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Il passato non muore: Un nuovo caso per il magistrato Elena Macchi
Il passato non muore: Un nuovo caso per il magistrato Elena Macchi
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Il passato non muore: Un nuovo caso per il magistrato Elena Macchi

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About this ebook

Una donna viene trovata morta nel proprio appartamento in via Prima Cappella, ai piedi del Sacro Monte. Si tratta di Milva Rossi, psichiatra. A rinvenire il corpo, Susanna, la figlia di quattordici anni. La donna ha la gola squarciata. L’assassino non ha lasciato tracce, tranne una propria fugace apparizione davanti alla telecamera del condominio: si tratta di una donna dai capelli lunghi e scuri. È l’unico indizio per la polizia che comincia a indagare. Da questo momento ha inizio la caccia al killer che vede scendere in prima linea il P.M. Elena Macchi, affiancata dal commissario Auteri e dal vicecommissario Pozzi. Si indaga nella cerchia delle amicizie e dei colleghi di lavoro della vittima, nonché nella vita dell’ex marito e della sua nuova compagna. È in questa occasione che Elena Macchi conosce Athena Bini, giovane psicologa, nonché ex allieva della vittima. Athena prende in carico Susanna e la segue nel suo percorso di psicoterapia, per aiutarla a superare il trauma della morte della madre. Mentre la polizia brancola nel buio, un altro omicidio sconvolge la tranquillità della provincia di Varese. Le indagini portano ancora alla misteriosa donna dai capelli neri. Ulteriori ricerche conducono Elena Macchi nel borgo di Castiglione Olona, dove il dottor Del Fante la attende per parlare della sua collaborazione con la collega Rossi. Si fa strada così l’ipotesi che la donna dai capelli neri possa essere un’ex paziente della prima vittima e che abbia agito per vendetta. Ma la catena degli omicidi pare non doversi fermare. La situazione è forse sfuggita di mano alla killer oppure è lei stessa vittima della propria inarrestabile follia? Sarà un incontro casuale, collegato a un particolare all’apparenza insignificante, a far scattare nella mente della Macchi un flash: all’improvviso tutto per lei diventerà chiaro. Le indagini prenderanno una piega precisa, conducendo il magistrato alla soluzione del caso.

Laura Veroni risiede a Varese, città in cui è nata il 14 aprile del 1963. Insegnante di Lettere, ha frequentato il Liceo Classico Cairoli e si è laureata in Pedagogia all’Università Cattolica di Milano. Ha vinto il premio migliore scrittura femminile al concorso GialloStresa 2013 con il racconto La Chiesa. È stata finalista al GialloStresa 2014, col racconto Il vicino, al Premio Verbania for Women 2015, col racconto Le pagine sepolte, finalista al Premio Verbania for Women 2016 col racconto Lena e vincitrice del concorso CARTOLINE DI NATALE 2013 indetto da Meme Publisher col racconto Un fottuto Natale. Si è classificata seconda al concorso Letture da Metropolitana col racconto Ultima fermata San Babila. Ha pubblicato: I ricordi di Lalla (Lulu.com), Volevo solo essere felice, (Lulu.com), Thanatos (ilmiolibro.it), Lettera ad uno psichiatra (saggio, Lulu.com), Tema, che passione! (testo didattico, Lulu.com), La Chiesa (racconto edito da Eclissi, contenuto nell’antologia Giallolago), L’albergo (racconto contenuto nell’antologia Delitti di Lago, edito da Morellini) Delirium, (racconto contenuto nell’antologia Nudi e Crudi, edito da Eclissi), Un fottuto Natale (contenuto nell’antologia Cartoline di Natale, edito da Meme Publishers, pubblicazione e-book dicembre 2014), Ultima fermata San Babila (racconto pubblicato da Letture da Metropolitana). Altri racconti pubblicati da Autodafé Edizioni: Achsa, in Messaggi di Capodanno pubblicazione e-book (marzo 2014), Splendido Splendente, in Sincerità pubblicazione e-book (maggio 2014), Finché morte non vi separi, in Stalking pubblicazione e-book (giugno 2014), Io sono Maddalena e non perdono, in I fuorilegge, pubblicazione e-book (luglio 2014), L’attesa, in Rottami, pubblicazione e-book (agosto 2014), La prospettiva del
LanguageItaliano
Release dateFeb 21, 2020
ISBN9788869434266
Il passato non muore: Un nuovo caso per il magistrato Elena Macchi

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    Il passato non muore - Laura Veroni

    1

    Osservava allo specchio la ricrescita, separando le ciocche a una a una.

    Uno sbuffo sconsolato le uscì dalla bocca.

    «Non dovrebbero crescere così in fretta!», protestò contro la propria immagine riflessa.

    Era stata dal parrucchiere da neanche quattro settimane. Se solo fosse stata meno maniacale! Ora le toccava spendere un’altra fortuna per tingerli. Ancora non riusciva a spiegarsi perché mai non avesse il coraggio di cambiare coiffeur, di passare a uno più economico, come facevano diverse sue colleghe. Tingerli era diventata da qualche anno una vera schiavitù. Magari sarebbe dovuta passare al biondo, invece di ostinarsi a mantenere il castano scuro. Sicuramente si sarebbe notata meno la ricrescita.

    Aprì il cassetto dell’armadietto accanto al lavabo e rovistò in cerca della fascia elastica di spugna. La infilò dalla testa e se la tirò fin sopra alla fronte, portando i capelli all’indietro. C’era una ruga nuova sul viso. Se l’età delle persone si contasse come quella degli alberi, avrei esattamente…. Uno, due, tre, quattro, cinque… Avrei tredici anni, pensò.

    Alzò lo sguardo come fosse in cerca di qualcosa da afferrare con gli occhi, nemmeno lei sapeva cosa, forse semplicemente una spiegazione all’idiozia che le era appena passata per la mente. Ma da dove le nascevano certi pensieri? Scosse la testa, come a volerli allontanare. La sua attenzione venne attratta dalla piccola sveglia dorata, accanto al tubetto del dentifricio. Quasi mezzanotte. Ma dov’era finita Susanna? Si era raccomandata che rientrasse alle undici.

    «Guarda, che se anche questa sera fai tardi, non ti lascerò più uscire. Sono stata chiara?». Le aveva detto proprio così, esattamente quattro ore prima, quando la figlia era uscita di casa per recarsi da Giulia, la sua migliore amica. La scusa era stata quella che dovevano terminare un lavoro per il giorno seguente.

    «Non potete trovarvi domani pomeriggio, dopo la scuola?», le aveva chiesto. Sua figlia aveva spiegato che il professore di greco aveva intimato la consegna l’indomani mattina, pena un due sul registro.

    Milva Rossi, cinquantenne separata, madre single e donna in carriera, cominciava a fare i conti con una giovane adolescente, ribelle come tutte le adolescenti di quell’età, oppositiva nei confronti del ruolo genitoriale che le andava ogni giorno sempre più stretto.

    Certo, era normale, ricordava bene che anche lei alla sua età si scontrava spesso con i genitori, specialmente quando si trattava di uscire con le amiche. Per non parlare degli amici. Suo padre era gelosissimo dei maschietti che le ronzavano attorno. Continuava a vedere in lei una bambina da proteggere, diceva che era troppo presto per vivere come i grandi, che c’era tempo per trovarsi un fidanzato, come se lei fosse stata in cerca di quello. All’epoca aveva dodici anni e in mente tutt’altro, pensava a divertirsi, alle compagnie con i suoi pari che la facevano sentire finalmente grande e indipendente dalla tutela familiare, da quell’ala protettrice che sapeva molto di fiato sul collo, di controllo, di catena, di… cappio. Lei aveva voglia di volare libera insieme alle sue amiche. Il pensiero dei maschi era arrivato dopo, verso i quattordici anni. Era allora che aveva cominciato a divenire ferocemente ribelle. Ribelle e bugiarda. Era l’unico modo per ottenere la fiducia dei genitori. Mamma, papà, esco, annunciava sulla porta di casa, già pronta, con scarpe e cappotto addosso. Vado a casa di Mirella insieme a Lucia. Non facciamo tardi. Poi ci riaccompagna il papà della mia amica. In realtà non era mai esistito nessun papà accompagnatore. Era Renato, il ragazzo per il quale si era presa una cotta, colui che la portava quasi fin sotto casa. Arrivava con la moto fino alla curva, dove il padre non lo avrebbe potuto vedere, in caso si fosse affacciato alla finestra. Lì, lei smontava di sella, gli stampava un bacio sulla bocca e correva fino al portone, mentre il ragazzo la teneva d’occhio a distanza, finché non aveva varcato la soglia.

    Chissà se anche Susanna le stava mentendo allo stesso modo? Magari non era a casa di Giulia, magari era da qualche parte, forse su una Minicar a pomiciare con qualcuno. In fondo non sarebbe stato nemmeno così tanto strano. Susanna era una bella ragazza, un metro e sessanta di altezza, un corpo che stava sbocciando, un seno prominente che ancora non amava esibire, ma celava timidamente sotto maglioni larghi – complesso che era stato anche suo a quell’età – capelli biondo miele, lunghi e ondulati, occhi grigio azzurro come quelli del padre e un sorriso disarmante. Sorriso da ruffiana, col quale riusciva sempre a ottenere ciò che voleva. Susanna era quasi una giovane donna e presto lei avrebbe dovuto allentare la presa, ne era consapevole. Sapeva che tra non molto avrebbe dovuto lasciarla andare ad affrontare la vita con le sue forze, ma adesso no, adesso era ancora la sua bambina. Anche per questo non riusciva a smettere di controllare il suo cellulare. Sapeva di violare la privacy della figlia, ma riteneva fosse cosa giusta e doverosa. Da qualche giorno, però, non riusciva più ad accedere. Susanna aveva impostato la password. Evidentemente sospettava che lei la controllasse.

    Milva si rendeva conto che non poteva starle sempre col fiato sul collo, che doveva imparare a fidarsi, ma era più forte di lei essere così protettiva. Forse perché da troppo tempo sapeva quanto la vita può essere crudele.

    Milva non avvertiva il peso della solitudine, ma l’assenza di Stefano si faceva sentire dal punto di vista educativo. Con lui in casa, forse le cose sarebbero state diverse.

    «Tutte le mie amiche escono di sera, mamma. I loro genitori non fanno le storie che fai tu ogni volta».

    Ancora le pareva di sentirle, quelle parole.

    «Non mi piace saperti fuori di notte, con la delinquenza che c’è in giro».

    «Mamma, cazzo, siamo a Varese, mica a Scampia! E poi mi riaccompagna il padre di Giulia, non torno sola».

    Milva prese il cellulare posato sopra la mensola del calorifero e controllò i messaggi. Susanna non aveva ancora letto i suoi, nei quali le intimava di tornare a casa. Però c’erano le due spunte, quindi li aveva ricevuti. Sentì il sangue ribollire dalla rabbia. Ne inviò un altro.

    Si può sapere perché non rispondi? Le undici sono passate da un pezzo. Non farmi spazientire oltre.

    Posò l’apparecchio, aprì l’armadietto e prese un batuffolo di cotone e il latte detergente. Tolse ogni traccia di trucco, fregando la pelle con maggiore energia rispetto al solito, finché avvertì un lieve bruciore.

    Si accorse che stava mordendo l’interno delle labbra, solo quando avvertì sulla lingua il sapore dolciastro del sangue. Sporse il labbro inferiore all’infuori: si era data un bel morso.

    «Ora basta!». Esclamò, spazientita. Riprese il cellulare e inoltrò la chiamata. Il telefono suonava libero, ma Susanna non rispondeva. Lasciò squillare a lungo, poi chiuse la comunicazione.

    Da questo momento reputati in clausura per due settimane. Non ti consentirò di uscire nemmeno di giorno. Saluta la tua amica e muoviti a tornare a casa, altrimenti vengo a prenderti io!!!.

    Tre punti esclamativi potevano bastare a far comprendere il grado di incazzatura? Ne aggiunse un quarto, per sicurezza.

    Terminò di struccarsi, quindi si recò in cucina per scaldare la camomilla, com’era sua abitudine al momento di andare a dormire. Avrebbe atteso, prima di mettere il pigiama, in caso si fosse rivelato necessario uscire per recuperare Susanna.

    Non appena l’acqua prese a bollire, spense il gas e la versò nella tazza, quindi vi pose il filtro. Puntò il timer del forno a cinque minuti, per calcolare il tempo di infusione e si recò in salotto. Avrebbe acceso la tivù, nell’attesa. Non poteva sopportare tutto quel silenzio carico della sua stessa ansia. Controllò nuovamente il cellulare. Ancora niente.

    Il timer suonò contemporaneamente al campanello dell’interno numero 4.

    «Finalmente!», sbottò in tono secco. Si precipitò ad aprire, pronta a sfogare tutta la sua rabbia. L’avrebbe ribaltata questa volta.

    Fece scattare la serratura e spalancando la porta sbottò: «Era ora!».

    «Mi riconosci, vero?».

    2

    Distesa a pancia sotto, la testa sprofondata nel cuscino di piume, soffocava i gemiti di piacere. Lui pareva non preoccuparsi del battere ritmico della testata del letto contro il muro. Stava aumentando invece la velocità e ansimava al culmine dell’eccitazione, per nulla contenuta, emettendo mugolii sommessi dalle labbra socchiuse. Quando raggiunse l’orgasmo, ricadde a peso morto sopra la schiena sudata di lei, soffocando a fatica un grido. Rimase così qualche istante, mollemente abbandonato, in attesa che il battito cardiaco rallentasse e che il respiro tornasse normale. Intrecciò le dita delle mani a quelle di lei e strinse i pugni, baciandola sul collo. Poi scivolò via da lei e si mise a pancia in su.

    Elena voltò il capo quel tanto che bastava per scorgere la sua espressione appagata.

    La mano di lui le scostò una ciocca dei capelli biondo platino che si erano appiccicati alla guancia. Rimasero così per qualche minuto.

    La candela alle essenze orientali si era quasi del tutto consumata, all’interno della coppetta di vetro posata sul comò, e il profumo di sandalo non era più intenso come poco prima. Dalla finestra filtrava la luce arancione dei lampioni che illuminavano l’incrocio tra via Verdi e via Monastero Vecchio, dove, nella camera da letto al terzo piano del lussuoso edificio giallo lombardo, i due corpi giacevano nudi sopra le lenzuola. La notte aveva acquietato i rumori della strada, non si udivano più le auto sostare in coda, in attesa del verde, per svoltare in direzione del centro, piuttosto che in fondo a via Monte Rosa per sbucare alla grande rotonda sulla quale si affacciava l’austero palazzo della Questura.

    Una maschera tribale in legno, appesa alla parete di fronte, sembrava osservare inanimata le membra mollemente abbandonate dei due amanti attraverso la fessura degli occhi vacui, ricordo di un viaggio in Africa, Capo Verde, di alcuni anni addietro, acquistata in un negozietto di artigianato locale.

    Elena fece scorrere la mano sul torace del partner, lasciandola scivolare lungo il ventre e più giù. Dopo qualche istante, lo trovò di nuovo pronto. Si mise cavalcioni sopra di lui. Era venuto il momento di prendere il comando.

    Questa volta raggiunsero insieme l’orgasmo. Elena si lasciò cadere accanto a lui, madida di sudore. Dopo qualche istante, raccolse le lenzuola, scivolate ai piedi del letto e le portò sopra i loro corpi.

    «Mi è venuta fame, Ti va uno stuzzichino?».

    Lui la guardò con fare curioso. «Tipo?».

    Elena si alzò senza rispondere.

    La sua figura venne proiettata sul muro della camera da letto, deformata dalla luce dell’abat-jour. Si diresse verso la cucina, voltando le spalle all’uomo che giaceva sotto le lenzuola. Il P.M. ebbe la sensazione, per non dire la certezza, che lo sguardo di lui la seguisse restando incollato al generoso fondoschiena. Il corpo statuario scomparve oltre la porta per riapparire poco dopo, un vassoio in bambù con sopra due calici di vino e un piatto colmo di fragole rosso acceso con la punta ricoperta di cioccolato fondente fuso.

    Elena posò il vassoio sul letto e gli porse un calice, prendendo l’altro per sé, quindi sedette accanto a lui, appoggiando la schiena contro il cuscino e incrociando le gambe. I seni abbondanti si rilassarono sul ventre. Elena aveva sempre avuto curve generose, sin da ragazza. Quel seno così tondo e pieno, che era stato per lei motivo di imbarazzo nell’adolescenza, era divenuto nel tempo un punto di forza, da mettere in mostra con abiti attillati piuttosto che con vistose scollature. Diversi uomini ci avevano perso la testa, compreso quello che ora sedeva al suo fianco.

    Elena prese una fragola dal piatto e la portò voluttuosamente alle labbra, mordendone la punta. Un rigagnolo rosso le scese lungo il mento e andò a posarsi sopra alla coscia. Lui si abbassò e portò via il succo goloso con una passata di lingua. Il P.M. rise. Prese un’altra fragola e lo imboccò. Lui stette al gioco.

    Era quasi l’una di quel giovedì sera, quando Lorenzo si svegliò dal torpore nel quale era scivolato dopo il vino. Elena si era addormentata con la schiena appoggiata al suo fianco, i piedi intrecciati alle sue gambe. Stropicciò gli occhi pieni di sonno e lanciò uno sguardo alla sveglia sul comodino. Guardò con tenerezza la compagna: aveva l’aria serena e sazia. I capelli sparsi disordinatamente sul cuscino, le coperte tirate fino al collo. Lorenzo le scostò, sgusciando fuori dal letto in silenzio, con movimenti lenti, cercando di non fare rumore per non svegliarla. Raccolse i vestiti dal pavimento e li indossò, poi si avvicinò a lei e la baciò teneramente sulla fronte. «Buonanotte, donna della mia vita. Ti amo», sussurrò in tono flebile. Era quello l’unico modo per dirglielo, quando lei non poteva sentirlo. «Ci vediamo domani».

    3

    Lorenzo uscì dall’appartamento e si diresse in via Monte Rosa, dove aveva lasciato la macchina.

    Nonostante l’ora tarda, si sentiva carico di energia, un’energia positi- va che gli veniva da dentro, dal profondo di sé. Aveva appena fatto l’amore con la donna che amava, l’unica che era riuscita a rubargli total- mente il cuore.

    Lorenzo Chiari, uomo in carriera, aveva avuto alcune relazioni in passato, ma non aveva mai veramente perso la testa. Per niente al mon- do si sarebbe sognato di mettere la propria vita nelle mani di un’altra persona, ma con Elena era stato diverso, sin dal primo momento in cui l’aveva incontrata a quella cena di gala. Pensare che nemmeno ci voleva andare! Era stata sua sorella, noto avvocato del tribunale di Varese, a insistere perché la accompagnasse. Lì si era imbattuto in quella che per lui sarebbe divenuta la sua felicità e la sua disperazione: il P.M. Elena Macchi, il magistrato di ghiaccio, nota in città per essere inflessibile e per avere avuto solo avventure, come si vociferava. Lasciala perdere quella!, gli aveva detto subito sua sorella. Ti farà passare soltanto guai. Per lei gli uomini sono solo usa e getta. Se li porta a letto e poi li molla. Non c’è mai stata una seconda occasione per nessuno. Ancora non capiva se la conquista dell’algido magistrato fosse stata per lui uni- camente una sfida o se ne fosse rimasto ammaliato in modo irreversi- bile dal primo istante, fatto sta che non era più riuscito a togliersela dalla testa, dalla pelle e dal cuore. Poteva asserire con certezza di esser- ne innamorato, anzi, di più, di amarla, dal momento che per lei era di- sposto a qualunque cosa, persino a calpestare l’orgoglio e a sopportare i suoi sbalzi d’umore. Nessuno come lui poteva asserire di conoscere Elena nella sua intima essenza. Elena Macchi, a detta di tutti donna in- flessibile, determinata e caparbia, dal cuore di pietra, era, in realtà una persona piena di insicurezze e fragilità, che nascondeva dietro a una maschera. Temuta da molti, rispettata da tutti per il suo temperamento forte, celava nel suo intimo un’anima di bambina ferita. Lorenzo era stato l’unico uomo a essere riuscito in qualche modo a far breccia at- traverso quella corazza.

    Si frequentavano ormai da diverso tempo. In verità, lei aveva tentato di scaricarlo in due occasioni, dall’inizio della loro tormentata storia, la prima volta a casa sua, quando, dopo aver fatto sesso, una notte, lui ave- va creduto di potersi fermare a dormire, l’altra soltanto qualche mese pri- ma, quando lo aveva mollato alla conclusione di un caso complesso, quello dei delitti di Marzio*, come erano passati alla cronaca. Aveva an- cora presente la sera in cui si era recato a casa sua con un mazzo di rose rosse.

    Lei lo aveva fatto accomodare in salotto. Mi rendo conto che non immagini il motivo per cui ti ho chiesto di vederci questa sera, gli aveva detto. Lui si era subito rabbuiato in volto davanti alla serietà dell’atteg- giamento freddo e distaccato di Elena.

    Mi dispiace. Non volevo finisse così. Mi dispiace davvero, credimi. Io non ti amo, Lorenzo. Non posso stare con te. Gli risuonavano ancora in testa quelle parole. Elena aveva preso i fiori che lui aveva posato sul divano e glieli aveva resi. Lui l’aveva pregata, aveva allungato una mano verso di lei, per toccarle un braccio, ma lei si era ritratta. Gli aveva chie- sto di non rendere le cose più difficili, poi aveva cercato di consolarlo, dicendogli che avrebbe trovato presto un’altra donna. Io non faccio per te. Fidati, mi conosco troppo bene. Non funzionerà mai tra noi due, aveva affondato il colpo.

    Lorenzo l’aveva supplicata con un filo di voce e un dolore simile a un pugno nello stomaco, aveva provato a convincerla del contrario, ma lei non aveva voluto dargli ascolto e lo aveva accompagnato alla porta.

    Credo sia meglio che tu ora te ne vada, prima che mi intenerisca e commetta un errore del quale potrei pentirmi, gli aveva detto.

    Commettilo, ti prego!.

    I primi tempi non aveva insistito, convinto che non ci fosse più nulla da fare. Aveva stampata nella mente la determinazione con cui Elena

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