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Maria Viani e le ombre del '68: Un'indagine genovese
Maria Viani e le ombre del '68: Un'indagine genovese
Maria Viani e le ombre del '68: Un'indagine genovese
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Maria Viani e le ombre del '68: Un'indagine genovese

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Genova 1968 “Quando Elisabetta scomparve per me fu una sorpresa. Fui messa davanti all’evidenza che la mia amica non era la persona che avevo immaginato. Possiamo considerare la mia giovane età una giustificazione sufficiente per una valutazione tanto sbagliata?”.
Queste sono le parole con cui Maria Viani, universitaria fuori sede, ricorda la scomparsa della sua coinquilina, la bellissima Elisabetta. L’aiuteranno nel difficile compito di ritrovarla l’ispettore Sergio Cantini, vecchia conoscenza di Maria, e il fratello della ragazza sparita. L’impresa però si rivelerà più difficile di quanto i protagonisti possano immaginare. Sullo sfondo di una Genova percorsa dai fremiti della contestazione studentesca, agitata dagli scioperi operai, testimone degli scontri con la polizia e delle prime azioni terroristiche, la vicenda si aggroviglia, si arricchisce di personaggi determinanti e poi si snoda con epiloghi inaspettati.
LanguageItaliano
Release dateMar 22, 2016
ISBN9788869431210
Maria Viani e le ombre del '68: Un'indagine genovese

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    Maria Viani e le ombre del '68 - Maria Teresa Valle

    Personaggi principali:

    Quando Elisabetta scomparve

    Quando Elisabetta scomparve per me fu una sorpresa.

    Fui messa davanti all’evidenza che la mia amica non era la persona che avevo immaginato.

    Possiamo considerare la mia giovane età una giustificazione sufficiente per una valutazione tanto sbagliata?

    In fondo è un errore comune formarsi un’idea delle persone prima di averle conosciute bene e, nel momento in cui ci accorgiamo di quanto siano diverse rispetto al modello che abbiamo in testa, siamo indotti a pensare che siano loro a essere cambiate, oppure che ci abbiano ingannato, per catturare la nostra buona fede.

    A pensarci bene questo è un comportamento assolutamente normale. Tutti cerchiamo di apparire migliori di quello che siamo. Tutti tentiamo di minimizzare i nostri difetti, di nascondere le pecche, di mostrare solo il lato positivo.

    Elisabetta non aveva fatto nulla per nascondere la sua vera natura, le sue abitudini, le sue frequentazioni. Forse ero stata tratta in inganno dal suo aspetto angelico; l’avevo considerata come una sorella maggiore, mi ero fidata. Non avevo capito.

    Non mi consideravo una sprovveduta, ma forse la vita non mi aveva ancora insegnato abbastanza.

    Per questo, quando Elisabetta scomparve, per me fu una vera sorpresa.

    Ma ora tutto questo non ha nessuna importanza, ora che la terra sta per restituire il suo corpo, ora che la sua tomba improvvisata, scavata in fretta sul limitare del bosco, sta per essere aperta. Il terreno che copre il bel volto, il seno bianco e generoso, la pelle di latte, sta per essere rimosso e finalmente si potrà dare una sepoltura degna ai suoi poveri resti e chi l’ha amata la potrà piangere e chi l’ha uccisa dovrà pagare il suo debito.

    Capitolo I

    Genova 1968

    Davanti a quella visione Maria resta immobile e incantata, come un bambino che ha visto Babbo Natale.

    È la prima volta che partecipa a una manifestazione. Ce l’ha portata Elisabetta, la sua coinquilina, che ha saltato la lezione di storia contemporanea, mentre lei ha mancato quella di fisiologia.

    Sulla città cade una pioggerella fitta e sottile. Sui caschi in metallo grigio-verde dei celerini si condensa l’umidità e qualche goccia, scivolando sulla nuca rasata, cade tra il collo e il colletto della giubba di panno.

    I poliziotti incuranti della pioggia fastidiosa, stanno immobili, schierati al fondo della piazza, i piedi divaricati racchiusi negli scarponi, saldamente ancorati al selciato. Alla cintura la nuova dotazione di manganelli di legno. Niente armi. Niente scudi. Niente lacrimogeni. Solo i gradi più alti, radunati in piazza Matteotti accanto agli automezzi, hanno a portata di mano la Beretta M12.

    I giovani poliziotti, gli occhi stretti come fessure, fissano il corteo che sta avanzando dal fondo di via XX Settembre. Come un fiume in piena i manifestanti riempiono tutta la carreggiata e vengono avanti tenendo alti gli striscioni e sventolando le bandiere. Gli slogan scanditi a piena voce e sottolineati da suoni di fischietti e tamburi danno il ritmo al passo.

    Gli operai indossano i vestiti buoni, giacca e camicia bianca. Solo alcuni portano maglioni e qualche sciarpa che si inumidisce a causa della pioggia. Camminano compatti, l’espressione seria, gli sguardi accesi, l’avanzare deciso. Mentre il corteo procede, i negozianti si affacciano sulla soglia, i passanti si fermano a guardare. I vigili urbani, che hanno provveduto a deviare il traffico, si bloccano con il fischietto ancora tra le labbra e le braccia abbandonate lungo i fianchi.

    Da via Roma e da via San Lorenzo altri due cortei convergono verso la piazza.

    – Sono tanti, cazzo! – sibila tra i denti uno dei celerini che stanno in prima fila.

    – Hai paura? – risponde, senza guardarlo, quello che gli sta accanto.

    – Beh! Sembrano davvero tanti...

    – Ci farai l’abitudine. Stai vicino agli altri. Qualunque cosa succeda non farti mai trovare isolato. Hai capito?

    – Sì, sì. D’accordo. Ma secondo te che fanno?

    – Niente. Stai tranquillo. Fanno un po’ di casino, gridano qualche slogan e poi se ne vanno a casa contenti...

    – Se lo dici tu...

    Il celerino più anziano sa quel che dice, sente la piazza. La sua esperienza lo rende sicuro di sé.

    Le prime file dei manifestanti, incalzate da chi sta alle loro spalle, sono arrivate a breve distanza dallo schieramento delle forze dell’ordine. La folla ha riempito completamente tutto lo spazio disponibile.

    I manifestanti gridano sempre più forte. Qualcuno si agita, trattenuto con prontezza dai ragazzi del servizio d’ordine. La moltitudine beccheggia inquieta, come pronta a una mossa imminente. Il mare di teste si muove come un’onda e lo spazio tra la gente e la polizia si riduce sempre più. Gli uomini che fanno parte dei cordoni di protezione faticano a contenere la spinta dei dimostranti.

    L’ispettore capo arriva di corsa e si piazza davanti ai suoi uomini.

    – State calmi! State fermi! Non fate niente senza il mio ordine!

    Maria, ferma sotto i portici del Palazzo della Borsa, osserva la scena, la mano stretta in quella di Elisabetta.

    – Non avere paura, non succederà niente. – La tranquillizza l’amica. – Gli operai sono incazzati, ma non sono ancora al punto di rottura. I sindacati stanno trattando e finché non c’è la risposta delle aziende staranno fermi. I più agitati sono quelli della Chicago Bridge, ma il servizio d’ordine li tiene buoni.

    – Ma tu come lo sai? – chiede Maria guardando meravigliata la compagna.

    – Lo so e basta.

    Dal bordo della piazza un giovane operaio, distolta la sua attenzione dal palco dove un rappresentante della FIOM sta parlando, getta uno sguardo sulle due ragazze. La sua bocca si apre, come volesse parlare, ma nessun suono ne esce e gli occhi si posano ora sull’una ora sull’altra, nell’impossibilità di decidere quale delle due gli piaccia di più.

    Una indossa una minigonna vertiginosa che mette in risalto le gambe perfette e nervose di giovane puledra. Fianchi tondi e piccolo seno a punta nella figura minuta, mentre il viso, illuminato da grandi occhi verdi pieni di vivacità e da un sorriso franco, è incorniciato da una gran massa di capelli scuri e ribelli. Si muove a scatti, inquieta e intimorita da quella folla di dimostranti.

    L’altra è leggermente più alta e robusta. Morbida e flessuosa, indossa una gonna lunga fino alle caviglie, in perfetto stile figlia dei fiori e una maglia sottile dentro cui i grossi seni danzano liberi a ogni movimento. I capelli lisci e biondi scendono fino alla vita e gli occhi azzurri hanno la profondità e il mistero del mare. Tra le labbra piene e sempre atteggiate a una smorfia capricciosa splendono le perle bianche dei denti.

    Elisabetta era piaciuta subito a Maria.

    Quando quest’ultima era arrivata a Genova per iniziare l’anno accademico, la città l’aveva accolta in una giornata luminosa di inizio ottobre. Quelle giornate liguri in cui l’estate sembra non voler finire mai e la luce ha quel particolare tono morbido e caldo che tinge di rosa le vecchie pietre dei palazzi, accende il rosso degli ultimi gerani sui balconi e riempie di voli le strisce di cielo sopra i vicoli.

    I foglietti appesi alla bacheca di palazzo Balbi erano tanti e appiccicati in maniera caotica. Chi cercava libri di testo, chi appunti di questa o quella materia, chi offriva stanze in affitto. Il messaggio di Elisabetta proponeva quello di cui Maria aveva bisogno.

    Cerco compagna con cui dividere piccolo appartamento.

    Seguiva nome e indirizzo.

    Non conoscendo bene la città, aveva chiesto informazioni e aveva scoperto che la via indicata non era lontana da lì.

    Tanto valeva andare subito a vedere se la casa faceva al caso suo.

    Il caseggiato, basso e attaccato alle costruzioni vicine, era posto all’interno di una cancellata che si apriva su un cortile lastricato di pietre grigie. Uno scorcio particolare che le era piaciuto subito. Premuto il tasto del citofono il cancello si era aperto cedendo sotto la spinta delle sue mani. In cima a una breve scala la stava aspettando quella che sarebbe diventata la sua coinquilina.

    Aveva un portamento fiero e nello stesso tempo aggraziato. Indossava un accappatoio bianco, che teneva chiuso con la mano sinistra. Dall’indumento spuntavano le gambe ben tornite e l’attaccatura morbida e piena del seno. Aveva un asciugamano avvolto intorno alla testa, a raccogliere i capelli bagnati. Emanava un profumo di sapone e aveva la pelle del viso, completamente privo di trucco, lucida di vapore. Sulle ciglia alcune goccioline splendevano come piccole perle, rendendo quasi irreali gli occhi azzurri, sormontati dall’arco perfetto delle sopracciglia.

    A Maria aveva ricordato immediatamente una ninfa, Naiade o Nereide, appena sorta dalle acque. Indovinò, dall’incarnato chiaro e delicato, dalle morbide labbra pallide, che doveva essere bionda. L’immagine che ne ricavò fu quella di una creatura angelica, bianca e innocente, splendente di un’aura quasi verginale. Non immaginava quanto gli avvenimenti che stavano per accadere avrebbero fatto cambiare questa percezione.

    – Ciao. Sei venuta per l’appartamento? Entra. Sono tutta bagnata. Ho appena fatto la doccia. Non vorrei prendere freddo.

    Maria era rimasta sulla soglia, intimidita.

    – Sì, scusa. – Aveva esclamato, riscuotendosi e decidendosi a entrare.

    – Vieni. Ti faccio strada. Come avrai capito, guardando da fuori, il proprietario ha ricavato l’appartamento sopraelevando il garage. È veramente piccolissimo, ma è comodo e non costa molto. Io però, da sola, non posso permettermelo e la ragazza che lo divideva con me si è laureata ed è tornata al suo paese. Tu da dove vieni?

    – Varazze.

    – E abiti lì?

    – Sì.

    – Ma non è lontano, come mai cerchi casa qui?

    – A Scienze Biologiche abbiamo la frequenza obbligatoria e i laboratori sono sempre il pomeriggio tardi. Lo scorso anno ho fatto la pendolare, ma è troppo dispersivo, non mi rimaneva il tempo per studiare. Quest’anno i corsi sono ancora più impegnativi e allora ho deciso di fermarmi.

    – Capisco. Ecco questa è la cucina, qui c’è il bagno e la nostra camera è questa. L’ingresso con il divano funge da salotto e... è tutto qui.

    – E quanto costa l’affitto?

    – Io pago sessantamila lire al mese, più le spese. Si dovrebbe fare a metà.

    – Va bene. Ci sto. E... senti... tu che facoltà frequenti?

    – Scienze politiche. Quarto anno, ma sono indietro con gli esami...

    – Maria! Ti sei incantata? Andiamo, la manifestazione è finita. – Elisabetta prende la sua amica per un braccio e la trascina via. Maria si avvia insieme a lei.

    – A cosa stavi pensando? – Chiede Elisabetta guardando l’altra che sembra sopra pensiero.

    – Era così evidente?

    – Sei un libro aperto...

    – Pensavo a quando ci siamo conosciute. Mi mettevi soggezione. Più grande di me. Abitavi da sola. Sembrava che fossi molto sicura di te.

    Elisabetta ride a gola piena, buttando indietro la testa.

    – E tu, invece, sembravi un pulcino smarrito. Mi guardavi con due occhioni spalancati, come non avessi mai visto una ragazza in vita tua. Ti confesso che dopo aver accettato di dividere l’appartamento con te, per qualche momento, ho avuto paura.

    – Paura?

    – Sì. Ho pensato che ti saresti appiccicata a me come una cozza e non avrei più potuto liberarmi di te!

    – Che stronza! È questo che hai pensato?

    – Sì, ma non ti conoscevo ancora. Ti sei offesa?

    – Un po’ sì!...

    – Poi però conoscendoti... è stato anche peggio.

    Elisabetta scappa ridendo, mentre Maria la insegue minacciandola con la borsa.

    Capitolo II

    Un luogo segreto

    Si era svegliato in un posto che non conosceva. Una stanza nuda, con le pareti che dovevano essere state bianche e ora mostravano ampi spazi scrostati e alcune macchie di umidità. Non c’erano mobili, se si escludeva la branda su cui era sdraiato, un tavolino e una sedia malamente impagliata.

    Gli faceva male la testa e non ricordava come fosse arrivato in quel luogo, né perché si trovasse lì.

    Rammentava di essere uscito di casa, per recarsi a lezione alla solita ora; come ogni giorno. Era molto preciso, non cambiava mai le sue abitudini. Forse era stato questo che lo aveva tradito?

    Una cosa era certa: era stato rapito.

    Non faceva freddo nella stanza ma tremava e un velo di sudore gelido gli copriva la schiena e il volto. Sicuramente lo avevano drogato. Non si era mai sentito così male.

    Nel portarlo lì dovevano avergli messo qualche cosa sulla testa, un sacco, forse, perché aveva la bocca piena di fili stopposi e polverosi. Cercò di liberarsene sputando per pulirsi alla meglio la lingua. Aveva sete e la gola irritata. Notò che gli avevano tolto i lacci delle scarpe, la cintura e l’orologio.

    Tentò di alzarsi in piedi e un capogiro lo costrinse a sedersi nuovamente.

    Si sdraiò sulla branda temendo di perdere coscienza e cadere a terra.

    Non riusciva a pensare. Provò a fare alcuni respiri profondi, come gli aveva insegnato il maestro di yoga, facendo entrare l’aria attraverso il naso, spingendo il diaframma verso il basso, ed espirando lentamente dalla bocca. Chiuse gli occhi e cercò di rilassare ogni parte del corpo, visualizzandola e isolandola mentalmente. L’esercizio gli restituì la sensazione di aver recuperato almeno in parte le sue facoltà.

    Provò nuovamente ad alzarsi e questa volta i capogiri non lo assalirono. Andò verso la porta e tentò la maniglia. Non si era fatto alcuna illusione: non si aprì. Nella stanza c’era un’unica finestra sigillata con delle tavole di legno inchiodate alla cornice. Ne saggiò la resistenza e constatò che, con le mani nude, che per di più erano legate strettamente, non avrebbe potuto staccarle in nessun modo. La luce nella stanza era assicurata da una lampadina che pendeva nuda dal soffitto.

    Scoraggiato tornò verso il suo giaciglio e si sdraiò. Quei semplici movimenti lo avevano stremato.

    La sete lo tormentava. Da quante ore era lì? Da quanto non mangiava, né beveva nulla?

    Si addormentò e si svegliò dopo un tempo che non seppe calcolare, spaventato da un incubo. Qualcuno lo aspettava davanti al portone e quando era uscito gli aveva buttato addosso una coperta, e l’aveva spinto all’interno di un’auto. Qui aveva sentito un ago penetrargli nel braccio. Nuovamente in preda a un sudore freddo e a una sensazione di panico si rese conto che quello che lo aveva terrorizzato, non lo aveva solo sognato, era accaduto veramente.

    Chi lo aveva rapito, e perché?

    Capitolo III

    Genova 1968

    L’aula magna è gremita. Il fumo impregna l’aria come una nebbia autunnale. Gli studenti di lettere, filosofia e scienze politiche hanno indetto l’assemblea per decidere le azioni da far seguire agli avvenimenti dei giorni precedenti, in cui il corteo dei ragazzi che manifestavano contro il golpe dei colonnelli in Grecia era stato pesantemente attaccato dalla polizia che, per forzare il blocco in via Balbi, aveva caricato ferocemente.

    Anche gli iscritti ad architettura, fisica, ingegneria e scienze hanno aderito all’iniziativa mandando i propri rappresentanti. Per questo il comitato degli organizzatori ha faticato a trovare una sede che potesse contenerli tutti. Il preside della facoltà di lettere ha preferito non rilasciare l’autorizzazione all’uso dell’aula magna scaricando la responsabilità sul magnifico rettore.

    È ormai sera e l’assemblea è tutt’altro che finita. Inutilmente gli uscieri hanno chiesto di sgombrare per poter chiudere il portone: ormai di fatto la facoltà di lettere è occupata.

    Parecchi studenti hanno dato il proprio contributo al dibattito: la discussione verte sulle opposte visioni del ruolo del movimento.

    La tesi di Giancarlo, leader indiscusso, è che la lotta debba essere portata avanti all’interno dell’università, mettendo in relazione le condizioni di malessere degli studenti con l’autoritarismo e l’oppressione che il potere capitalistico esercita sulla scuola in generale e sull’università in particolare. Una parte consistente dell’uditorio contesta fortemente questa idea, convinta che porti all’isolamento dalla realtà sociale e finisca per sfociare nel riformismo.

    Maria ascolta confusa i vari discorsi senza riuscire a prendere una posizione. Come al solito a trascinarla all’assemblea è stata Elisabetta, ma si sente estranea, lei che è iscritta a scienze biologiche, in mezzo a tutti quei compagni, studenti di scienze politiche, di filosofia, che sembrano capire cose che a lei sfuggono. La sua esperienza si limita all’aver preso parte ad alcune assemblee nell’istituto di fisica occupato. Lì ha trovato concretezza. La partecipazione di alcuni professori ha reso la discussione particolarmente interessante. Si sono toccati i problemi specifici della facoltà. La carenza di laboratori, la scarsa disponibilità dei docenti a mettersi a disposizione degli studenti. Ma si è discusso anche del ruolo sociale e politico della scienza e della ricerca, oltre che del diritto allo studio. Quanto a quello che si potrebbe fare, le sue idee sono del tutto incerte.

    Al contrario Elisabetta, sembra avere tutto chiaro.

    – Non c’è altro da fare che occupare la facoltà e aprire a tutti. Faremo delle commissioni di studio e ci divideremo i compiti.

    Questa è l’unica mozione che, alla fine, viene messa ai voti.

    – Naturalmente, – spiega Elisabetta alla sua amica, – ci dobbiamo aspettare l’intervento della polizia. Ormai ci siamo abituati, ma c’è tempo. Non sono così veloci ad arrivare.

    – Ma chi fa intervenire la polizia? – Chiede Maria che cerca affannosamente di orientarsi in questo mondo per lei nuovo.

    – È il rettore che lo chiede al magistrato. E questo incarica la polizia di sgomberare.

    I ragazzi alzano la mano per approvare.

    – Allora è deciso. Occupazione!

    Un urlo si alza dai banchi. Dopo un lungo applauso i ragazzi si disperdono nei corridoi. Qualcuno viene spedito a fare rifornimento di viveri e sigarette. Qualcuno tira fuori i sacchi a pelo, che ha prudentemente portato da casa. Qualcuno imbraccia una chitarra.

    – Ciao, sei sola? – Il ragazzo si è avvicinato senza far rumore. Maria trasale, poi si volta. Il viso del proprietario della voce è a pochi centimetri dal suo. Un sorriso sghembo stampato sopra. Anche gli occhi sorridono e la guardano con cordialità. Il pensiero che attraversa la mente della ragazza è di avere di fronte qualcuno che sa decisamente come accattivarsi la simpatia, anche se qualcosa la mette in guardia, forse l’espressione sorniona o l’essersi avvicinato troppo a lei, al suo viso, violando il suo spazio personale.

    – No, – si trova a rispondere, indietreggiando, – sono con Elisabetta.

    – Sei iscritta anche tu a scienze politiche? – Chiede il ragazzo riguadagnando lo spazio perduto. – Non ti ho mai visto.

    – Biologia, – risponde, facendo un nuovo passo indietro – Elisabetta è una mia amica, anzi viviamo insieme... no, cioè, non è che viviamo insieme, dividiamo lo stesso appartamento... ma adesso non la vedo. Non so dove sia andata.

    – Avrà avuto di meglio da fare, ma perché continui a indietreggiare? Ti faccio paura?

    – No che non mi fai paura, – ormai arresa all’avanzata del nemico, rinuncia a spostarsi, – ma cosa vuol dire avrà avuto di meglio da fare? – Maria resta incerta sul senso da dare all’affermazione dell’altro, che non conosce e che invece sembra conoscere Elisabetta e insinuare qualche malignità nei suoi confronti.

    – Solo quello che ho detto, – e allungando la mano, – io sono Luca.

    – Maria.

    I due si stringono la

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