30 giugno 1960: La rivolta di Genova nelle parole di chi c'era
By A. Benna and L. Compagnino
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La popolazione si ribella e a migliaia scendono in piazza. Protagonisti della rivolta sono i portuali, che partecipano agli scontri più duri, i partigiani, che prendono le decisioni tattiche, i “ragazzi con le magliette a righe”, i più giovani, che si affacciano per la prima volta sulla scena politica. Accanto a loro, gli operai delle fabbriche del Ponente, gli intellettuali, le donne…
Dopo Genova altre città insorgeranno, ci saranno scontri durissimi con le forze dell’ordine, morti e feriti. A seguito di tutto questo il Presidente del Consiglio Tambroni sarà costretto a dimettersi e il governo cadrà.
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30 giugno 1960 - A. Benna
Prefazione
Odio gli indifferenti
Nel giugno del 1960 non avevo ancora compiuto cinque anni, eppure assorbivo già l’aria che tirava in famiglia, un’aria che indubbiamente non potrei definire serena e spensierata, ma certo intensa e appassionata. Un’aria carica di speranze lontane e vicine, dove si mescolavano gli echi della rivoluzione cubana – si parlava dei barbudos
di Castro e Che Guevara come se fossero vicini di condominio – alle parole accorate del papa buono
, quel Giovanni XXIII che di lì a poco avrebbe convocato il Concilio Vaticano II e dalla sua opzione per i poveri
sarebbe nata la Teologia della Liberazione... Ricordo i commenti pieni di entusiasmo per quel papa, proprio a casa mia dove aleggiava una scarsa simpatia per il clero in generale, e ricordo anche i tanti momenti di tristezza che le nostre passioni provocavano, come il giorno in cui, tornato da scuola (era ormai il 1967 e facevo la seconda media a Chiavari), trovai i miei in lacrime: con una stretta al cuore, pensai fosse morta una persona cara, pensai ai nonni o allo zio preferito... Avevano ucciso Che Guevara, ed era in effetti una persona cara, carissima, a casa mia, anche se vista soltanto in foto e in rari servizi televisivi (memorabile il discorso all’assemblea dell’Onu, che gareggiava in popolarità domestica soltanto con i furibondi colpi di scarpa sferrati da Nikita Kruscev sul banco dei delegati); comunque, la tragedia era attesa da circa un mese, quando avevano diffuso la notizia che Tania la Guerrigliera era caduta in un’imboscata dell’esercito boliviano, assieme a tutto il suo gruppo. Prima ancora (nel 1961), la stessa tristezza l’avevo respirata dopo l’assassinio di Lumumba, e non saprei neppure spiegare come i miei genitori sapessero della sua esistenza e ne seguissero le gesta, ma per me Lumumba era un nome che evocava dignità per l’Africa come lo sarebbe stato tanto tempo dopo quello di Mandela...
E la prima volta che mi sono avventurato
a Genova da solo, attirato da quella che per me era una sorta di frontiera, aria pervasa di aromi d’Africa e America Latina nei vicoli del grande porto allora in piena attività, ecco perché, passando da piazza De Ferrari, ricordo di aver rivissuto in un’ondata di emozioni tutti i discorsi e i commenti accesi su quell’epopea antifascista che era stato il giugno del ‘60 nei racconti di casa mia: i camalli e i partigiani, i famigerati caroselli
delle camionette e qualche bagno forzato nella fontana, giusto per spegnere un po’ di tracotanza, la solidarietà delle genti dei caruggi che lanciavano dalle finestre fiori sulla celere di Tambroni ma con tutto il vaso, terra compresa, e gli appelli di Pertini e Terracini, persino una canzone che rievocava tutto questo, sentita fino a consumare il vecchio disco comprato in qualche festa dell’Unità sul lungo Entella...
A quei tempi, una dozzina d’anni dopo le degne giornate di Genova, mio padre andava a sedersi sui binari della ferrovia con i suoi compagni della Fit Ferrotubi, a ogni nuova cassa integrazione che poi pagavano quando capitava e mai del tutto, trasformando i diritti in elemosine e i doveri in umiliazioni, e mia madre ingoiava rospi senza tacere alla San Giorgio, quella degli impermeabili impeccabili... Metalmeccanico lui, tessile lei, decenni di lotte e alla fine stessa conclusione: licenziamento per chiusura e tanti saluti.
Insomma, sono cresciuto in quel clima, respirando quell’aria sana, anche se spesso amara, imparando che senza la memoria siamo sacchi vuoti che vanno dove li sbatte il vento, banderuole prive di coscienza, per di più con i nonni materni che nel ‘43 tenevano nascosti i partigiani in solaio mentre a pianterreno i tedeschi saccheggiavano la cucina, e un’altra volta, in cui erano venute le camicie nere a cercare un parente più giovane per arruolarlo o sbatterlo al muro – a lui la scelta – mio nonno li aveva squadrati da capo a piedi limitandosi a dire fuori dai denti: Vergognatevi
. La minaccia di fucilarlo nell’aia rimase soltanto urlata, forse anche perché c’era da trebbiare e i contadini in quel momento servivano vivi, probabilmente sarebbero tornati dopo, a saldare i conti... ma dopo, passò il fronte e nell’aia venne a piazzarsi una compagnia di artiglieri polacchi, e la storia andò avanti con la famiglia al completo. Intanto, molto più a sud, mio padre, adolescente, ammirava il viavai di navi da guerra alleate nel porto di Bari appena liberato
. Era il 2 dicembre del ‘43, quando un fulmineo contrattacco dell’aviazione tedesca aveva messo a ferro e fuoco l’intera rada e parte della città, affondando diciassette navi. Tra queste, un cargo militare, il John Harvey
, bruciando, avrebbe causato molte più vittime nei giorni e mesi successivi: perché conteneva duemila bombe all’iprite, e quel fumo avvelenò almeno mille civili e oltre seicento soldati. Il segreto sarebbe stato mantenuto per mezzo secolo, perché l’iprite era stata messa al bando dalla Convenzione di Ginevra e il suo uso vietato fin dal 1926. Nonostante i documenti e i filmati siano ormai declassificati
, nessuno ha mai chiesto a Washington cosa ci facessero quelle duemila bombe ufficialmente inesistenti e quindi mai usate
nella Seconda guerra mondiale... Ancora non so come sia sopravvissuto mio padre a quelle esalazioni, visto che per giorni cercò di aiutare come poteva a caricare feriti e sgombrare macerie.
Dunque, sono cresciuto in una famiglia di persone che, nel loro piccolo, non sono mai rimaste indifferenti, non hanno badato ai fatti propri
, e tra i pochi libri che giravano in casa – neanche i libri pare stessero fermi – ce n’era uno di Gramsci dove ho ritrovato una pagina che sembra il nostro manifesto di famiglia
. Diceva Gramsci nel 1917:
"Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.
L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva; e la massa ignora, perché non se ne preoccupa: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.
Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti".
È ripensando a tutto questo, che ho provato gioia – sì, credo di poterla definire gioia – quando ho saputo che sarebbe stato scritto – e finalmente pubblicato – un libro sul giugno del ‘60 a Genova. Questo libro.
Abbiamo bisogno di testimonianze che ci raccontino la vera storia, le vicende umane di quanti non sono rimasti indifferenti e hanno partecipato e parteggiato, e anche nelle sconfitte, non sono mai stati vinti, perché hanno difeso e mantenuto in vita il bene più prezioso: la dignità.
E non si tratta affatto di crogiolarsi nel passato per delusione del presente: tra la Genova del 1960 e la Genova del luglio scorso c’è più che un filo, c’è una cima, una gomena, mille legami tra persone che non dimenticano e ricordano le proprie radici per gettare germogli nell’oggi e nel domani, con la chiara coscienza che quella parte più oscura e brutale del genere umano è sempre pronta a scatenarsi quando l’indifferenza glielo permette.
Pino Cacucci
giugno 2002
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