Cambiamenti climatici: Come stiamo perdendo la sfida più importante
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Anteprima del libro
Cambiamenti climatici - Alessandro Farruggia
Un vecchio contadino una volta mi ha detto: «Dio perdona sempre, noi, gli uomini, perdoniamo alcune volte, la natura non perdona mai». Se tu la prendi a schiaffi lei lo fa a sua volta. Credo che noi abbiamo sfruttato troppo la natura.
Papa Francesco
Introduzione
Verso i tre gradi
Troppo poco, troppo tardi. Nonostante le evidenze pressanti che un cambiamento climatico è già in atto e la ragionevole previsione che nei prossimi decenni questo cambiamento si dispiegherà in tutto il suo potenziale con effetti destabilizzanti per il nostro pianeta, il mondo tarda ad agire.
O meglio, lo fa soprattutto a parole, e molto meno nella sostanza. Benché la comunità scientifica abbia da tempo accertato che gran parte di questo riscaldamento sia ampiamente di origine antropica ed è stato causato dall’immissione in atmosfera di grandi quantità di gas serra provenienti dall’utilizzo di combustibili fossili, dalla deforestazione e dalle attività agricole e industriali, le nazioni non riescono a concordare su un piano di mitigazione per tagliare della metà le emissioni al 2030 e azzerarle al 2050, quello che secondo gli scienziati dell’Ipcc (Intergovernamental Panel on Climate Change) servirebbe per rispettare l’impegno di restare entro i due gradi (e magari avvicinarsi al grado e mezzo) di riscaldamento dall’era preindustriale, un livello che è ritenuto la soglia da non superare per non avere impatti distruttivi.
Due gradi sembrano pochi, ma climaticamente sono tantissimi. E importante è ricordare che non partiamo da zero, che quei due gradi non sono ancora davanti a noi. Di quei due gradi ce ne siamo già bruciato uno. Ne resta uno solo, anzi, meno, visto che l’Ipcc stima che a causa della latenza del sistema climatico, il cosiddetto climate lag, per i gas climalteranti che abbiamo già immesso in atmosfera sia già implicito un riscaldamento ulteriore di 0,6 gradi.
Questo significa che l’aspirazione a contenere il riscaldamento entro il grado e mezzo, contenuta anche nell’accordo di Parigi del 2015, è ormai praticamente irrealizzabile. E che per rimanere entro i due gradi dovremmo agire con decisione per raggiungere il picco minimo delle emissioni entro il 2020, massimo 2025 – tra l’altro, prima è, meno alti sono i costi – per poi avviare un rigoroso percorso di mitigazione fino ad arrivare a emissioni zero nel 2050. Sarebbe assolutamente fattibile, volendo.
Ma tutto questo è, allo stato attuale, una chimera. Le promesse fatte nell’accordo di Parigi rappresentano un’aspirina prescritta a un malato di broncopolmonite. Abbassano un po’ la febbre, ma non bastano a curare. E se anche gli impegni di mitigazione presi a Parigi – assolutamente volontari e non legalmente vincolanti – fossero rispettati da tutti, anche da chi come gli Stati Uniti si è poi chiamato fuori da quell’accordo – avremmo un mondo più caldo di 3 gradi. Il che significa fino a 4-5 gradi sulle aree emerse e fino a 8-10 nelle aree polari. Questo comporterebbe uno spostamento delle fasce climatiche di centinaia di chilometri, con effetti pesantissimi per biodiversità, agricoltura, comunità umane. Lo scioglimento del permafrost nelle aree artiche rischierebbe di innescare effetti di retroazione positiva per il rilascio del metano (gas serra climaticamente ventotto volte più potente della CO2) e della CO2 contenuta in quei terreni ghiacciati; la progressiva fusione dei ghiacci della Groenlandia e di parte dell’Antartide farebbe innalzare il livello del mare, che crescerebbe anche per l’effetto dell’espansione termica. L’immissione di acque fredde e dolci nell’Atlantico settentrionale potrebbe turbare e rallentare la Corrente del Golfo molto prima di quanto si riteneva solo pochi anni fa; di conseguenza, l’aumento della temperatura e dell’acidità degli oceani avrebbe effetti pesanti sulle popolazioni ittiche, colpendo in modo particolare le barriere coralline. Le zone costiere più basse sarebbero invase dall’acqua ad ogni tempesta, e in parte finirebbero sotto. Crescerebbe la siccità in molte regioni, tra queste il Mediterraneo, aumenterebbero dovunque gli eventi estremi e le piogge sarebbero concentrate in episodi molto più intensi e potenzialmente fautori di alluvioni e dissesti idrogeologici.
A pagare il prezzo più alto sarebbero in primis i Paesi più poveri, sia perché hanno meno risorse per l’adattamento sia per la loro collocazione geografica, quasi sempre in aree tropicali ed equatoriali particolarmente sensibili al cambiamento climatico. Ma a pagare un prezzo salato sarebbero anche i Paesi che si trovano in zone climatiche sensibili, come quelli che si affacciano sul Mediterraneo e sull’Artico. L’aumento della siccità e degli eventi estremi porterebbe ad un aumento delle migrazioni, sia quelle interne, sia quelle dal Sud del mondo ai Paesi sviluppati, e probabilmente innescherebbe anche dei conflitti.
Nessuno può chiamarsi fuori, dire «non avrei mai immaginato, non sapevo». Tutto questo è noto da decenni e per evitarlo le Nazioni Unite hanno allestito un processo negoziale che è partito nel 1992 con buone intenzioni e grande risonanza mediatica. Esso ha raggiunto il suo picco nel protocollo di Kyoto del 1997, ma si è poi arenato tra gli opposti egoismi nazionali ed è degradato da un incisivo approccio top down a uno bottom up, da legalmente vincolante a collaborativo e volontario nei suoi elementi chiave, riprogrammando gli obblighi in impegni politici.
In altre parole, è diventata una ricetta soft che nei Paesi con una coscienza ambientale più sviluppata come quelli dell’Unione Europea ha prodotto pur sempre effetti positivi e riduzioni delle emissioni. Ma nel resto del pianeta è stato largamente inefficace, specialmente dopo l’avvento di leader negazionisti come Trump negli Stati Uniti e Bolsonaro in Brasile.
L’Europa, che ha grandi responsabilità storiche per le emissioni dall’inizio dell’era industriale, ormai conta per un mero 10% delle emissioni globali. È politicamente importante, ma sostanzialmente marginale nella torta delle emissioni, e quindi non basta averla dalla parte giusta per assicurare un negoziato efficace e soprattutto risultati capaci di rispondere alla minaccia della catastrofe ecologica.
La partita si gioca tra Cina e Usa, primo e secondo emettitore mondiale di CO2. E se Pechino è a suo modo impegnata nel processo negoziale, l’America di Trump se ne è fragorosamente chiamata fuori.
E così le conferenze delle parti, anno dopo anno, sono giunte nel 2018 a quota ventiquattro (più la conferenza bis di Bonn) e i risultati sono quaresimali. Politicamente incoraggianti, per i partigiani del bicchiere mezzo pieno, ma del tutto inadeguati in termini concreti. E la soluzione non è abbandonare la sfida, ma raddoppiare gli sforzi.
L’atmosfera non crede ai passi in avanti politici, alle belle dichiarazioni, agli impegni solenni. L’atmosfera guarda solo ai fatti, a quanti gas climalteranti vengono immessi. Ed è un fatto incontrovertibile che le concentrazioni di CO2 in atmosfera continuino inesorabilmente a crescere anno dopo anno e hanno ormai superato la quota psicologica di 400 ppm, toccando i 410 ppm nel 2018. Nel 1992, anno di approvazione della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (Unfccc), la concentrazione di CO2 in atmosfera era di 356 ppm. Questo significa che in soli ventisei anni l’aumento è stato del 26%. Se si considera che rispetto all’epoca preindustriale – su un arco quindi di duecento anni – l’aumento è stato del 44%, un innalzamento del 26% in ventisei anni è da considerarsi un disastro che l’Unfccc non è riuscito ad arginare.
Il gigantesco processo negoziale ha prodotto un topolino. Secondo i dati del rapporto 2018 della PBL – la Netherlands Environmental Assessment Agency – nel 2017 le emissioni di gas serra ammontavano a 50,86 gigatonnellate di CO2 equivalente. Il 55% più alte che nel 1990, l’anno di riferimento dei negoziati climatici, quando erano state di 32.91 Gt di CO2 equivalente e del 40% più alte rispetto al 2000 quando erano state di 36,16 Gt. Avete letto bene: nei venticinque anni (1992-2017) trascorsi dall’Earth summit di Rio e, al 2017, dopo ventiquattro conferenze delle parti, le emissioni non sono scese, ma sono drammaticamente cresciute di oltre la metà, con un tasso medio di crescita superiore al 2%. Ancora peggio appare se si prendono in esame le emissioni globali della sola
CO2: erano circa 36,2 gigatonnellate nel 2017, ben il 63% in più rispetto al 1990. E la proiezione per il 2018 fatta da Global Carbon Budget vede un’ulteriore crescita: 37,1 Gt, superiore del 2,7% rispetto al 2017. Un altro disastro. Come risultato, la temperatura media globale è aumentata di circa un grado nell’ultimo secolo, ma la metà di questo aumento è avvenuta negli ultimi venticinque anni. Un fallimento.
Le chiacchiere stanno a zero.
I governi – ad esclusione, in parte, di quelli dell’Europa occidentale e di quelli dei Paesi in via di sviluppo più colpiti – sono astutamente complici, fanno credere alle opinioni pubbliche di conoscere e prendere sul serio la minaccia e di rispondere ad essa con il negoziato, di essere sinceramente impegnati, ma tacciono che le trattative da loro condotte hanno prodotto sinora risultati largamente inadeguati, e si guardano bene dal proporre un’accelerazione. Fingono di impegnarsi, ma procedono a piccolissimi passi tra grandi proclami. Per dirla con James Hansen, ex capo del Goddard Institute for Space Studies della Nasa, forse il più famoso climatologo americano alla fine del secolo scorso, autore nel 1988 di una audizione davanti al Senato nella quale lanciò l’allarme sui cambiamenti climatici, «l’accordo di Parigi è veramente una truffa. Non c’è azione, solo promesse». Duro, ma rende l’idea.
La verità è che per rispondere in maniera adeguata alla minaccia dei cambiamenti climatici manca una sola cosa, purtroppo drammaticamente importante: la volontà politica. Per questo serve premere sulla politica, agire sia al momento del voto scegliendo chi mette l’ambiente in cima alle priorità, sia durante l’attività dei partiti, per chi ne fa parte. Il voto è un’arma potente per orientare le scelte dei politici, per modificare le loro agende e mettere in testa la lotta ai cambiamenti climatici e lo sviluppo sostenibile. È necessario mobilitare le coscienze, e in questo senso lavorano i movimenti che stanno riportando in piazza centinaia di migliaia di persone, dai Fridays for future promossi da Greta Thunberg al più radicale Extinction Rebellion, fino alle proteste organizzate dal Peoples Climate Movement e da Rise for Climate. Sono tutti strumenti di pressione sulla politica, che solo in parte e assai lentamente sta iniziando a capire. E la velocità della risposta è una questione essenziale. Il problema è che non abbiamo tempo, che le scelte vanno fatte ora.
Accadrà? Va detto che se ci sono molti segni negativi, ve ne sono anche positivi: la crescita delle energie rinnovabili, il disaccoppiamento del Pil e delle emissioni, la disponibilità del mondo produttivo ad uno sviluppo sostenibile e alla decarbonizzazione, la crescente consapevolezza ecologica di fasce sempre più ampie della popolazione.
I segnali di mobilitazione delle fasce giovanili sono un elemento di particolare speranza. La nostra generazione ha sostanzialmente fallito, e così la precedente. La loro, nei prossimi anni, ha l’ultima finestra di opportunità per farsi sentire e garantirsi un futuro migliore, per loro, i loro figli e i figli dei loro figli. Sarebbe un peccato sprecarla.
Tra scienza e negoziati
Nasce l’Unfccc
Prima di Parigi e di Kyoto, c’è stata Rio. Quel Summit della Terra
del 1992 che ha celebrato in pompa magna la neonata Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc). Era un passo in avanti notevole. Ma se la Convenzione è stata il punto di partenza delle trattative, per arrivarci il percorso è stato graduale.
Un primo passo significativo c’era stato nel 1979, quando, ascoltando gli allarmi dei climatologi, l’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) aveva organizzato la prima conferenza internazionale sul clima di Ginevra, in Svizzera, per valutare le conoscenze esistenti su come e quanto gli aumentati livelli di concentrazione di gas serra nell’atmosfera potessero portare a un aumento della temperatura media. Oggi è un ovvio comune sentire, ma allora il riscaldamento globale indotto dall’uomo era considerato una possibilità teorica, non sufficientemente supportata da prove scientifiche, e soprattutto circondato da incertezze relativamente ampie sull’entità dell’impatto antropico. Era un primo passo, che rafforzò la consapevolezza tra i climatologi stessi.
Nel decennio successivo, grazie al miglioramento dei modelli climatici e del lavoro di vari gruppi di ricercatori, le incertezze si sono diradate e la consapevolezza è ulteriormente aumentata, anche nel pubblico e quindi nel mondo politico. Serviva a quel punto qualcuno che sintetizzasse lo stato dell’arte della ricerca climatica in un lavoro complessivo, certificato dalle Nazioni Unite.
Per questo nel 1988, dopo la World conference on the changing atmosphere implications of global security, nella quale emerse che attraverso le emissioni di gas serra in atmosfera l’umanità stava conducendo «un incontrollato e pericoloso esperimento globale», due organizzazioni come il Wmo e il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) decisero di istituire il Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (Intergovernmental Panel on Climate Change, Ipcc), con il mandato di valutare le informazioni scientifiche disponibili su di essi, esaminare il loro impatto sociale ed economico e proporre strategie di risposta adeguate a prevenire e controllare le modificazioni del clima.
Con la risoluzione 45/53 del dicembre 1988 l’assemblea generale delle Nazioni Unite approvò l’istituzione dell’Ipcc. Era l’intuizione giusta, la premessa scientifica per certificare l’esistenza di un’emergenza mondiale e quindi giustificare un’azione globale. L’anno successivo l’Unep e il Wmo avviarono i preparativi per i negoziati su una Convenzione quadro sui cambiamenti climatici che contenesse principi e accordi di base, che avrebbero potuto essere elaborati in seguito in modo più dettagliato attraverso emendamenti e protocolli.
Per arrivarci fu creato un Comitato intergovernativo di negoziazione che tra il 1990 e il 1992 tenne cinque sessioni negoziali e produsse un testo che fu adottato il 9 maggio 1992, poco prima del vertice della Terra
delle Nazioni Unite di Rio de Janeiro.
La Convenzione quadro sui cambiamenti climatici stabilisce la cornice di riferimento delle strategie e degli impegni che i Paesi membri dell’Onu si assumono in materia di protezione del clima. La Convenzione riconosce che i cambiamenti climatici «direttamente o indirettamente causati dall’uomo […] alterano la composizione dell’atmosfera e si aggiungono alla normale variabilità» e costituiscono una preoccupazione comune. Le parti della Convenzione si impegnano «a proteggere il sistema climatico per la presente e le future generazioni sulla base dell’equità e secondo responsabilità comuni ma differenziate» e a «prendere misure preventive per prevenire le cause dei cambiamenti climatici e i suoi effetti aversi».
L’obiettivo della Convenzione è quello di «stabilizzare le concentrazioni di gas serra nell’atmosfera a un livello tale da prevenire pericolose interferenze antropogeniche con il sistema climatico» e il livello di stabilizzazione deve essere raggiunto «in un periodo di tempo tale da permettere agli ecosistemi di adattarsi in modo naturale ai cambiamenti del clima, tale da assicurare che la produzione alimentare non venga minacciata e tale infine da consentire che lo sviluppo economico mondiale possa procedere in modo sostenibile».
Dato