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La bambola del Cisternino: Un'indagine del commissario Botteghi
La bambola del Cisternino: Un'indagine del commissario Botteghi
La bambola del Cisternino: Un'indagine del commissario Botteghi
Ebook325 pages4 hours

La bambola del Cisternino: Un'indagine del commissario Botteghi

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About this ebook

Livorno. L’omicidio di una vecchia prostituta nei pressi del Cisternino risveglia nel commissario Botteghi ricordi sepolti dell’infanzia, tanto da divenire quasi una questione personale. Frustrato per gli scarsi risultati, non molla l’indagine neppure quando il Questore gli impone un caso più risonante. Un imprenditore edile, autore di importanti restauri storici della città, è stato trovato morto nel parco di Villa Corridi. Tra regolamenti di conti, inseguimenti nei sotterranei della città, un misterioso killer e un vecchio traffico di droga, le due indagini finiranno per intrecciarsi tra loro in un sottile gioco di parti, così inaspettato da mettere a dura prova le capacità investigative di Botteghi. Riuscirà il commissario a scoprire l’incredibile verità nascosta all’ombra dell’antico acquedotto Leopoldino? Un malinconico viaggio attraverso storie di vita cui non è concessa redenzione, cullato dalla melodia di una famosa canzone degli anni ’60.
LanguageItaliano
Release dateJun 25, 2017
ISBN9788869432101
La bambola del Cisternino: Un'indagine del commissario Botteghi

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    La bambola del Cisternino - Diego Collaveri

    Pochi giorni prima...

    Il grigio dell’asfalto dei marciapiedi divenne all’improvviso secca erba alta lungo la strada. L’eco della sirena, non trovando edifici su cui rimbalzare, smise di concentrarsi su di noi per perdersi lungo i campi.

    Non appena il cavalcavia dopo la rotatoria fu alle spalle, ci ritrovammo come sputati fuori dalla città, immersi in un mondo totalmente diverso.

    La campagna ci circondava sorniona, correndo fuori dai finestrini dell’auto. Per un attimo sembrò persino fare caldo, come se ci fossimo liberati dell’umido cittadino.

    Passai un dito lungo il colletto per allentare la morsa della camicia; quanto odio indossarla in quei periodi in cui la stagione non è definita.

    Tesi l’orecchio, isolandolo dallo strillo acuto che proveniva dal tetto della volante, alla ricerca di quei suoni rurali che da sempre mi riportavano all’infanzia.

    Sono nato e cresciuto nella periferia Sud di Livorno, in un quartiere che al tempo era alla stregua di una terra di frontiera.

    Anche se oggi viene considerata periferia di lusso, la zona di Collinaia a quei tempi non aveva certo il valore immobiliare di adesso. Quei dieci minuti che la separano dal cuore pulsante della città, per cui ai nostri giorni la gente ucciderebbe, assumevano un significato diverso in quegli anni, quando i mezzi di trasporto pubblici erano praticamente inesistenti e una famiglia poteva a stento permettersi un’automobile. Aree simili erano considerate non solo scomode, ma anche retrograde e contadine.

    Alla fine però il tempo cambia le cose e i difetti possono mutare in pregi.

    Per un ragazzo scorrazzare libero nei campi, lontano dai problemi e dai pericoli della città, significava solo una cosa: libertà. Una parola scontata negli anni giovanili, abbagliati dalla vita, ma che poi, quando crescendo inesorabilmente il tempo ci scivola via dalle mani al soldo della frenesia quotidiana, rimpiangiamo rendendoci conto di non esserci nemmeno accorti del momento in cui l’abbiamo persa.

    La strada correva via incuneandosi tra i campi.

    Busdraghi, uno dei miei agenti, guidava sicuro e stranamente silenzioso. I pochi raggi di sole si riflettevano sui suoi costosi occhiali. Le lenti scure però non bastavano a nascondere le tracce del sonno che gli pesava sugli occhi. Livorno è una città che, se conosciuta, può offrire molto a chi vuol vivere, anche se poi svegliarsi presto è il pesante prezzo da pagare alla movida notturna.

    «Sembra quasi caldo questa mattina» dissi per rompere il silenzio.

    Panzer, così lo chiamavo scherzosamente, mugugnò qualcosa di incomprensibile. Quel soprannome glielo avevo affibbiato un po’ per la mancanza di delicatezza nei modi, ma soprattutto per via di quegli addominali che proprio non volevano venirgli nonostante tutte le ore che buttava via in palestra.

    «Oh, ma sei sveglio o dormi?» lo punzecchiai.

    «Scusi, commissario» borbottò con la bocca ancora impastata. «È che ieri sera mia moglie continuava a dire che ci stiamo rincoglionendo, che non usciamo mai. Lo sa come son le donne: quando c’è la partita o qualcosa di ganzo alla televisione, te lo devono fa anda’ di traverso. Quindi picchia e mena m’ha portato a vedere degli amici che suonavano in un pub. Ora, io gli voglio tanto bene, ci si conosce da una vita, ma se cominci a suonare alle dieci e mezzo di sera, io che mi son alzato alle sei, ma come faccio ad arriva’ all’una di notte? E chi s’alza la mattina dopo sempre alle sei per portar fuori il cane? Tanto il negozio dove lavora lei apre alle dieci e quindi può dormire fino alle nove».

    «Eh, son drammi» lo canzonai.

    «Sì, sì; prenda, prenda per il culo. Tanto a lei che le frega? Schiocca le dita e io devo correre» tirò la sua stoccata.

    Risi. Busdraghi sapeva sempre mettermi di buon umore con la sua schietta semplicità.

    Nonostante la telefonata di Mantovan, l’altro agente della squadra, mi avesse letteralmente buttato giù dal letto quella mattina, avevo una strana sensazione positiva. Inimmaginabile, visto che la notte rappresentava ormai per me un inferno: il momento in cui i fantasmi, che mi tormentavano da anni, giocavano con quel che rimaneva dell’anima facendone scempio. Sentirmi su poteva significare l’ultima speranza di sfuggire alla spirale di autodistruzione che mi stava consumando, oppure essere solo il sintomo dell’assuefazione all’alcol e al fardello che mi stavano lentamente uccidendo.

    Non essendo avvezzo all’ottimismo, mentre rimuginavo su tutto questo, d’un tratto il sentore che ciò poteva essere solo il preludio di una possibile giornata di merda mi restituì immediatamente il solito, burbero, umore. Che in effetti poi era anche più indicato, visto che ci stavamo recando sulla scena di un delitto.

    «Manca tanto?» domandai cominciando a sentirmi nervoso per l’astinenza da nicotina.

    «Dovremmo esserci» rispose l’agente. «Mantovan ha detto che era sul bordo di questa strada».

    «E che cazzo, allora mi avvantaggio» dissi infilandomi una sigaretta in bocca per accenderla subito dopo.

    Busdraghi tossì.

    «Da noia?» chiesi.

    «Eh, come se non lo sapesse che preferirei non fumasse in auto» replicò.

    «Ma se ci sono i finestrini aperti!» sbottai.

    «Oh allora, mi dà noia uguale e fa freddo» tossì di nuovo.

    «Oh non s’era detto che era caldo? Dai, su: allora facciamo finta che mi dispiace» risposi sarcastico, continuando beatamente a fumare.

    Subito dopo una curva, appena passato un cantiere stradale, venimmo all’improvviso abbagliati dai riflessi dei lampeggianti.

    Busdraghi rallentò, prima di accostare nei pressi di uno spiazzo, da cui si potevano ammirare più avanti alcuni archi dell’acquedotto Leopoldino, immerso completamente nel verde.

    Scesi dall’auto e mi stiracchiai, concedendomi anche una poco elegante grattata alle terga, come avessimo viaggiato per chilometri.

    Mi gustai le ultime boccate, respirandole a pieni polmoni, prima di spegnere la sigaretta. Aguzzai le orecchie cercando di restare ancorato a quei suoni rurali che tanto adoravo, quasi infastidito dalla confusione degli agenti che svolgevano il proprio lavoro.

    Lasciai andare per un attimo lo sguardo lungo l’orizzonte dei campi, dall’altra parte della strada, cercando con gli occhi quel me ragazzino che correva libero con la vita pronta a splendergli davanti. La malinconia di quel momento fu subito spazzata via dal tanfo di stallatico prodotto da un maneggio poco più a valle. Il maleodorante ritorno alla realtà mi portò alla considerazione che la vita in fondo è quel misto di sogni e merda a cui alla fine bisogna assuefarsi, in quanto l’uno non esiste se non in funzione dell’altro.

    La mia attenzione si concentrò su di un camperino scalcinato parcheggiato nella piazzola, dove c’era un gran viavai di poliziotti.

    Mantovan, l’altro mio agente, si avvicinò non appena mi riconobbe.

    «Buongiorno, commissario» mi salutò sfilandosi meticolosamente i guanti in lattice indossati per non inquinare le prove. «Scusi ancora per averla svegliata».

    «Tranquillo ragazzo, ormai c’ho fatto il callo. E poi mandare qualcuno in culo di prima mattina è un bellissimo modo per cominciare la giornata» scherzai. «Dai, su; cosa abbiamo?»

    Mantovan mi fece cenno di seguirlo verso il camper. «Prostituta, sessantadue anni. Qualcuno l’ha... »

    «Come prostituta di sessantadue anni?» mi bloccai guardandolo disgustato.

    L’agente si strinse nelle spalle. «Che le devo dire?»

    «Che mi devi dire... Aibò, mi devi dire» non riuscii a trattenermi, riprendendo a camminare.

    «Sembra che ormai facesse parte del panorama. Erano anni che batteva qui» riprese.

    «Anni... Secoli direi» ci tirai il carico. «Continua, va».

    «Non abbiamo trovato documenti personali, ma siamo risaliti all’identità da quelli del camper: Lucia Biagini, residente a Livorno. Alla buoncostume hanno un faldone che la riguarda» mi ragguagliò. «In ogni caso c’è anche un testimone che ne ha confermato l’identità».

    «Un cliente?»

    «Pare di no. Stamattina all’alba Marcello Doriani, proprietario del terreno qui davanti, arrivando ha notato il camper con la porta aperta. Gli è sembrato strano che non ci fosse nessuno, visto che, a quanto ha raccontato, la Biagini era solita starsene fuori su di una sedia» riassunse.

    «Eh, con la mercanzia ben in mostra» sghignazzai.

    «Così si è avvicinato al mezzo, l’ha chiamata, ma nessuno ha risposto» aggiunse. «Quando ha dato una sbirciatina dentro, come ha detto lui, ha visto la donna stesa sul pavimento e ha chiamato polizia e ambulanza, in quest’ordine, ho controllato le telefonate».

    Mi fermai di nuovo, proprio vicino al camper.

    «Strano, non trovi?» provai a stuzzicare il suo spiccato sesto senso.

    «Sì, l’ho pensato anch’io» capì subito dove volevo andare a parare. «Il fatto di chiamare prima la polizia e poi l’ambulanza non è una cosa istintiva, fa presupporre che sapesse fosse morta».

    «Infatti» dissi compiaciuto delle capacità intuitive del ragazzo. «Potrebbe anche esser vero che non fosse cliente, ma magari non era la prima volta che dava una sbirciatina, cosa che tra l’altro mi fa anche parecchio ribrezzo. In ogni caso qualche informazione in più mi sa che gliela possiamo cavare».

    «Immaginavo, per questo ho trovato il modo di trattenerlo» mi sorrise.

    Avevo molta stima dei miei due agenti, ma tra loro Mantovan era senza dubbio quello con l’intuito investigativo più spiccato. Il suo forte spirito di osservazione, unito a una ferrea capacità analitica, ne avrebbe fatto un giorno un bravissimo investigatore. Per alcune cose mi ricordava molto me da giovane, se non fosse stato per quell’accento del nord, che a Livorno gli avrebbe sempre valso l’appellativo di quello che viene da fuori, e il morboso attaccamento ai regolamenti che ci poneva esattamente agli antipodi. Ecco perché l’avevo soprannominato il ragazzo.

    Mi voltai a cercare con lo sguardo Busdraghi e lo trovai che chiacchierava con dei colleghi.

    Fischiai per richiamare la sua attenzione e lui corse subito come un cane.

    «Chiama la centrale, fatti mandare il fascicolo su questa Lucia Biagini, poi fatti passare la buoncostume e fatti raccontare tutto su di lei» ordinai.

    «Volo, commissario» rispose deciso.

    «La scientifica?» tornai da Mantovan.

    «Hanno quasi finito. Bertini è ancora dentro» mi disse.

    L’occasione di punzecchiare un po’ il mio vecchio amico mi dipinse un sorriso sulle labbra.

    «Tu torna da Doriani e comincia a interrogarlo mentre mi aspetti, ok?»

    «Agli ordini» rispose risoluto.

    Arrivato alla porta infilai la testa dentro al camper.

    Non era molto spazioso, anzi, parecchio claustrofobico. I colori kitsch di mille foulard disseminati ovunque mascheravano la trasandatezza degli interni, sicuramente dovuta alla poca cura e al tempo.

    Di spalle, chino sul corpo tanto da coprirmelo alla vista per i tre quarti, c’era Bertini, responsabile della scientifica. L’ometto calvo era talmente immerso nel suo meticoloso lavoro che si accorse di me solo quando parlai.

    «Un ultimo saluto alla tua amichetta, Giorgino?»

    Bertini si voltò fissandomi in cagnesco attraverso gli occhiali spessi.

    «Eccolo, così la giornata è completa» sbuffò alzando gli occhi al cielo.

    Spostandosi riuscii a vedere meglio il cadavere.

    «Mamma mia» esclamai sorpreso.

    La donna non solo era avanti con gli anni ma anche molto corpulenta. Il trucco pesante e i capelli vistosamente tinti di nero in malo modo, invece di alleggerirne l’età, sembravano sottolinearne ogni singola ruga.

    La bocca, leggermente aperta, mostrava i denti ingialliti dalla nicotina oltre che macchiati dall’abbondante rossetto. Gli occhi chiusi, truccati con una spessa riga di eyeliner e l’ombretto blu scuro con sfumature dorate. Qualche ciuffo, dei lunghi capelli raccolti in una crocchia, era sgusciato via per contornarle il viso in modo ribelle.

    Una strana sensazione si impossessò all’improvviso di me.

    Non l’avevo mai vista prima, eppure era un volto così familiare.

    Ammutolii, sgranando gli occhi.

    Bertini si accorse subito che c’era qualcosa di strano.

    «Mario, che succede?» si preoccupò. «Sembra tu abbia visto un fantasma».

    Non gli risposi, a malapena l’avevo sentito.

    Continuavo a guardare quel corpo.

    I vestiti dai colori sgargianti tentavano di mascherarne la rotondità. Le gambe, gonfie e grasse, s’infilavano poi in delle ciabattine etniche che pur non accostandosi al resto dell’abbigliamento alla fine non stonavano.

    «Mario!» mi svegliò Bertini scrollandomi una spalla per riportarmi al presente. «Ma cosa ti prende?»

    Avevo talmente tanta confusione in testa che non riuscii a rispondergli.

    «La conoscevi?» mi domandò.

    «No» rantolai con un filo di voce. «Ma c’è qualcosa... » Scrollai il capo tentando di tornare più lucido possibile. «Com’è morta?»

    Bertini mi guardò poco convinto. «Vedi i segni sul collo?» me li indicò tra le pieghe di grasso. «Strangolata».

    «A mani nude?»

    «No, con questo foulard» me lo mostrò all’interno di in un sacchetto di plastica trasparente.

    Cercai di scivolare nuovamente nella razionalità.

    «Quindi non è da escludere che sia stata una donna» aggiunsi.

    «Direi di no» si affrettò a confermare. «Chiunque può averla uccisa con questo».

    «Avanti, Giorgio» sbuffai infastidito. «Non mollarmi ora, eh».

    «Ma che pretendi?» s’infuocò l’ometto. «Mica ho la sfera di cristallo».

    «Avrai pure qualche idea, cazzo» la pressione della situazione cominciava a risultarmi davvero pesante.

    Bertini ci pensò un attimo. «Sai che il mio lavoro si basa esclusivamente su prove scientifiche. Le ipotesi sai trovartele bene già da solo».

    «Ok, dai: dimmi allora cosa dice la scienza e poi faccio io» lo esortai.

    Sospirò, prima di salire in cattedra. «Le fibre di questo foulard sono molto ruvide. Per esercitare la pressione necessaria a soffocare la vittima, visto il grosso collo che aveva, l’assassino deve aver tirato davvero con molta forza e per un bel po’, prima che sopraggiungesse la morte».

    «Dimmi la parte interessante».

    «La donna deve aver cercato di divincolarsi, quindi il tira e molla dovrebbe aver provocato delle piccole abrasioni alle mani dell’assassino» svelò. «Ferite superficiali, ma sufficienti a lasciare, nelle fibre del foulard nei punti in cui era impugnato, tracce biologiche».

    Mi si illuminò il viso. «Quindi hai il DNA dell’assassino?»

    Bertini mi fissò qualche secondo prima di rispondermi secco. «No, ho controllato. Le uniche tracce di residui sono al centro, cioè nella parte stretta intorno al collo della vittima. Devo ancora fare i test necessari, ma ci giocherei un braccio che appartengono a lei» concluse indicando il corpo privo di vita.

    Ci restai di sasso.

    «Mi prendi per il culo?» esclamai.

    L’ometto se la rise. «No, Mario; lungi da me. Te l’ho detto prima: io posso riferire solo cosa dicono le prove. Le deduzioni sei capacissimo a farle da solo».

    Restai qualche secondo a fissarlo. La mia mente cominciò a elaborare, come se nella testa gli ingranaggi avessero preso a muoversi a ritmo forsennato.

    «Se non ci sono residui biologici significa solo una cosa: aveva i guanti» affermai.

    «Bravo» si congratulò. «Non mi pare però che faccia abbastanza freddo, no?»

    «Era uno che non voleva lasciar tracce» sorrisi. «C’è premeditazione. Però che senso ha? A chi avrebbe potuto dar noia una così? Guardala, è al limite dell’indigenza e non credo facessero la fila qua fuori».

    «Mario, non so cosa dirti» si strinse nelle spalle.

    I miei occhi passarono di nuovo in rassegna il corpo.

    Quella strana sensazione s’impossessò ancora più di me. Mi sembrava esser di fronte a qualcosa di già visto. Poi all’improvviso sentii quel caro formicolio alla base del collo, sintomo che il sesto senso cercava di avvertirmi di stare attento.

    Mi guardai intorno.

    Infilai una mano in tasca e tirai fuori una sigaretta, che poi incastrai tra le labbra.

    «Non ti azzardare a...» tuonò Bertini, ma lo freddai subito.

    «Non rompere il cazzo, la tengo solo in bocca» sentenziai senza nemmeno guardarlo in faccia. «Cos’altro dice la scienza?»

    Sbuffò. «Qui dentro ci sono centinaia di impronte e fluidi diversi» ridacchiò.

    «Bleah» mi schifai tirando su il busto per non dovermi più puntellare con la mano sul pavimento, ricoperto da una sudicia moquette marroncina.

    «Appunto, direi che non è la strada da seguire» riprese. «In laboratorio scoprirò se il corpo può dirci qualcos’altro. Nel frattempo tieni conto che, a giudicare dall’angolazione dei segni lasciati sul collo, l’assassino dovrebbe essere alto quanto la vittima, circa un metro e settanta».

    «Statura standard sia per uomo che per donna, davvero un grande aiuto» aggiunsi sarcastico.

    «Mi spiace, per adesso non posso pronunciarmi su altro» si scusò. «Però ho tenuto il pezzo migliore per ultimo» s’illuminò nel viso. «Abbiamo rovistato il camper, anche se per adesso i miei uomini non hanno ancora inscatolato niente. Guarda in quell’armadio» me lo indicò col dito.

    Entrai dentro quel che bastava per aprire lo sportello. All’interno c’erano alcuni vestiti messi a casaccio.

    «Cosa dovrei notare?» mi incuriosii.

    «Guarda la taglia».

    «Quarantaquattro» lessi sull’etichetta.

    «Quella misura a lei entrava in una gamba» sogghignò indicando col pollice il cadavere di fianco.

    «Dai Giorgio, porta un po’ di rispetto» lo redarguii serio.

    Bertini sbiancò. «Ma sei sicuro di star bene? Sembra che abbiamo invertito i ruoli».

    Non gli risposi nemmeno.

    Passai velocemente in rassegna i vestiti all’interno, compresa la biancheria. Certo non erano proprio capi da signora.

    «Tutti della stessa taglia» conclusi. «Se non sono suoi, di chi sono e perché sono qui?»

    «Ah, non ne ho proprio idea» alzò le spalle. «Io posso solo controllare se i residui all’interno di quei vestiti sono della stessa persona e se ci sono corrispondenze con la vittima».

    La sensazione di disagio che stavo provando diventò insostenibile, dovevo uscire da lì.

    «Sì, ok. Muoviti però che voglio i risultati prima di ora» ordinai prima di schizzare fuori senza salutare, lasciando un Bertini incredulo con gli occhi sgranati.

    Non appena fui di nuovo all’aria aperta mi accesi finalmente quella maledetta sigaretta.

    La testa mi girava; respiravo a fatica, riempiendomi i polmoni di fumo che poi soffiavo verso l’alto socchiudendo gli occhi.

    Cercai di ritrovare un equilibrio.

    Ma che cazzo mi stava accadendo?

    Il volto di quella donna mi aveva scombussolato nel profondo, eppure ero sicuro, come mai nella mia vita, di non averla mai incontrata prima.

    Busdraghi si avvicinò preoccupato. «Commissario, sta bene? È bianco come un cencio».

    «Sì, cazzo; la smettete di ripetermelo tutti?» mi alterai. Non ce l’avevo con le sue premure, ma con quella strana sensazione che non riuscivo a decifrare.

    In tutto quel turbinio di emozioni solo una cosa però mi era ben chiara: il formicolio alla base del collo era quello di sempre e voleva sicuramente dire che c’era più di quanto sembrasse. «Dimmi cosa hai scoperto».

    «Non molto in realtà» rispose. «Ovviamente i colleghi la conoscevano bene. Esercitava il mestiere da una vita, ma a parte questo non è che nel suo passato ci fosse chissà cosa. L’ex marito era un piccolo spacciatore che le ha fatto da pappone quasi da sempre, poi un bel giorno è passato a una più giovane e più redditizia e se n’è andato spostando l’attività su Pisa, ma non gli è andata molto bene. Due anni fa è morto di tumore ai polmoni».

    «Tutto qui?»

    «Da quaggiù non posso certo far miracoli, commissario. Sicuramente gli incartamenti che ho richiesto ci diranno di più» si sorprese di vedermi così smanioso.

    Cercai di calmarmi, ma avevo evidentemente perso la bussola.

    «Dov’è il ragazzo?»

    «Laggiù, col testimone» mi indicò una volante.

    Mi resi conto che della sigaretta che stavo fumando era rimasto solo il filtro, che sputai quasi con disprezzo. Dovetti infilarmene un’altra in bocca e accenderla subito, nella speranza di lenire un po’ questo tormento.

    «Mentre noi ce lo lavoriamo, tu prendi e setaccia la zona. Vedi se trovi altre prostitute lungo la strada. Interrogale tutte, senti se conoscevano la vittima, se ieri sera hanno visto lei o qualcosa di inusuale, e soprattutto se era sola. Qualsiasi informazione può esserci utile, ok?» mi raccomandai.

    «Agli ordini, commissario» rispose serio, vedendomi molto coinvolto.

    Non appena Panzer si fu allontanato cercai di riprendere il controllo prima di affrontare l’interrogatorio.

    Avevo bisogno di tutte le mie facoltà e ancora non riuscivo a capire che cazzo mi stava accadendo.

    Chiusi gli occhi. Reclinai la testa indietro cercando di far scricchiolare il collo. Aspirai avidamente la sigaretta, sentendo bruciare la gola.

    Trattenni il respiro qualche secondo.

    La nicotina sembrò darmi un po’ di pace.

    Il buio di quell’astrarmi faceva ondeggiare il mondo, ma poi pian piano, soffiando lentamente il fumo e riaprendo gli occhi, tutto tornò fermo e in equilibrio.

    Ero deciso più che mai a scoprire ciò che mi aveva così tanto sconvolto di quella donna. Qualcosa continuava a ronzarmi in testa, come una melodia lontana portata da un vento sottile.

    Scossi il capo. Avevo bisogno di risposte e forse il testimone mi avrebbe messo sulla strada giusta.

    Mi avvicinai a grandi passi a Mantovan che stava parlando con questo Doriani.

    «È lui che l’ha trovata?» interruppi facendo valere il mio grado.

    «Sì, commissario» rispose solerte l’agente.

    L’uomo sembrava molto in ansia. Avrà avuto all’incirca l’età della vittima e mi trasmise l’idea di una persona viscida, non tanto per il sudore che gli rigava il volto fino a inzuppare il colletto della polo consumata che indossava, ma per quegli occhietti vispi da serpe che saettavano su di una faccia fin troppo ordinaria. Un paio di baffoni scuri, imbiancati dall’età, e una profonda stempiatura lo facevano apparire simile a un attore di certi film italiani anni ’70.

    «Marcello Doriani, commissario» si presentò da solo. «Ho già detto tutto al collega, non è che potrei andarmene?»

    Sospirai, cercando d’inventarmi qualcosa; poi ebbi un’idea.

    «Mantovan, potresti andare a prendermi un caffè?»

    L’agente mi guardò sorpreso, ma non mi contraddisse, reggendo il gioco allontanandosi.

    «Scusi, eh» mi feci più vicino all’uomo con fare amichevole. «Guardi, cerco di rubarle meno tempo possibile, però preferirei che mi dicesse tutto di nuovo. Lo sa come sono questi giovani: meglio non fidarsi, no?»

    L’ometto annuì, come se avessi detto una verità innegabile.

    «Dunque: lei conosceva la signora Biagini?» la presi larga.

    «No, conoscerla no; la vedevo sempre col camper» si mise subito sulle difensive.

    «Sì, vabbè; ci avrà scambiato due parole visto che passava sempre di qua, no?» provai a instaurare un rapporto di complicità. «Anche solo per educazione».

    «Sì, beh, quello sì» si agitò.

    «Poi ognuno ha i suoi gusti personali, no?» gli misi una mano sulla spalla strizzandogli l’occhio.

    «No, ma commissario non vorrei... » cercò di ribadire la sua estraneità.

    «Doriani, via; non ha da aggiungere nulla. Son uomo anch’io» lo rassicurai. «Quindi, non vedendo la donna e notando la porta aperta del camper, è entrato per vedere se era tutto a posto» ci provai.

    «No, no, no» s’infervorò. «Io lì dentro non ci son mai entrato, mi son solo affacciato. È così che ho visto che era morta».

    «Che occhio» lo punzecchiai.

    «Che cosa vorrebbe dire?»

    «Che ci vuole un bell’occhio per rendersi conto dalla porta che ormai non restava più niente da fare se non chiamare polizia e ambulanza» smisi di essere amichevole per affondare la lama. «Magari avrebbe potuto verificare prima se la donna aveva bisogno di aiuto. Sa che l’omissione di soccorso è un reato penale?»

    L’uomo sbiancò, rendendosi conto di esser prigioniero delle sue stesse bugie.

    «Forse... » borbottò «Forse non ricordo bene e sono entrato per vedere meglio».

    Gli lanciai un’occhiata di quelle che trafiggono, era il momento di giocare sporco. «Scommetto anche che non era la prima volta che ci entrava. Chissà cosa direbbe sua moglie, Doriani, o le persone che lavorano con lei, se uscisse fuori un suo coinvolgimento con quella donna».

    «No, la prego commissario» mi scongiurò, mostrando il fianco.

    «Allora sputi la verità e non mi faccia perdere

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