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Tiscali. Una storia tutta italiana
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Ebook158 pages

Tiscali. Una storia tutta italiana

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Durante il trasferimento della sede di Tiscali nell’imponente campus di SaIlletta a Cagliari si è perso il mozzicone di un sigaro Avana che era stato considerato un cimelio. Lo aveva lasciato sulla terrazza della villa liberty, il cui parco confinava con l’ex casa di Niki Grauso, oggi del banchiere Giorgio Mazzella, un uomo della Banca Rothschild nell’ultima trattativa, quella decisiva, per il debutto in Borsa della società Cagliaritana.C’è chi dice che quel mozzicone l’abbia preso Marta Sanna, all’epoca “investor relator” di Tiscali, per ricordo delle giornate che portarono una minuscola azienda sconosciuta a essere valutata più della Fiat...
LanguageItaliano
Release dateDec 3, 2012
ISBN9788875638122
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    Tiscali. Una storia tutta italiana - Alfredo Franchini

    I

    Il Parco buoi

    Durante il trasferimento della sede di Tiscali nell’imponente campus di Sa Illetta a Cagliari si è perso il mozzicone di un sigaro Avana che era stato considerato un cimelio. Lo aveva lasciato sulla terrazza della villa liberty il cui parco confinava con l’ex casa di Niki Grauso, oggi del banchiere Giorgio Mazzella, un uomo della Banca Rothschild nell’ultima trattativa, quella decisiva, per il debutto in Borsa della società cagliaritana. C’è chi dice che quel mozzicone l’avesse preso Marta Sanna, all’epoca investor relator di Tiscali, per ricordo delle giornate che portarono una minuscola azienda sconosciuta a essere valutata più della Fiat. Assunta a ventisette anni con un contratto di formazione lavoro, Marta, capelli ricci e brillantino alla narice, è diventata miliardaria (con le lire) due anni dopo, grazie al pacchetto di azioni avuto in regalo prima della quotazione e cresciuto del 1.800 per cento. Una fortuna capitata a un manipolo di quadri e dirigenti davvero privilegiati. Fatto sta che quel sigaro è diventato un ricordo, proprio come il sogno di chi voleva adoperarsi per creare una società europea nel settore delle telecomunicazioni.

    Nella sfida di Soru, il 27 ottobre del 1999, il giorno dello sbarco in Borsa[1], in molti percepirono i segnali di un cambiamento nel sistema industriale nazionale e di conseguenza un riscatto simbolico di tutta la Sardegna. Dietro l’azienda cagliaritana, ideata e progettata in un lussuoso appartamento di piazza del Carmine di fronte alla sede storica delle Poste a Cagliari, non c’erano né capannoni, né grandi capitali ma solo intelligenza; eppure milioni di risparmiatori, seguendo un’antica euforia che prende periodicamente i frequentatori delle Borse, avevano preferito rivolgersi a quell’impresa legata a Internet piuttosto che ai settori tradizionali come il mattone, su cui si fondava la certezza delle Generali, e trascurare i vecchi punti di riferimento come la Fiat. Nell’utopia di Tiscali si intravedeva la vittoria del nuovo sulla vecchia economia che era basata sulle strutture fisiche, capannoni e magazzini, sulla domanda e sulle scorte: concetti superati, si diceva. E la rivelazione assumeva un aspetto sconvolgente in un Paese come l’Italia dove il potere economico è sempre stato una riserva di caccia per pochi nomi le cui aziende erano consolidate dal tempo. In realtà si intuiva sin da allora, alle soglie del Duemila, che le cose non sarebbero andate così e che anche la storia delle strutture fisiche non sarebbe stata poi così esatta. L’incauto ottimismo disegnava per Internet un futuro di democrazia e addirittura di livellamento sociale: nazioni più uguali e nessuna differenza tra ricchi e poveri. Non è andata così nonostante l’accesso alla Rete sia alla portata di tutti: Nel quinquennio 1995-2000 che ha segnato l’esplosione della Net Economy su tutto il pianeta, la distanza tra il numero uno, cioè gli Stati Uniti, e il resto del mondo si è allargata ulteriormente.[2]Le aspettative su Internet erano giuste ma come spesso accade i futurologi avevano visto male: la Rete è stata la manna per le aziende che delocalizzano o si ristrutturano e, ovviamente, è stata rivoluzionaria per le comunicazioni ma non ha apportato alcuna redistribuzione della ricchezza. Così chi è partito da posizioni migliori continua ad arricchirsi, chi è povero non riesce ad affrancarsi, anzi la dinamica economica vede la forbice allargarsi sempre più dalla parte dei ricchi.

    Allo stesso tempo si poteva intuire che i protagonisti della new economy, i Soru o i Pellicioli, (il deus ex machina della Seat Pagine Gialle), non avrebbero mai potuto assumere un ruolo come quello avuto dai vecchi capitani d’industria, gli Agnelli o i Pirelli, né avrebbero mai composto una nuova razza padrona. Eppure era sorprendente assistere a quanto accadeva nei salotti della finanza messi in subbuglio dai dati di Borsa: nel febbraio del 2000 la società di Soru capitalizzava, infatti, quattordici miliardi di euro contro gli undici e mezzo della Fiat [3] e allora diventava naturale concepire progetti ambiziosi e pensare di poter arrivare dalla Sardegna sino al cuore dell’Europa. Tiscali si presenta come una società che rompe gli schemi del vecchio sistema economico ed elabora un modello di business apparentemente nuovo perché tutto ruota attorno a una Rete di proprietà basata sul protocollo IP e sull’interconnessione. Soru crede da sùbito nell’importanza della banda larga e per questo si vuole far carico del cablaggio dell’isola con la fibra ottica di ultima generazione. Il fondatore dell’azienda la definisce The Internet communication company: è il modello di America on line quello che vuole seguire. [4]

    Il precedente della Microsoft alimentava il sogno perché solo qualche tempo prima l’intero blocco dei big mondiali dell’auto, da Ford a Toyota, aveva avuto una valutazione inferiore rispetto alla creatura di Bill Gates. Il motivo stava nel fatto che i processi di globalizzazione e di innovazione tecnologica avevano collocato Internet al centro della competizione. La telematica – si diceva – avrebbe potuto produrre in pochi anni i cambiamenti operati nel tempo da quattro generazioni. Un altro motivo era prettamente creditizio: le banche centrali erano alle prese con l’inflazione monetaria e le strategie dei banchieri avevano creato una ferita nell’economia reale. Internet poteva essere l’occasione giusta per spostare gli investimenti sui titoli in Borsa e su tutto giocava quel baco che era stato liberato dalla caduta del muro di Berlino. Così mentre nel mondo aumentava la schiavitù e l’economia canaglia, secondo la definizione dell’economista Loretta Napoleoni, prendeva il sopravvento, i mercati azionari diventavano una delle frontiere del capitalismo di rapina. Ed ecco da questo momento in poi il susseguirsi dei raid azionari: con un’attività smodata si compra e si vende nell’arco di pochi minuti e questo non incoraggia la tenuta dei titoli nel tempo. Piazza Affari nei primi mesi del 2000 si libera delle certezze come le già citate Assicurazioni Generali e la Fiat, per premiare la new economy. è al tramonto la stella di Enrico Cuccia, eccezionale tessitore di trame azionarie, mentre le redini della vecchia economia restano in mano a pochissimi, dagli Agnelli a Silvio Berlusconi, (sino a qualche anno prima considerato in Confindustria una sorta di parvenu), da Cesare Romiti ai Tanzi e ai Cragnotti che poi sarebbero andati incontro a guai molto seri con Parmalat e Cirio [5]. L’economia reale subiva colpi su colpi da molto tempo: dal 1960 a oggi il nostro Paese ha perduto, o fortemente ridimensionato, la propria capacità produttiva, smantellando la grande industria e sopprimendo interi settori. Tutto questo sotto la guida di manager che avevano in tasca un Master importante ma che, spesso, non erano mai stati in una fabbrica, e ciononostante godevano di compensi milionari. Probabilmente nasceva da lì la convinzione che l’industria fosse solo un’appendice fastidiosa della finanza. Sembrava davvero che i fattori essenziali per le imprese, (luogo, tempo, spazi fisici, capannoni e terreni), non servissero più: all’epoca dell’industria, e si percepiva come un mondo davvero lontano – ripetevano i guru dell’informatica – contavano i mezzi di produzione e le macchine, ma di tutto questo non c’era più bisogno, si trattava della reminiscenza del passato. Il motto era chiaro: Siamo nel futuro, contano solo idee, conoscenza, formazione. La globalizzazione che dovrebbe funzionare.

    Sulla scena che proietta in alto Tiscali si muovono diversi imprenditori che abbracciano la fede in Internet. Su tutti Roberto Colaninno, allora capo di Telecom che puntava su Tin.it per farne il maggior provider italiano (2,5 milioni di abbonati); ma c’era anche Carlo De Benedetti che sullo scacchiere della nuova economia si muoveva con Kataweb, cioè la net holding del gruppo Espresso e ancora Pierluigi Crudele di Finmatica. Al centro della scena ci sono soprattutto i banchieri, più attivi che mai perché la foresta pietrificata del credito aveva cominciato a rianimarsi nel 1992 con la legge Amato, dopo che per mezzo secolo gli istituti nazionali avevano vissuto all’ombra della Banca d’Italia. Avviate le prime privatizzazioni bancarie compaiono gli hooligan nei consigli di amministrazione degli istituti di credito che seguono il nuovo modello di business basato sui computer. Tra i primi a crederci ci sono Giovanni Bazoli con la sua Cariplo che era la principale banca di quel gruppo che sarebbe diventato poi Intesa Sanpaolo, il primo istituto di credito a lanciare il trading on line, e Bruno Sonzogni, alleato dei Fondi Putnam (Usa) che vedeva Bipop-Carire come una grande banca virtuale europea. Con il progredire del Web cambiano i modelli di business e i venture capitalist si trovano a finanziare lo sviluppo delle tecnologie e delle infrastrutture Internet, (hardware e software); successivamente i primi operatori telefonici presero a fornire l’accesso agli utenti (consumer e business): è così che nacquero gli Internet Service Providers, conosciuti come ISP.

    Ma nulla sarebbe accaduto se non ci fosse stato il parco buoi, la definizione sicuramente inelegante ma efficace usata dagli ambienti di Borsa per indicare i piccoli azionisti. [6] A condurre la nuova guerra finanziaria è, infatti, un esercito di persone che dà retta ai settoristi delle banche i quali, da lì a qualche anno, avrebbero fatto comprare ai propri clienti titoli Parmalat, Cirio e i bond argentini in una folle corsa verso il baratro; cittadini con in mano piccoli risparmi, spesso il frutto del lavoro di una vita, che avrebbero ceduto alle pressioni della neuro-economia e di bancari la cui professione è diventata simile a quella di un qualsiasi venditore di saponette. Come esiste la statua del milite ignoto, in molte piazze, dovrebbero erigere un busto al risparmiatore ignoto sempre obbediente a quel detto volgare, ma esplicativo, che domina in Piazza Affari: Chi piscia controvento, si bagna. Come dire che non c’è razionalità in certe operazioni ma bisogna annusare il clima e accodarsi. In Borsa è facilissimo avere ragione e passare dalla parte del torto. [7] La letteratura è ricca di episodi speculativi e si potrebbe cominciare il racconto nel Seicento olandese con la storia dei tulipani quando si spendevano 5.500 fiorini per un semper Augustus a fronte di un reddito medio annuo di 150 fiorini. Tutto ruota attorno a un prezzo: Può essere un titolo azionario, il debito di un Paese emergente, una casa, un fiore. Nessun bene è veramente immune da un’eventualità di questo tipo. [8] Un titolo sale o scende a seconda delle freccette rosse e verdi che si muovono sui monitor Reuters. E le transazioni finanziarie prosperano: in un libro del 2008 l’economista Paul H. Dembinski spiega che nel 1995 il volume delle transazioni, escluse quelle in cambi, era pari a due volte il prodotto mondiale e nel 2005 sarebbe salito a sette volte. [9] Tutto ruota attorno a qualcuno che conosce il prezzo di tutto e il valore di niente. [10] Per questo, trascorsa ormai una decina d’anni, possiamo affermare che la bolla hi-tech non è stata altro che la prova generale della bolla immobiliare che sarebbe esplosa, a partire dall’America, qualche anno dopo.

    è proprio con la bolla del 2000, però, che s’iniziano a vendere titoli sopravvalutati se non proprio spazzatura. Una bolla esplode su un mare di indebitati e da un’altra parte nel mondo viene gonfiata un’altra bolla. Il parco buoi è capace di sottoscrivere azioni Fiat a 16 mila lire, acquistare Olivetti a 8 mila e trovarsi a pagare per i vari fallimenti degli scalatori, come nel caso di Pirelli alla tedesca Continental. Ci sono aziende che vengono acquistate da manager squattrinati, spesso a costo zero usando le risorse della stessa azienda in vendita, operazioni finanziate sempre dagli ignari cittadini. Sono anni di fusioni, di false privatizzazioni, di grandi cambiamenti politici e la nuova razza padrona si adegua e capisce che se prima era stata costretta a mediare con i partiti, ora può impossessarsi direttamente della politica. Si rompono antichi patti in nome di una rivoluzione liberista che, nei fatti, non avverrà mai ma che porta alla morte della stessa politica. Con il tramonto delle ideologie i partiti diventano enti personali; il paradosso è che si crea una partitocrazia senza partiti[11] e l’economia va direttamente al governo della società saltando qualsiasi intermediario e bruciando le istituzioni.

    Tutto questo si è riversato sulla Borsa che peraltro ha sempre rispecchiato l’inadeguatezza del capitalismo italiano. Quando stava per esplodere la bolla della new economy, Piazza

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