceresole Reale e il Parco del Gran Paradiso.

    Un gigante della strada, Garin, come chiamavano i ciclisti a quei tempi, perché è stato lui a vincere il primo Tour de France nel 1903, dopo aver trionfato nella seconda e nella terza Parigi-Roubaix, nel 1897 e ‘98. Un valdostano, classe 1871, che alla maggiore età scelse la nazionalità francese, nel ’92. Ma sulle sue origini italiane o francesi sono nate dispute intense. Secondo approfonditi studi dell’ingegner Franco Cuaz, a fine Ottocento, quando vinse le Roubaix era ancora italiano. Però c’è una sua dichiarazione che deve far testo più di tanti documenti.

    Nel ’38, quando Gino Bartali stava trionfando al suo primo Tour de France, con Girardengo ct della nazionale italiana, l’inviato del giornale La Stampa, Vittorio Varale, nella fase d’avvio dell’ultima tappa, da Lille verso Parigi, fece visita proprio a Maurice Garin, all’epoca proprietario di un’autorimessa con distributore di benzina nella sua Lens, nord francese, dipartimento del Pas-de-Calais, vicino a Roubaix. Venne fuori una piacevole intervista nel corso della quale il campione volle precisare che lui si sentiva a tutti gli effetti francese, visto che la Francia l’aveva sfamato, l’aveva reso celebre e dell’Italia aveva soltanto vaghi ricordi di gioventù. Non parlava la nostra lingua e neppure il patois valdostano. E per la Francia aveva anche prestato servizio militare.

    Erano anni di intense tensioni quelle tra Francia e Italia, mentre Maurice viveva in Val d’Aosta, nella seconda metà dell’Ottocento. Il presidente della Repubblica francese Sadi Carnot venne ucciso dall’anarchico italiano Sante Caserio. Un evento passato un po’ in secondo piano col tempo, ma del quale in quegli anni si parlò a lungo. Sante Caserio era un anarchico italiano di Motta Visconti, nel pavese, famiglia contadina poverissima, tanti figli, il padre che muore di pellagra in manicomio, lui che scappa di casa a dieci anni per non pesare più sul bilancio famigliare. A Milano si unisce a un gruppo di anarchici, lo arrestano, scappa in Svizzera e poi Francia. E a Lione, per vendicare Auguste Vaillant, decide di aggredire il presidente della Repubblica che in quella città doveva inaugurare l’Esposizione Universale.

    Colpì il presidente al cuore con un coltello, non tentò neppure la fuga, gridò soltanto «Viva l’anarchia»; era il 24 giugno 1894, Sante Caserio aveva ventun anni. Lo processarono, lo giustiziarono il 16 agosto di quella stessa estate con la ghigliottina, e i rapporti tra Francia e Italia si inasprirono parecchio.

    La Francia, Maurice, l’aveva raggiunta a piedi quando aveva tredici anni assieme ai fratelli e ad alcuni amici. Prima a Reims, poi in Belgio, poi a Maugebe e infine a Lens, dove trovò fissa dimora; qui riposa al cimitero al fianco d’una delle tre mogli. Sì, si sposò tre volte, perché c’era chi confermava che le belle donne gli siano sempre piaciute, anche da brillante e simpatico ottuagenario, quando ancora non disdegnava brevi passeggiate in bicicletta.

    Un mestiere ingrato il suo, lo spazzacamino. Si trattava di risalire i camini di tante abitazioni dall’interno, pulirli con una grossa spatola e poi ridiscendere, sempre dall’interno. Mestiere di fatiche e di miserie in quegli anni di fine Ottocento. E le prime corse in bicicletta consentivano di rendere più lieve la vita e di guadagnare nuovi quattrini.

    L’Italia del resto nell’ultimo decennio dell’Ottocento stava vivendo l’ennesima crisi politica, tanto per cambiare. Erano morti da poco gli eroi del Risorgimento, Garibaldi nell’82 a Caprera, Mazzini dieci anni prima a Pisa, il primo re d’Italia Vittorio Emanuele II s’era spento nel ’78, lo stesso anno di papa Pio IX, Giovanni Mastai Ferretti. Al soglio pontificio era salito un aristocratico romano, Vincenzo Gioacchino Pecci, col nome di Leone XIII. Epoca in cui l’emigrazione stava diventando sempre più importante per gli italiani.

    Nelle terre del nord francese Maurice Garin e i suoi fratelli scoprirono le corse in bicicletta, che fra l’altro si stavano moltiplicando anno dopo anno. Garin con i fratelli César e Ambroise, con altri corridori, partecipò a un circuito dedicato ai professionisti, quasi clandestinamente. Li staccò tutti, gli organizzatori volevano fermarlo, visto che era una specie di intruso, ma lui insistette. Cadde due volte, nessuno lo raggiunse. Però non potevano dargli il premio spettante al vincitore, 150 franchi, ma la gente, affascinata da quel piccolo sconosciuto ciclista, fece una colletta e gliene diede 300.

    Iniziò in pratica in quel modo la sua avventura di campione, protagonista indiscusso di infinite maratone. Su tutte la Parigi-Brest-Parigi, 1200 km in una sola tappa, ai venti all’ora. Ci si poteva fermare a piacimento, purché si arrivasse davanti a tutti a Parigi. Una sfida più che mai fascinosa. Venne ideata nel 1891, si svolgeva ogni dieci anni, sino ai 1951. Ma ancora adesso va in scena, dedicata non più ai professionisti bensì ai cicloamatori, all’insegna d’un successo popolare straordinario. Nell’agosto 2019 sono partiti in 6800, dei quali 382 italiani. È aperta tutti dopo i diciotto anni, però occorre una sorta di brevetto, bisogna aver dimostrato di saper pedalare per mille chilometri entro tempi molto stretti.

    Garin trionfò nel 1901 in questa massacrante maratona restando in sella per 52 ore e 11 minuti. Ecco perché lo soprannominarono "cul de fer". Aveva vinto la Parigi-Brest-Parigi sfruttando il

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