Vittime e delitti: La nuova indagine di Teresa Maritano e Marco Ardini
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About this ebook
Maria Masella è nata a Genova. Ha partecipato varie volte al Mystfest di Cattolica ed è stata premiata in due edizioni (1987 e 1988). Ha pubblicato una raccolta di racconti – Non son chi fui – con Solfanelli e un’altra – Trappole – con la Clessidra. Sempre con la Clessidra è uscito nel 1999 il romanzo poliziesco Per sapere la verità. La Giuria del XXVIII Premio “Gran Giallo Città di Cattolica” (edizione 2001) ha segnalato un suo racconto La parabola dei ciechi, inserito successivamente nell’antologia Liguria in giallo e nero (Fratelli Frilli Editori, 2006). Ha scritto articoli e racconti sulla rivista “Marea”. Per Fratelli Frilli Editori ha pubblicato Morte a domicilio (2002), Il dubbio (2004), La segreta causa (2005), Il cartomante di via Venti (2005), Giorni contati (2006), Mariani. Il caso cuorenero (2006), Io so. L’enigma di Mariani (2007), Primo (2008), Ultima chiamata per Mariani (2009), Mariani e il caso irrisolto (2010), Recita per Mariani (2011), Per sapere la verità (2012), Celtique (2012, terzo classificato al Premio Azzeccagarbugli 2013), Mariani allo specchio (2013), Mariani e le mezze verità (2014), Mariani e le porte chiuse (2015), Testimone. Sette indagini per Antonio Mariani (2016), Mariani e il peso della colpa (2016), Mariani e la cagna (2017) e Nessun ricordo muore (2017), con protagonista la coppia Teresa Maritano e Marco Ardini. Per Corbaccio ha pubblicato Belle sceme! (2009). Per Rizzoli, nella collana youfeel, sono usciti Il cliente (2014), La preda (2014) e Il tesoro del melograno (2016). Morte a domicilio e Il dubbio sono stati pubblicati in Germania dalla Goldmann. Nel 2015 le è stato conferito il premio “La Vie en Rose”. 2018, terza classificata alla prima edizione del Premio EWWA.
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Vittime e delitti - Maria Masella
CAPITOLO 2
Mercoledì 7 febbraio 2007
Sono sul retro a cercare di mettere ordine approfittando della calma di metà mattina ed è l’improvviso silenzio a fermarmi. Sara stava parlando, parla sempre a ruota libera e i primi giorni mi dava anche noia, ora ci sono abituata.
Mi pulisco le mani nel grembiule e vado a vedere cosa sta succedendo.
Prima vedo Sara, poi lui.
Il gelo che si porta appresso è riuscito a far tacere la mia aiutante tuttofare.
Cappotto lasciato socchiuso, forse d’alpaca, completo grigio scuro di vigogna, camicia appena più chiara, cravatta sottile identica all’abito.
L’unico cenno di saluto è un’occhiata.
Mi adeguo.
– Devo parlarti.
– Sto lavorando.
Neppure mi ascolta, forse neppure ha sentito. Mi volta le spalle e in due passi è fuori dal bar, in piazzetta. Da una tasca toglie il pacchetto di sigarette, ne accende una. So già che la lascerà consumare, attrezzo di scena, senza fumarne più di due tiri.
Se non uscirò ad ascoltarlo, resterà lì. Lo so.
Non tolgo il grembiule: è uno di quelli lunghi e pesanti che si allacciano rigirando più volte i lacci intorno alla vita. È rosso scuro con un logo pubblicitario stinto e qualche macchia che non è andata via lavandolo.
Non l’ho tolto per sottolineare che lui non è gradito e non sarà un lungo colloquio. Taccio, la soddisfazione di sentirsi chiedere cosa vuole non gliela darò.
Quel po’ di vento che qui, lungo il Bisagno, non manca mai, smuove le cartacce buttate a terra.
Lui si è posizionato in modo da avere la luce alle spalle, uno dei suoi gesti automatici. Ma non ho bisogno di vederlo in viso per sapere che è teso.
Vorrei allungare una mano e posargliela su una spalla. Resto ferma.
– C’è un lavoro da fare.
Rido, poi indico con un gesto il bar alle mie spalle. – Lo so, devo preparare toast e tramezzini, anche focaccine farcite.
– Sai che tutto questo è provvisorio. No, ho sbagliato. È temporaneo. Come ti è stato dato – dicendolo alza la mano verso di me, indice teso come per prendere la mira con una pistola – così ti può essere tolto.
– Sei un bastardo.
– Pensaci, Maritano. Sai dove trovarmi.
Si gira e lascia la piazza. Penso che sia arrivato in auto, ma deve averla posteggiata fuori vista.
Ritorno nel mio bar e mi infilo nel retro, cercando di riprendere il lavoro dove l’ho interrotto. Non ho chiuso la porta e mi ritrovo con Sara alle spalle. – Chi è? – e subito: – È lui? Uno che ti rovescia dentro… Non l’avevo visto entrare, alzo gli occhi e lo vedo lì. Un po’ diverso dai nostri clienti soliti.
Non ho bisogno che me lo dica, soltanto che taccia. Silenzio per riconquistare la calma. Ma lei continua a cianciare sul suo aspetto, su come è vestito tutto di grigio
, anche sul modo di muoversi da pantera
e che uno così a letto deve essere un dio
. È a quel punto che la blocco: – Piantala e vai a lavorare.
La sua occhiata è risentita. Le pago uno stipendio come aiuto barista, ma che sia una mia dipendente è più teorico che reale: c’è una specie di amicizia fra noi, tenue ed esitante da parte mia, tenace, penso, da parte sua. Fa più ore di quelle per cui la pago e anche molto flessibili. E, quando ne ho bisogno, sta con Paola. È pratica di bambini, più di me.
Sono sola, nel mio retro. Chiudo la porta e mi siedo su uno dei cestelli dell’acqua minerale.
Sai che tutto questo è provvisorio. No, ho sbagliato. È temporaneo. Come ti è stato dato
.
Ha ragione. È stato lui a garantire presso il tribunale dei minori per l’affido di Paola. Affido che volevo e non volevo, perché in nessuno dei miei piani c’era occuparmi di una specie di figlia.
Istinto materno? Zero.
Quando glielo avevo detto, mi aveva guardato con quegli occhi freddi come un lago di montagna e ancora meno espressivi. Davvero non hai mai pensato di fare un figlio?
.
Come se non sapesse, il bastardo, che avrei voluto farlo con lui.
Ho rivoluzionato la mia vita per ottenere l’affido di Paola: appartamento meno minimale, comodo per il bar e la scuola, aiuto fisso per poter stare dietro a una bambina. Ecco, ora lui viene e vuole che me la portino via.
Bastardo, bastardo.
Non solo per me, ma anche per Paola lo odio. Lei ha bisogno di stabilità.
Come cieca, perché quando cerco di non piangere mi si gonfiano gli occhi, a tentoni prendo il pacchetto di sigarette che tengo nascosto dietro il contenitore dei detersivi e ne accendo una, promettendomi che la accenderò e darò un tiro, al massimo due.
E la finisco quasi bruciandomi le dita.
Anche per questo lo odio.
Quando mi sono ritrovata con una bambina sconosciuta, dislessica e con una storia da melò d’altri tempi eppure reale, sono entrata in panico e ho ricominciato a fumare come quando Alberto, ormai ex marito ma all’epoca marito, mi alitava sul collo i suoi ordini modello militare di carriera.
C’è un lavoro da fare
. Dando per scontato che obbedirò da animaletto ben domato.
Mi alzo, apro il rubinetto e faccio scorrere l’acqua fin quando è abbastanza fredda.
Mi sciacquo il viso.
Esco dal retro. Fra poco dovrò andare a prendere Paola: percorrere pochi metri, attraversare la piazzetta, poi la strada e fermarmi davanti alla scuola, ignorando le occhiate degli altri adulti.
Secondo l’assistente sociale era meglio, per Paola, non cambiare scuola e aveva aggiunto se lei, signora Maritano, riuscirà a sopportare la pressione e i commenti degli altri genitori. Per Paola sarà più semplice, i bambini hanno meno pregiudizi
.
Fuggire ancora una volta? Non l’ho fatto. Anzi ho cercato un appartamento quasi in piazzetta e ho riorganizzato la mia vita attorno a una bambina.
Vita in cui lui non era incluso.
Sono dietro il bancone e, pur lavorando, tengo d’occhio Paola che sta giocando qui fuori. Sono diventata un’esperta e lei è una bambina obbediente: le ho detto di non allontanarsi e resta dove posso vederla.
Come in molti bar anche nel mio c’è una copia del Secolo XIX
a disposizione dei clienti. Lo compro uscendo da casa, al mattino, e l’edicolante me lo porge piegato; quando arrivo al bar, che Sara ha già provveduto ad aprire alle sei, lo poso sul tavolino più vicino alla porta.
Raramente do più di una occhiata veloce, spesso la sera prima di metterlo nel contenitore dove raccolgo la carta per la differenziata.
L’ultimo che l’ha aperto, un pensionato che di solito lo sfoglia dall’inizio alla fine mentre prende un caffè, l’ha lasciato a rovescio. Lo giro, un po’ per mettere ordine e un po’ per curiosità… Se lui è venuto, allora deve essere accaduto qualcosa.
La risposta è sulla prima pagina:
ARTIGIANO UCCISO A MARTELLATE
Il sottotitolo aggiunge che il fatto di sangue è avvenuto a Borgo Incrociati.
Soltanto il Bisagno separa la piazzetta da quel grumo di case basse. Se la grande alluvione del 1970 non ne avesse buttato giù qualche arcata, il ponte di sant’Agata comincerebbe in piazzetta e finirebbe al Borgo.
Quindi l’omicidio è accaduto qui vicino.
Non ho sentito il rumore che si porta appresso il circo delle indagini. Continuo a leggere: il corpo è stato trovato alle ventidue di ieri. A quell’ora, dopo aver messo a letto Paola, mi dedico ai lavori casalinghi. Di solito cucino qualcosa per il giorno dopo. Poi leggo.
Nessun cliente ha commentato il delitto; penso che li abbia frenati la mia storia. Frequentano il mio bar perché è comodo e accogliente, ma hanno con me un rapporto complicato.
Scorro una pagina dopo l’altra. Se lui è venuto a cercarmi per costringermi a indagare, soltanto quel delitto può esserne stato la causa.
O è qualcosa che il Secolo XIX
non ha riportato. E fra tutti i quotidiani genovesi è il più attento alla cronaca nera locale, il filone più redditizio dopo il calcio. Quando sento crescermi dentro questa specie di sfarfallio e prurito che mi spinge a indagare, mi odio.
Più di quanto odii lui.
Infilo il quotidiano nella sacca che uso come borsa.
Alle diciassette arriva Sara che resterà fino alle venti, ora di chiusura. – Ho saputo che hanno ammazzato uno qui vicino – e con un cenno indica le case oltre il Bisagno. Cosa ne pensi? – dicendolo posa sul tavolino la borsa nera in cui tiene il portatile.
– Niente.
– Eri una poliziotta, Tea. Anche brava.
– Ero.
Mi accosto alla porta per chiamare Paola e dirle che è ora di tornare a casa, ma sta già arrivando. Ormai conosce il ritmo delle nostre giornate. Quando arriva Sara a darmi il cambio, noi andiamo a casa.
Se è brutto tempo, lei resta dentro il bar con me: gioca, legge come può; quando è discreto corre in piazzetta.
L’aria aperta e la compagnia degli altri bambini, forse anche i giochi movimentati, le hanno dato un bel colorito sano. L’hanno anche resa più sicura di sé.
L’assistente sociale, un uomo di mezza età con occhi tristi e tanti tentativi di sorriso, ha detto che è soddisfatto di come sta procedendo l’affido. Ha un buon rapporto con Paola, signora Maritano. Meglio di come sperassi
.
E ora lui vuole togliermela.
Sapessi di avere qualche speranza, la prenderei e me la porterei via. Anche se è illegale.
Nel mio curriculum, il rapimento di minore manca.
Mi chino, controllo che Paola sia ben coperta, perché giocando ha sudato e ora sta venendo freschetto. Infilo il giaccone di lana cotta a righe rosse e arancio, lancio un rapido saluto a Sara e torniamo a casa.
Paola si è addormentata. È dalla fine di novembre che riesce a dormire da sola, prima avevo dovuto spostare il mio letto nella sua camera. Dormire da sola è stata una grande conquista.
Per lei e anche per me. Le ho lasciato la camera più grande e luminosa così ha posto per la scrivania e per tutti i suoi giocattoli.
Come ogni sera, alle ventuno metto il cellulare in modalità vibrazione per non rischiare di svegliarla. E lo infilo nella tasca dei pantaloni di felpa, la mia tenuta casalinga.
Lo sento vibrare e sono le ventidue.
Un messaggio da un numero sconosciuto: APRIMI.
Rapida digito: FANCULO.
APRIMI O MI ATTACCO AL CAMPANELLO E LA SVEGLIO.
BASTARDO.
SAI CHE LO FAREI.
Gli ho aperto il portone. Quando sento il suo passo, apro anche la porta.
– Hai ricominciato a ragionare – ed entra.
Taccio; so che qualsiasi cosa io dica si ritorcerebbe contro di me.
– Sei sola?
Come se non conoscesse i miei ritmi di vita.
– C’è solo la bambina?
E di chiamarla per nome proprio non gli riesce. – No, mi stavo scopando due che ho raccattato per strada.
– Li hai soddisfatti? Ne dubito. – Una mezza risata quasi silenziosa. – E non è per le tue modeste doti di puttana che sono venuto. – Mi spinge verso la porta aperta della cucina. – Ho un lavoro per te.
– Non sono in vendita.
– Sotto tutta questa scorza – e dicendolo mi percorre con un’occhiata – sei morbida come il burro. Immagino che tu ti sia affezionata a quella che sta dormendo.
Se fossi sola, gli griderei contro. Se non lo faccio, è per non svegliarla… Ho passato mesi a tenerle la mano quando si svegliava, tre o quattro volte per notte, in preda agli incubi. Lo odio talmente tanto da sentirmi la gola stretta in una morsa. Lui dovrebbe sapere cosa vuole dire essere un bambino e non riuscire a fare una notte filata di sonno perché arrivano i mostri.
– Lo so.
Due parole e mi spiazza.
Invece di guardarlo in viso punto gli occhi oltre la sua spalla, contro lo specchio appeso sopra il mobiletto dell’ingresso. Vedo la mia faccia arrossata per la collera e il mio sguardo smarrito. I suoi capelli leggermente arricciati alla nuca. Devo stringere le mani a pugno per non attirarlo contro di me. – Vattene.
– Ho i miei mostri, Maritano. Di quelli degli altri non me ne frega un cazzo.
Il suo eloquio è peggiorato, di solito cercava di parlare come si vestiva: da impeccabile uomo d’altri tempi.
– Giusto, Ardini. Tu hai i tuoi, io ho i miei. Occupati dei tuoi.
– Non posso farlo, Maritano.
– E perché? Il grand’uomo può indagare su chi vuole e come vuole. Ha anche una squadra che obbedisce senza fiatare, tanti bravi soldati zelanti…. – Prendo fiato. – Ti hanno anche fornito una soldatessa per gli svaghi in corso indagini?
– Sì, abbastanza capace e sempre disponibile. Ma questa indagine è tutta per te.
Parlando mi ha preso per un braccio. Non sono una fragile fanciulla, non lo sono mai stata, ma è parecchio più forte di me. Potrei ribellarmi, perché nessun uomo regge una ginocchiata nei testicoli se è data bene e con slancio. Ma farei rumore e non devo svegliarla.
Mi ha presa per un braccio e mi ha fatto arretrare fino alla cucina.
Sul tavolo è aperto il Secolo XIX
che ho portato dal bar e stavo leggendo quando è arrivato.
Lo guarda e tace.
– Non pensare che ti aiuti con quello – e indico con un rapido gesto del mento il quotidiano stupidamente in vista e anche aperto alla pagina giusta.
– Quello? Quello è un sudicio bastardo che meritava la fine che ha fatto.
Di colpo mi ha lasciato il braccio, così all’improvviso che per poco non resto sbilanciata; scosta una sedia, e apprezzo che non abbia fatto rumore anche se continuo a dimenticare di mettere i feltrini sotto le gambe per evitare che grattino; si siede.
Indica quella di fronte come se fosse lui il padrone di casa e l’anfitrione. – Picchiava la compagna. Che lei fosse una tossica non lo assolve dall’aver riservato ugual trattamento ai due figli. Troverò chi ha fatto quel bel lavoro, è il mio mestiere.
Mi sono seduta e resto in silenzio a guardarlo.
Forse cerco una falla nella sua grigia armatura. Qualche volta sono riuscita a intravedere quello che nasconde, ma sempre è stato veloce nel ricomporre le sue difese.
– Non è per lui che sono venuto.
Altro silenzio.
Forse stiamo combattendo a chi lo interromperà per primo, quando dalla porta chiusa arriva la voce di Paola. Un grido e insieme un inizio di pianto. E il richiamo mamma
.
Mi alzo e corro.
Ormai so come fare, le prime volte ero terrorizzata, ora provo soltanto dolore per lei.
Quando torno, ed è passata una mezz’ora, lui è dove l’ho lasciato.
Mi siedo.
– Ti chiama mamma
.
– Soltanto di notte. – Mi passo una mano fra i ricci rossi che mi hanno sempre dato un’aria da stravagante ribelle.
– Dimmi cosa vuoi.
– Fai un lavoro per me.
Si frega gli occhi, deve aver dormito poco… Ecco, a questo non devo pensare o la mia compassione gli fornirà un’arma. – Hai la tua gente – senza alzare la voce. Senza espressione.
– Non è lavoro da affidare ad altri.
– Farlo tu? – perché a lui piace dare ordini, distribuire compiti. Ma sporcarsi in prima persona? No.
Allarga le mani sul piano del tavolo, ho l’impressione che gli stiano tremando. – Io non riesco.
Alzo gli occhi a incrociare i suoi, ma dicono ancora meno di due lastre di ghiaccio. Sto per chiedere, quando si alza di scatto, mette una mano in tasca e prende il cellulare che sta vibrando.
Ascolta e poi: – Arrivo.
È già alla porta quando mi lancia contro che tornerà appena potrà.
– Anche mai – è la mia risposta. Sprecata perché mi ha già cancellata, è assorbito dalla sua vita di cui non faccio più parte.
CAPITOLO 3
Giovedì 8 febbraio
Ho accompagnato Paola a scuola, ho attraversato la strada e la piazzetta.
Sara ha già aperto il bar, focaccia e cornetti sono disposti nell’espositore. Posso iniziare la giornata lavorativa.
Quando dico a Sara che può andare, risponde che oggi non ha lezioni interessanti e preferirebbe restare qui a studiare. L’ha fatto altre volte: è fuorisede, ha affittato una camera con un’altra che sembrava simpatica e non deve esserlo. Spesso si ferma qui con un libro e il portatile da cui non si separa mai.
Se c’è bisogno di due mani in più, non si tira indietro; trovarla è stato un colpo di fortuna.
Sembra intenta ai suoi studi, ma alla prima pausa, mentre ne approfitto per farmi un espresso da bar, alza gli occhi dal pc... – Chi era?
– Di chi parli?
– Oh, Tea! – Mi punta contro la matita che tiene sul notes accanto al pc. – Appena l’hai visto hai fatto una faccia. – E poi i suoi occhi prendono quella strana espressione sognante che ho notato in troppe donne quando