Cadaveri e tacchi a spillo: La prima indagine torinese del commissario Aurelio Baldanzi
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Info su questo ebook
Luisa Ferrari, classe 1971. L’amore per la paleopatologia l’ha spinta a scegliere la tesi in Anatomia Patologica a Genova e poi la specializzazione sempre in Anatomia Patologica a Torino. Tra le mura del vecchio istituto torinese è stata subito affascinata dal vecchio Museo, antichi reperti polverosi che attendevano giusto riconoscimento e grazie all’interessamento di alcuni Professori è poi iniziato un paziente lavoro di restauro e studio che continua ancora adesso. E cosa di meglio che lasciarsi ispirare dagli stanzoni e dagli interminabili corridoi dell’Istituto per ambientarci un romanzo? Romanzo molto di fantasia, ma non troppo...
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Anteprima del libro
Cadaveri e tacchi a spillo - Luisa Ferrari
L’ANTEFATTO
Pioveva.
Vista dall’alto del Monte dei Cappuccini nell’ultima luce di quel pomeriggio novembrino del 1938, Torino appariva drappeggiata da veli di grigie nubi malinconiche, quasi partecipasse al preludio della tragedia bellica che si stagliava all’orizzonte. Pochi i passanti nelle vie del centro, pochi i mezzi per le strade, mentre il Po scorreva indifferente, gonfio per le piogge autunnali.
Una Torino ieri come ora magica ed inafferrabile, dai palazzi nobiliari testimoni di un glorioso passato, dalle vie anguste del centro che si aprono all’improvviso sugli ampi viali che si incrociano con matematica precisione rendendo la città una sorta di gigantesca scacchiera.
E da poco tempo, un’altra meraviglia si aggiungeva all’occhio dell’ammirato visitatore, là, vicino al grande fiume, gli imponenti edifici del nuovo altrettanto imponente complesso chiamato La Città Ospedaliera o più familiarmente Le Molinette, in virtù della presenza di mulini lungo la riva del fiume.
Ieri come ora una vera e propria cittadella della scienza, che inizia dall’ampio e sempre trafficato corso Bramante per terminare quasi in sordina nella breve via Santena, dominata dall’imponenza dell’Istituto Universitario di Anatomia Patologica.
Per espressa volontà del Professor Ferruccio Vanzetti quell’Istituto era stato trasferito dagli artistici edifici vicino al Parco Valentino, fino a quel momento condivisi con l’Anatomia Umana Normale e la Medicina Legale, per divenire parte integrante della nuova struttura ospedaliera.
Non era stata solo la necessità di indipendenza a giustificare quello spostamento, quanto piuttosto l’esigenza di avvicinare l’operato dell’anatomopatologo a quello del chirurgo e del clinico. Proprio in quegli anni, infatti, il patologo iniziava ad emergere dalla fredda solitudine della sala settoria per acquisire il ruolo, gravoso quanto gratificante, di formulare diagnosi in grado di guidare la mano dei colleghi che si affidano alla sua capacità di vedere attraverso il microscopio i segni della malattia per intervenire correttamente e portare i pazienti alla guarigione.
Simbolo di questa nuova era l’Istituto di Anatomia Patologica, là sulla strada battuta dalla pioggia novembrina, spiccava con la maestosità di un tempio pagano e, allo stesso tempo, la grazia di una villa Liberty.
La stradina alberata che faceva da cornice all’edificio era racchiusa da un alto muro che sembrava voler porre un confine tra la terra dei comuni mortali e quella di chi dedica la vita intera al progresso scientifico.
Nel grigiore del giorno morente le alte vetrate, dalle quali trapelavano a tratti tenui luci, apparivano come fari che indicavano ai pochi passanti frettolosi un approdo sicuro per l’Umana Ragione in quegli anni oscuri in cui ogni razionalità sembrava essere soppressa.
Proprio in quella stretta via stava per avvenire qualcosa di inaspettato e tremendo.
Là, nel crepuscolo, un uomo avanzava a passo lento come sopraffatto da un peso infinito. Indossava un pesante pastrano con un cappuccio che ne nascondeva in parte il volto e al collo portava una lunga sciarpa scozzese dalle frange che si agitavano al vento come fronde nella tempesta.
L’espressione era sofferente, a tratti si girava con aria nervosa, come per assicurarsi di non essere seguito. Ogni tanto accelerava impercettibilmente, poi rallentava, quasi imponendosi una calma forzata.
Accanto a lui camminava una giovinetta che, cercando di ripararsi dalla pioggia sferzante con una corta mantella scura, si fermò un istante per accomodarsi meglio il cappuccio sul capo, rivelando una pettinatura ricercata che mal si accordava con i rustici abiti da viaggio.
Continuando a camminare, lui si voltò quasi di sfuggita, rivolgendole un mezzo sguardo di rimprovero per quella breve interruzione.
Lei sorrise infantilmente, a mo’ di scusa, guardando l’uomo al suo fianco con infinito affetto e riprese a trotterellargli al fianco.
Lui la prese per mano, quasi per farle accelerare il passo, mentre i tratti del viso tirati rivelavano i segni di una profonda lotta interiore che gli rendeva il respiro affannoso. Al contrario la ragazza sembrava, o voleva sembrare, tranquilla.
Giunti in prossimità del cancello principale l’uomo rallentò, si guardò intorno con fare circospetto, poi estrasse una chiave ed aprì il portoncino laterale.
Ehi, voi…!
chiamò una voce lontana.
I due si fermarono incerti.
Lei istintivamente si coprì il volto col cappuccio.
Buona sera, Vanni, non si preoccupi, sono io…
disse con forzata disinvoltura l’uomo col pastrano alzando contemporaneamente uno sguardo timoroso verso le finestre del secondo piano.
Ah, d’accordo…
riprese il guardiano dal fondo della stradina interna che costeggiava l’edificio e, facendo un cenno di saluto col braccio, si allontanò.
È andata bene, ma bisogna essere prudenti…
borbottò l’uomo col pastrano a mezza voce, guardandosi nuovamente intorno e alzando una seconda volta lo sguardo verso quelle finestre. Le luci erano tutte spente. Mormorò qualcosa soddisfatto e accennò ad un gesto affettuoso alla ragazza che lo fissava con sorriso sempre più incerto. In quel momento un ramo piegato dal vento e dalla pioggia si spezzò con un secco rumore e si schiantò al suolo fragorosamente a poca distanza da loro.
Un attimo dopo al secondo piano una finestra si illuminò all’improvviso. L’uomo trasalì.
Presto, di là
bisbigliò alla ragazza, indicando gli alberi che circondavano l’edificio.
Si nascosero nello stretto spazio tra i grossi tronchi ed il muro di cinta e rimasero immobili, ascoltando il battito in tumulto dei loro cuori.
Nulla accadde.
Il cortile rimase silenzioso nella malinconia autunnale, mentre là in alto la finestra brillava, infrangendo aggressiva la pallida luce del tramonto.
Sporgendosi cautamente l’uomo fissò la finestra, terreo in volto. La ragazza, pallida, gli strinse la mano, quasi a ricercare un coraggio che sembrava venirle di colpo a mancare. Ogni traccia di serenità era scomparsa dal suo volto, che ora sembrava un cielo primaverile solcato da neri nuvoloni forieri di tempesta.
Stai tranquilla, vedrai che andrà tutto bene… non c’è alcun pericolo
le disse allora lui con espressione tutt’altro che convinta. Dopo un attimo di esitazione, avanzarono cautamente in direzione delle camere mortuarie, senza dire una parola e tenendosi ancora per mano. In prossimità della scala esterna si arrestarono, attendendo.
La pioggia si era infittita ed il vento sibilava tra i rami.
Un’altra luce si accese nel buio, dal fondo del cortile interno, poco oltre la scala della chiesa, e dopo qualche istante, che ai due sembrò un’eternità, si mosse lentamente due volte.
Il segnale.
Avanzarono rasente i muri dell’edificio fino a portarsi sul retro.
Nell’oscurità si intravedevano le sagome delle molte finestre del primo piano e poi un piccolo portone di legno. Cautamente si diressero verso il portoncino.
Si udì un sibilo leggero, quasi un timido fischio. Sorridendo, l’uomo rispose con un fischio simile.
Sembravano parti di un rituale già provato infinite volte. Quasi in risposta al fischio, nel buio, a poca distanza da loro, il rumore di un’automobile a motore spento che veniva lentamente spinta fino al cancello principale.
Ci siamo
disse l’uomo alla ragazza e sospirò profondamente. Lei annuì, con espressione terribilmente seria.
Ecco, la macchina si fermò a poca distanza dal cancello. Un altro fischio leggero, quasi impercettibile nel rumore della pioggia.
Tutto secondo gli accordi. Il piano stava funzionando.
Con un mezzo sorriso sul volto l’uomo si avvicinò alla piccola porta armeggiando sotto il pastrano alla ricerca della chiave, improvvisamente a proprio agio. Con un unico scatto la porta si aprì e i due entrarono silenziosi come spettri. Dietro di loro, non visto, un uomo si affrettò verso la scala esterna, con un ghigno di soddisfazione sul volto. Sembrava pregustare la notizia che andava a portare.
Dopo qualche istante la finestra illuminata al piano superiore della facciata dell’Istituto si spalancò e si affacciò un giovane dall’aria distinta con occhialino da intellettuale. Con aria nervosa si sporse cercando di individuare qualcosa o qualcuno tra il buio e la pioggia.
Guardò più volte lungo la stretta via alberata e poi al di là dell’angolo, nel cortile interno. Gli occhi chiari erano quasi febbrili. Si mordicchiava il labbro inferiore, con aria interrogativa e preoccupata. Sotto di lui solo pioggia e vento.
Un gatto sbucato da chissà dove attraversò il cortile di corsa, forse inseguendo qualche topolino dei sotterranei. Il giovane alla finestra lo guardò passare nel fascio di luce del lampione, per un attimo distratto dai suoi pensieri, poi si voltò rivolgendosi all’interno della stanza. Annuì più volte al suo interlocutore, con aria sempre più attenta, poi, imprecando, richiuse la finestra sbattendola con rabbia.
Sotto, nel cortile, di nuovo quel flebile fischio, ripetuto un paio di volte a tradire una palpabile ansia.
L’uomo col pastrano e la sua compagna uscirono dal portoncino portando con loro delle pesanti borse in cuoio.
Presto, di qua
.
Le parole erano un bisbiglio quasi impercettibile
Velocemente raggiunsero l’automobile al di là del cancello. È fatta, coraggio, andiamo
disse l’uomo ritrovando in parte la voce mentre saliva in macchina.
Alla guida c’era un ragazzetto che al di là degli abiti umili dimostrava una profonda dignità, che non veniva meno neanche nel momento del pericolo.
Nonostante la giovane età aveva l’aspetto di chi ha dovuto presto fare i conti con la vita, con una certa malizia nello sguardo e una vistosa corona di ricci scuri che gli davano l’aria di simpatico scavezzacollo.
L’uomo col pastrano fece accomodare la ragazza, poi, finalmente tranquillo, si appoggiò al cofano della macchina e tirò fuori dalla borsa una pipa e del tabacco.
Il profumo pungente riportò il ricordo di altri giorni ben più felici e in quel momento incredibilmente lontani. L’uomo sospirò profondamente guardando la pioggia cadere.
Il ragazzo non sembrò voler condividere affatto quell’attimo di indolente nostalgia e scattò con tono indignato. Ma no, Professore, che fa, altro che fumare… partiamo subito, non c’è tempo da perdere
.
L’uomo sembrò deluso e irritato. Andiamo, allora
disse con espressione corrucciata. Aiutò il ragazzo a caricare le borse e senza aggiungere altro si voltò un’ultima volta a guardare l’Istituto in un silenzioso addio carico di tristezza.
E poi d’improvviso l’espressione del volto mutò, cambiando da serena rassegnazione in agitazione rabbiosa.
Dannazione, me ne sono proprio dimenticato… ma come ho fatto ad essere così stupido, devo assolutamente… accidenti, aspettatemi qui, torno subito
disse concitato.
Non è prudente, ora andiamo, la prego… abbiamo già rischiato anche troppo
ribatté il giovane con educata fermezza.
No, devo scendere di nuovo in Museo, è importante, questione di pochi minuti, in un attimo sono di nuovo qua
disse il Professore tutto d’un fiato e nel dirlo si allontanò verso il cancello, sotto lo sguardo angosciato della ragazza, scomparendo dalla vista.
Poco dopo una disperata invocazione d’aiuto si levò nel buio. Poi solo silenzio e pioggia.
Il giovane scese dalla macchina imprecando e si diresse verso l’edificio correndo.
Attimi eterni.
La ragazza attese in preda ad un terrore crescente.
Che fare?
Uscire dalla macchina, scappare e chiedere aiuto?
A chi? Dove?
Ecco, là una sagoma stagliarsi dal buio. La portiera si aprì. Senza una parola qualcuno si mise alla guida.
La ragazza cercò di dire qualcosa, ma il terrore le bloccò le parole in gola. Con fragore la macchina scomparve nel buio e nella pioggia.
La mattina dopo sul tavolo di marmo della sala autoptica fu ritrovata una mano sinistra orrendamente straziata. Al dito aveva quello che venne riconosciuto come l’anello con lo stemma dell’uomo col pastrano.
Per molti anni un tacito accordo di oblio impose il silenzio su quel remoto fatto di sangue.
Poi quando la memoria divenne più lontana, qualcuno si lasciò sfuggire una parola di troppo e tutti seppero e sperarono che chi o cosa avesse colpito in quel pomeriggio di novembre non si rifacesse più vivo.
E molti anni dopo, proprio quando ormai la tensione sembrava allentarsi definitivamente e la memoria confondersi ed annullarsi, nuovi fatti risvegliarono l’orrore di quei giorni lontani.
Iniziò in un giorno di fine settembre, un pomeriggio soleggiato dall’arietta già frizzante, di quelli in cui da Torino iniziano a vedersi le Alpi in lontananza segno che l’estate sta cedendo il passo all’autunno.
Un fatto banale come un libro sfogliato distrattamente. Poi il cuore che accelera all’improvviso, il respiro che si fa affannoso, gli occhi increduli e la mano febbrile che afferra e nasconde rapidamente in una delle ampie tasche del camice bianco.
Il libro riposto nuovamente nello scaffale impolverato, l’uscita dalla Biblioteca con ostentata naturalezza. Lo sapevo, lo sapevo, si disse sorridendo, non poteva finire così, doveva esserci una giustizia divina o diabolica che prima o poi si ricordasse di me.
La soleggiata giornata di fine estate era più radiosa che mai. Poi improvviso un brivido: se era sul serio tutto vero, allora…
Il cielo non sembrava più così sereno.
Poche ore dopo un’altra mano si allungava incredula a prendere con circospezione quei fogli ingialliti che sporgevano dalla vetusta cassettina di legno della posta in Biblioteca.
Ecco di colpo le antiche dicerie prendevano corpo. Era vero, tutto vero, però questo significava che…
Accelerò il passo nel lungo corridoio quasi sentendosi inseguito da quei remoti fantasmi.
Il libro tornato al suo posto e la cassettina vuota.
Uno sguardo soddisfatto e un ghigno.
Chi doveva trovare aveva già trovato.
La partita era cominciata.
IL FATTO
Pioveva.
In apparenza era solo una normale banalissima giornata autunnale all’Istituto di Anatomia Patologica di via Santena, facoltà di Medicina, Università di Torino.
Al piano terreno i soliti gruppetti di studenti annoiati erano fermi a cianciare davanti alle macchinette del caffè aspettando l’arrivo del docente mentre i più audaci stavano rintanati nei bagni a fumare a dispetto dell’implacabile custode Vittorina.
A dire il vero, quel giorno la custode se ne stava stranamente rintanata nella guardiola a fissare nervosamente l’orologio del corridoio ogni cinque minuti, incurante del chiasso della piccola folla e dei bicchierini di plastica accartocciati gettati fuori dal bidone apposito, cosa che in genere era in grado di generare alte grida da tragedia greca.
In un’aula semibuia giovani medici della scuola di specialità in Anatomia Patologica assistevano ad una lezione cullati come sempre dalla monotonia dell’argomento e dalla voce nasale del Professore, mentre diapositive e lucidi si alternavano senza tregua sullo schermo luminoso.
Ma quel giorno l’atmosfera non era sonnolenta come sempre, visto che i lucidi scorrevano in modo ancor più convulso e caotico del solito e i giovani medici davano segni evidenti di nervosismo.
Ai piani superiori dell’edificio i vetrini dei preparati istologici scorrevano muti sotto gli oculari dei microscopi, cercando di ispirare menti annebbiate dalla stanchezza postprandiale e dal rumore ritmico della pioggia battente.
Troppi occhi si alzavano di quando in quando a fissare l’orologio alla parete.
Nessuno parlava.
Nel silenzio una voce in corridoio lanciò con tono incerto la proposta di un caffè, proposta che in genere era accolta con entusiasmo seguita subito dal rumore di sedie spostate e mani che frugavano nelle tasche alla ricerca delle monete. Quel giorno nessuno si mosse, bisognava finire in fretta, non c’era tempo nemmeno per il caffè.
Nei laboratori i tecnici stavano ultimando come sempre la consegna dei preparati istologici, pregustando il momento di andarsene a casa, dopo una giornata trascorsa tra formalina e microtomi.
Ma quel giorno il silenzio era opprimente e nessuno sembrava avere argomenti di nessun tipo. Un giovane tecnico azzardò una battuta sulla consueta minigonna conturbante di un’allieva del diploma di laurea, ma la battuta cadde nel vuoto e nemmeno un tal tecnico famoso per il suo elevato dosaggio testosteronico sembrò interessato all’argomento.
Microscopi, caffè, vassoi di vetrini, voglia di timbrare e andare all’autobus: forse visto con occhio distratto poteva sembrare un qualunque pomeriggio di novembre uguale a mille altri. Ma non lo era. Impalpabile serpeggiava una sottile ansia che sembrava aumentare col passare delle ore.
Nel silenzio, la pesante pendola della Biblioteca annunciò le due pomeridiane con la consueta flemma.
Il corridoio sembrò fare da sinistro eco.
Alcuni medici che stavano lavorando al microscopio nel grande studio a fianco della Biblioteca distolsero immediatamente lo sguardo dall’oculare e guardarono di soppiatto l’orologio.
Nessun dubbio, proprio le due.
Era quasi ora.
Anche i tecnici nei laboratori smisero per un attimo di etichettare i vetrini già montati e di sistemarli come ogni giorno in ordine nei vassoi. Una rapida occhiata agli orologi e un fuggevole sguardo d’intesa.
Era quasi ora.
Nella sala di campionamento dei reperti operatori un medico si sporse oltre la cappa aspirante e guardò l’orologio. Senza aggiungere parola si voltò verso il carrello su cui erano impilati i barattoli contenenti il materiale arrivato dalle sale operatorie.
Sempre in silenzio li aprì uno per uno, guardando tratti di intestino maleodorante e pezzi di polmone galleggianti in formalina con l’indifferenza dettata dall’abitudine. Poi rimase per un attimo incerto sul da farsi, tossicchiò, guardò ripetutamente l’orologio al muro come se cercasse ispirazione ed infine, nervosamente, spostò i contenitori alla sinistra della cappa aspirante sotto una cartellina in plastica fissata al muro con dello scotch. Dentro la cartellina un foglio con la scritta x domani
.
Il tecnico che stava a fianco del medico vide tutta la manovra, guardò a sua volta l’orologio e sembrò rasserenarsi. La tensione per un attimo si allentò e il tecnico azzardò persino un commento sull’esito della partita della Juventus del giorno prima. Ma il medico, pure accanito tifoso, non sembrò aver voglia di ribattere.
Doveva sbrigarsi.
Era quasi ora.
Nello stesso momento nella sala settoria del primo piano era in corso un’autopsia sotto gli sguardi degli studenti del corso di Medicina.
In genere era un’esperienza che lasciava una profonda impressione nelle giovani menti dei ragazzi da poco avvicinati al mondo dell’Anatomia Patologica.
La vista di un corpo fino a poco prima vivo in grado di pensare, respirare e provare emozioni e, in un solo fatale attimo, divenuto fredda ed immobile materia di studio era uno spettacolo sconvolgente, spesso per molti insopportabile nel momento in cui la lama del patologo affondava nelle carni.
Non di rado alcuni studenti lasciavano di fretta la sala settoria e non pochi venivano soccorsi svenuti nel corridoio dalla buona Vittorina che si prodigava nel somministrare subito un buon caffè accompagnato da goffe parole di conforto sulla caducità dell’esistenza umana.
Per chi riusciva a resistere alla visione del sangue e al pungente odore di morte, la ricompensa era però certa.
Poco alla volta, l’abile mano del settore riusciva a dare un senso a quell’atto che a prima vista poteva essere dettato solo da inutile crudeltà scientifica.
Organi malati svelavano, via via, il loro segreto e le cause che avevano portato il malcapitato sul freddo tavolo di marmo venivano rivelate davanti agli occhi di tutti.
Ecco chiaro il significato dell’autopsia, quel io vedo
che rende meno oscuro il mistero della morte e, sebbene mai accettato o accettabile, le dà un senso per la conoscenza di quelle malattie che un giorno si spera di sconfiggere per sempre.
Ma quel giorno di novembre nulla di tutto questo stava avvenendo tra le mura della sala settoria.
Gli specializzandi un po’ impacciati erano alle prese con coltelli, forbici e aderenze polmonari, mentre il Professore li osservava stranamente silenzioso e distratto.
Gli studenti non riuscivano a prendere appunti, mentre si sporgevano dagli scomodi scanni di legno dell’artistico anfiteatro anatomico.
Il Professore camminava nervosamente avanti ed indietro, si fermava ogni tanto tamburellando le dita sui primi banchi, come di norma accuratamente vuoti, visto che gli studenti evitavano se possibile l’emozione della prima fila. Ad un tratto si avvide che tutti gli sguardi erano puntati su di lui in un silenzio carico di attesa.
Lo specializzando gli indicò con un cenno del guanto insanguinato che l’eviscerazione del cadavere era stata completata.
Il Professore alzò lo sguardo verso l’orologio alla parete e apparve sollevato. Si mise un paio di guanti in lattice e prese un lungo paio di pinze anatomiche dal vassoio con i ferri autoptici.
Embolia
sentenziò sbrigativo estraendo dei coaguli rossastri dai vasi del polmone che era stato posto nel vassoio d’acciaio davanti a lui.
Togliendosi i guanti fece intendere che l’autopsia era conclusa. Il giovane specializzando, sollevato, si accinse a ricomporre la povera salma. Ignorando gli sguardi costernati dei suoi studenti che di quella lezione sbrigativa e muta non avevano capito proprio nulla, il Professore alzò nuovamente gli occhi verso il vecchio orologio a muro.
Espressione palesemente soddisfatta.
Le due in punto.
Ottimo, era in perfetto orario, ma doveva sbrigarsi.
Sentendo battere le due la bibliotecaria Ornella smise di scrivere al computer lasciando una frase a metà e si alzò di scatto dalla sua scrivania.
Era una donna di quell’età che in genere diplomaticamente si definisce matura, dalla lunga chioma tinta di un biondo svedese decisamente démodé e permanentata con ricci così innaturali da far pensare che volesse emulare un divo del rock o in alternativa che avesse messo le dita nella presa elettrica.
Il volto era incorniciato da un paio di occhiali in celluloide nera dalla montatura pesante pseudointellettuale che lei aggiustava vezzosamente di continuo sul naso come se il gesto le conferisse importanza.
Non diversamente da ogni altro giorno era vestita in modo decisamente discutibile e sicuramente non idoneo al suo ruolo.
In particolare quel pomeriggio di pioggia novembrina indossava una sorta di casacca da kimono in ciniglia verde smeraldo, annodata così mollemente da far intenzionalmente intravedere ad ogni movimento il sottostante body di pizzo color giallo girasole acquistato per corrispondenza.
L’inquietante insieme sovrastava un paio di jeans attillatissimi infilati a forza in lucidi stivali pitonati color rosso fuoco con tacchi a spillo in metallo dorato.
Un marcato tratto di rossetto di tonalità Tropical Passion
associato all’inconfondibile zaffata di profumo zenzero e orchidea, ovviamente selvaggia, completavano il quadro.
Seppure molto lontana dai canoni del Dolce Stil Novo, non sarebbe stata comunque, tutto sommato, uno sgradevole esemplare femminile se non fosse stato per il suo tremendo carattere. Inacidita dagli anni che passavano nella frustrazione della costante ed infruttuosa caccia al maschio, era in grado di trasformarsi da creatura mielosamente insopportabile, soprattutto nei confronti di ogni cromosoma Y ritenuto appetibile, a intransigente Kapò, capace di mettere in soggezione qualunque interlocutore, dal Professore implacabile alla giovane matricola inesperta.
All’interno delle mura della Biblioteca nulla sfuggiva al suo controllo e ogni trasgressione era severamente punita senza sconti di pena.
Da qualche anno nuovi nemici si erano aggiunti alla sua lista, che tradizionalmente comprendeva fotocopie abusive di libri di testo, libretti universitari male impilati per le firme dei docenti e schiamazzi di studenti: nulla a confronto degli aborriti trilli di cellulari e delle furtive consultazioni di pagine Internet non coerenti con l’attività didattica.
Altro che la buona signora Angela, la vecchia bibliotecaria, ormai in pensione dopo una vita intera passata tra le mura dell’Istituto, donna zelante fino all’inverosimile, beneducata ed ossequiosa senza mai perdere la dignità, che era stata per anni la vera anima della Biblioteca.
Quando una bella, anzi, pessima mattina al posto della discreta signora dall’aspetto da direttrice di un collegio femminile degli anni Cinquanta era comparsa la discinta Ornella tutti avevano in primo luogo pensato ad un’iniziativa personale di quel tale Professore ben noto per i suoi criteri anatomici nella scelta delle collaboratrici. Il Professore in questione aveva negato ogni responsabilità, ma le voci malevole non si erano spente, incentivate dalle allusioni fin troppo esplicite della poco diplomatica signorina che faceva ampiamente sfoggio di aver occupato quel posto in virtù della sua amicizia con una persona di riguardo. Sul momento la cosa era risultata italicamente molto risibile. A distanza di anni nessuno ci trovava nulla da divertente.
In molti si auguravano che in Biblioteca comparisse presto un Principe Azzurro tanto coraggioso da portarsi via Ornella salvo poi essere sicuri che il principe suddetto l’avrebbe riportata preferendo scapparsene con la strega cattiva.
In alternativa si sperava che esistesse sul serio il tanto temuto mostro del sotterraneo, anche se si supponeva che in caso di scontro diretto in campo aperto anche il mostro del sotterraneo avrebbe gettato la spugna, preferendo Van Helsing alla bionda Ornella.
Quel giorno di novembre, però, anche la disinvolta bibliotecaria sembrava agitata da pensieri spiacevoli.
Guardò di nuovo l’orologio, si passò nervosamente una mano tra i capelli, si aggiustò gli occhiali sul naso e riprese a battere al computer. Ancora l’orologio e poi il calendario, sospirò e cercò di scacciare l’inquietudine concentrandosi su un fermacarte a forma di barchetta a remi con la scritta Saluti da Bordighera
, l’unico ricordo della signora Angela.
Chissà cosa avrebbe pensato di tutto ciò, si disse Ornella, certo lei non si sarebbe lasciata intimorire, era così compassata e seria, io invece sono qui da sola, senza nemmeno un uomo accanto potrebbe succedermi qualcosa di brutto, se solo ci fosse un uomo a difendermi, un uomo, insomma.
Era così immersa nei suoi pensieri da non accorgersi nemmeno che era entrato uno studente. Bastarono pochi istanti a riportarla alla realtà.
Uno studente. Maschio.
Lo squadrò da capo a piedi, le scarpe da ginnastica alte da basket, una felpa stinta e sformata, uno zainetto con scritte inneggianti a un coffee shop di Amsterdam e un conclusivo Jim lives in our souls a pennarello e chissà perché in caratteri gotici sopra un adesivo mezzo staccato del tenebroso leader dei Doors.
No, decisamente troppo giovane, pensò lei scuotendo la testa desolata, peccato, era pure carino, ma quel che è troppo è troppo.
Lui non le badò più di tanto e si limitò a scartabellare rumorosamente tra i fogli di elenchi di iscrizione all’esame. Allo scrasc scrasc dei fogli si unì presto lo stridio di una sedia trascinata su cui salì per meglio vedere gli elenchi appesi in alto.
E che ca…
esclamò infine vedendo che avevano spostato l’appello.
…volo
mormorò poi subito incenerito dallo sguardo di Ornella.
Il ragazzo biascicò ancora qualcosa a mezza voce e concluse goffamente con un imbarazzato scusi
.
Lei accettò compostamente le scuse con un misurato cenno del capo