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La pietra dei Fieschi
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La pietra dei Fieschi

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Un noir su tre livelli temporali che trasporta magicamente il lettore, accanto a un’inedita coppia di detective, tra le stanze di un castello medioevale, i carruggi di Genova, i boschi dell’Appennino fino alla Terra del Fuoco Il libro: Da Francoforte a Milano, dall’Appennino ligure a Buenos Aires: un geometra disincantato ed un professore di storia si trovano involontariamente coinvolti, nell’insolito ruolo di investigatori improvvisati, in un groviglio di storia e sottile ironia tra la fine del 1400 ed i giorni nostri. Un intreccio di molte storie coinvolgenti la famiglia Fieschi, gli intrighi di un vecchio tedesco e gli arditi progetti di un famoso architetto milanese che una pietra ha saputo nascondere per cinquecento anni anche dagli esperimenti esoterici di qualche membro della nobile famiglia e dalle oscure ombre del secondo conflitto mondiale.
LanguageItaliano
Release dateJan 6, 2014
ISBN9788875639501
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    Book preview

    La pietra dei Fieschi - Marco Fezzardi

    Nota dell’autore

    Ciò che determina la scrittura di un romanzo è, fondamentalmente, il desiderio di costruire una storia e raccontarla; ciò che, a sua volta, innesca tale desiderio, confesso, lo ignoro.

    In quanto tale, cioè storia inventata e raccontata, tutti i riferimenti a luoghi, nomi, persone e fatti contenuti in questo romanzo sono esclusivamente frutto di fantasia e non contengono alcuna relazione con la realtà.

    Anche l’aggancio con un fatto storico realmente accaduto e con una nobile famiglia, i Fieschi, davvero esistita, è talmente mescolato alla fantasia da non riuscire nemmeno più a capire dove finisca la realtà dei fatti e l’invenzione narrativa: anche se alcuni personaggi storici hanno conservato il loro nome, i tratti caratteriali, gli interessi ed i comportamenti che ho attribuito loro sono un esclusivo prodotto della mia immaginazione.

    Identiche considerazioni vanno fatte anche per l’epilogo del romanzo che, benché agganciato ad un fatto storico, l’assedio del castello e la sua distruzione, non ha riferimento alcuno con la realtà storica dei fatti: in altre parole, che a nessuno venga in mente di scavare sotto le macerie.

    Ringraziamenti

    Questo romanzo è stato scritto a tre mani: oltre le mie due, la terza appartiene ad Anna Gastaldi che impegni quotidiani più pressanti hanno sottratto nella prosecuzione del racconto dopo avervi preso parte con intensità nel suo inizio.

    Molto di suo, tuttavia, è rimasto nella figura di Hermann Schattner e praticamente tutto in quella di Teresa.

    Molto devo anche a mia moglie Giovanna, addirittura alcuni passaggi fondamentali della storia, soprattutto nelle fasi conclusive.

    A Remo Bodrato sono debitore per la parte mineralogica, quella relativa al cinabro, all’antimonio ed al titanio.

    Sergio Rossi mi ha sapientemente guidato nel castello e nella vita quotidiana di allora; egli è anche l’autore di Qualche documento e un racconto sull’assedio del castello di Montoggio del 1547 – Centro Culturale Peppo Dachà, Montoggio 2002 e di Cucina di guerra nell’assedio di Montoggio del 1547 – Centro Culturale Peppo Dachà, Montoggio 2005: interamente sue sono le descrizioni dei piatti e delle ricette servite alla ricca mensa dei Fieschi.

    Per chi volesse approfondire la conoscenza del castello può leggere Il castello di Montoggio, vita quotidiana in un castello ligure tra XV e XVI secolo, di Daniele Calcagno, – Centro Culturale Peppo Dachà e Comune di Montoggio, Montoggio 1999, che qua e là ho saccheggiato.

    Un altro grazie va ad Elena Manara, grande conoscitrice, anche a livello dei pettegolezzi, della storia di Genova e delle sue famiglie: senza i suoi suggerimenti avrei avuto non pochi problemi negli intrecci generazionali che avete trovato nel romanzo.

    Un ringraziamento un po’ particolare, che ha anche il valore delle scuse, va all’amico Jenz Schattner, tedesco di Tubinga residente a Francoforte, a cui ho scippato il cognome che ho attribuito ad uno dei protagonisti del racconto.

    Ringrazio anche il geometra Ivan Amadei che non poche nozioni tecniche mi ha gentilmente regalato, Mimmo Scidone che mi ha guidato a Buenos Aires e in Argentina e Stefano Chiarolini che ha preso parte alla gestazione di questo romanzo.

    Se mi sono scordato di qualcuno che, magari con poche ma significative parole mi ha aiutato in qualche passaggio, desidererei potesse accettare le mie scuse.

    1

    Francoforte, giugno 2003

    Hermann Schattner si lasciava trasportare dal tapis roulant verso l’uscita dell’aeroporto di Francoforte e tamburellava con le dita nervose sul passamano di gomma nera.

    Pensieroso e un po’ irritato si interrogava sulla ragione per la quale aveva nuovamente accettato di partecipare ad una conferenza organizzata dalla B.D.I., Bundesverband Deutscher Industrie, l’associazione degli industriali tedeschi.

    Quella mattina si sentiva stanco: si era alzato molto presto, aveva dovuto sopportare una lunga attesa in aeroporto a causa di un ritardo del suo volo e, adesso che era giunto a destinazione, lo aspettava una giornata impegnativa.

    Quel giorno i suoi ottant’anni gli pesavano davvero. E non ne era felice.

    Rifletteva spesso, in simili occasioni di perdita di tempo negli aeroporti, sulla sua incapacità a rinunciare agli impegni, a diradarli, a delegarne una parte ai suoi collaboratori.

    Riflessioni, tuttavia, che si scontravano con la sua radicata convinzione circa l’impossibilità di trasferire parti importanti della gestione della sua azienda al suo management.

    Benché da sempre egli applicasse la regola della scelta personale dei quadri e dei dirigenti, nulla riusciva ad eliminare la certezza di essersi circondato da un manipolo di inconcludenti parolai.

    Pensando a loro non riuscì a reprimere un gesto di stizza: piccoli uomini costantemente impegnati a redigere relazioni corredate da grafici e dati statistici incomprensibili; pronti a scannarsi reciprocamente combattendo le loro battaglie a colpi di e-mail, ostentando la loro eloquenza.

    Manager presuntuosi che Hermann Schattner definiva d’allevamento per sottolineare la loro preparazione teorica ma inadeguata, secondo il suo metro di valutazione, per penetrare nei gangli vitali dell’azienda. Inutili e sostanzialmente incapaci per la ricerca di soluzioni pratiche a necessità concrete.

    Lui, al contrario, era un uomo di fatti e di decisioni. Rapide ed efficaci.

    Il suo cervello correva veloce come quando aveva vent’ anni: l’avanzare della vecchiaia rafforzava in lui la convinzione di essere probabilmente insostituibile per la vita dell’azienda che aveva fondato e guidato per quasi cinquant’anni di faticosa ma brillante attività.

    Un ulteriore, fastidioso, pensiero si insinuò fra gli altri: suo figlio Wolfgang.

    Alto, biondo, solido ed affidabile, un bell’uomo e, tutto sommato, un buon erede ma che egli dubitava fosse in grado di continuare egregiamente l’opera del padre.

    Aveva anche il sospetto che il figlio gli nascondesse qualcosa di importante.

    Subiva la sgradevole sensazione di non essere del tutto al corrente di alcuni delicati conflitti all’interno dell’azienda che temeva il figlio gli occultasse, forse nel timore della sua reazione dura ed intransigente.

    Sì, certamente Wolfgang lo considerava un vecchio testardo che con l’avanzare dell’età consolidava la rigidità delle sue posizioni. Non lo reputava più un interlocutore alla pari e, probabilmente, indugiava a lungo prima di riportargli certi fatti.

    Questo non gli piaceva, ma forse Wolfgang aveva ragione.

    Hermann Schattner si rendeva conto di agire, a volte, in maniera irragionevolmente testarda e di insistere infinite volte sullo stesso punto: ma se ne accorgeva troppo tardi. Ogni volta si riproponeva di comportarsi con minore rigidità, ma alla successiva occasione ci ricascava.

    E allora i suoi proponimenti si ribaltavano e si arroccava con ancora maggiore solitudine e ferocia sulle sue convinzioni e sulle sue idee.

    In quelle occasioni, sempre più frequenti, purtroppo, l’espressione di suo figlio Wolfgang tradiva tutto il disappunto e la delusione derivante dal condurre con suo padre un dialogo impossibile.

    Hermann Schattner interruppe bruscamente le sue riflessioni.

    Era arrivato all’uscita dell’aeroporto e una folata di vento freddo l’aveva costretto a fermarsi e ad alzare il bavero del suo impermeabile beige.

    Si guardò intorno alla ricerca di un taxi e ne vide uno fermo ad una certa distanza.

    Si innervosì non riuscendo a distinguere se l’auto fosse già occupata. Si sistemò meglio gli occhiali sul naso, strizzò gli occhi fino a ridurli ad una fessura, ma non riuscì a mettere a fuoco l’immagine. Aveva sperimentato più volte che la sua vista andava peggiorando.

    Come al solito rifiutò di accettare un qualsiasi segno di debolezza fisica, scosse le spalle e si avvicinò con passi decisi al taxi.

    L’autista uscì dalla vettura ed aprì la portiera posteriore; Hermann Schattner si sistemò sul sedile, soddisfatto di trovarsi in un posto comodo e riscaldato. Comunicò al taxista l’indirizzo dell’Associazione e si rituffò nei suoi pensieri.

    Mentre il taxi si faceva strada a fatica nel traffico congestionato dell’ora di punta mattutina di Francoforte, i pensieri di Hermann Schattner, in uno stato di piacevole torpore, diventavano più leggeri; gli tornavano alla mente in maniera confusa i tanti volti del suo passato: immagini di persone che aveva incontrato nel corso degli anni e che avevano rappresentato un momento significativo della sua esistenza.

    Il colonnello Hill, per esempio.

    Se lo vide davanti, alto e dinoccolato, con gli occhialini rotondi a nascondere i piccoli occhi miopi, così irrequieto ed impacciato che non sapeva mai dove posare le sue grandi mani.

    Era un ufficiale americano, arrivato in Europa alla fine della guerra, quando i suoi compagni avevano già combattuto e tanti erano morti. Si aggirava per la caserma sempre a disagio e sembrava sentirsi ovunque fuori posto.

    Un gran corrotto, il colonnello Hill, ed era stato particolarmente facile convincerlo ad aiutarlo ad imbarcarsi sulla motonave Aurora diretta in Argentina. Davvero un gioco da ragazzi.

    Era bastato mostrargli un modesto gruzzolo d’oro e le sue labbra sottili si erano distese in un avido sorriso. Il sorriso del colonnello Hill... L’aveva poi re-incontrato a Stoccarda, un paio d’anni più tardi, e lì era iniziato il periodo dei grandi affari. Il colonnello gestiva una parte dei fondi destinati alla ricostruzione previsti dal Piano Marshall: un incontro formidabile...

    Quello fu l’inizio della sua grande fortuna: la fondazione della Bauwerke Stuettgart, i primi passi di un’inarrestabile ascesa verso il successo.

    Poi il volto del colonnello svanì dai ricordi di Hermann Schattner per lasciare il posto al viso angosciato di una ragazza di diciassette anni che lo fissava con gli occhi pieni di paura. Schattner si passò veloce una mano sulla fronte e chiuse gli occhi con forza.

    L’immagine sparì e si confuse con i lineamenti duri dell’ispettore Trennen.

    Era il 1953, Schattner aveva capito che la Germania dell’Est poteva rappresentare una miniera inesauribile di ottimi investimenti. Ma in quegli anni bisognava agire con la massima cautela e fu Trennen ad insegnargli come districarsi nel complicato labirinto dell’apparato burocratico comunista.

    Fu un grosso affare per entrambi, ma Trennen alcuni anni più tardi venne accusato di essere una spia al servizio degli inglesi. Schattner non seppe più nulla di quel prezioso collaboratore e pensò che non fosse molto prudente andarlo a cercare.

    Intanto la Bauwerke Stuettgart cresceva e si consolidava e davanti agli occhi chiusi di Schattner si materializzò il volto orgoglioso e sorridente del dott. Kueng, che ammirava soddisfatto le prime Trabant¹ scintillanti che uscivano dal nuovo stabilimento di Zwickau. Quell’appalto per la costruzione del più grande stabilimento automobilistico della Germania Democratica rappresentò il vero salto di qualità per la società di Schattner: ancora adesso lo prendeva una sorta di vertigine, un impeto di euforia e di orgoglio al ricordo del suo più grande successo professionale.

    Poi la sua mente si affollò dei volti e delle parole di tanti uomini politici tedeschi dell’Est e dell’Ovest che lo volevano coinvolto nelle mediazioni per la riappacificazione delle due Germanie. E lui, Schattner, faceva il giocoliere della diplomazia e si divincolava con maestria fra le parti, sempre presente al momento giusto nel posto giusto.

    Come nel 1989 quando le sue ruspe e i suoi scavatori erano già pronti al di là del muro prima della sua caduta. Schattner si crogiolava nei ricordi felici dei suoi successi quando un’immagine penosa gli saettò nella mente: la fucilazione di un gruppo di giovani sfiniti che guardavano con occhi ancora pieni di sfida i fucili puntati contro di loro.

    Ludwigstrasse. Siamo arrivati, signore.

    Schattner sobbalzò e cercò in fretta una banconota per pagare la corsa. Uscì irritato dal taxi e, mentre entrava nel portone dell’Associazione, si ripeté ancora una volta che era stata una pessima idea accettare l’invito a quella conferenza.

    Alla sede della B.D.I., al diciannovesimo piano di uno dei molti grattacieli sulla Ludwigstrasse di Francoforte, il professor William Martins si apprestava ad iniziare la sua conferenza sull’impiego del titanio alla luce delle più recenti ricerche scientifiche che ne avevano evidenziato le sorprendenti potenzialità applicative nel campo della meccanica industriale.

    La sala era già gremita e un mormorio discreto si diffondeva tra i numerosi partecipanti che attendevano l’inizio della conferenza. Schattner entrò a testa bassa e senza guardarsi intorno si sedette nella prima poltroncina libera. Poi si sbottonò appena l’impermeabile, alzò gli occhi e diede un’occhiata in giro.

    Tanti giovani, notò con un certo stupore, tante facce sconosciute.

    In un angolo un gruppo di anziani imprenditori stava chiacchierando in piedi: li conosceva tutti e sapeva perfettamente di cosa stavano parlando: i vecchi tempi ricordati con nostalgia, le difficoltà del presente, le incomprensioni con i giovani dirigenti, i sindacalisti, gli operai, le nuove tecnologie.

    Uno di loro riconobbe Schattner e gli fece un cenno per invitarlo ad unirsi al gruppo: ricambiò il saluto ed alzando il polso indicò il suo orologio per far capire che non intendeva alzarsi perché la conferenza stava per iniziare.

    In fondo alla sala, infatti, era apparso il professor Martins che si era avvicinato al tecnico che stava controllando al computer il programma per la proiezione di immagini durante la conferenza.

    Lo impostiamo in automatico, professore?.

    Sì, però lasci anche il manuale. Va bene un’immagine al minuto ma voglio la possibilità di fermarlo.

    Ok, così dovrebbe essere a posto. Quando vuole può cominciare, professore.

    Grazie mille.

    Dopo i ringraziamenti di rito agli organizzatori della conferenza ed ai partecipanti, il professor William Martins entrò subito in argomento: Alcune grandi industrie europee ed americane, come la Titaniunwerk o la Irontitanio, hanno contribuito con le loro ricerche al raggiungimento dei risultati di cui parleremo oggi. In queste industrie il titanio viene lavorato per il suo impiego nei settori tradizionali; stiamo parlando, naturalmente, dell’industria aeronautica ed aerospaziale ma anche della fabbricazione di oggetti di uso comune: biciclette, per esempio, occhiali e soprattutto computer portatili. Vorrei però fare un passo indietro. Un’analisi più specifica della composizione di questo materiale vi potrà far capire perché si è arrivati ad ipotizzare nuovi potenziali utilizzi di questo versatile metallo....

    Tutti loro sapranno certamente, continuò il professore, che il titanio è l’elemento chimico della tavola periodica degli elementi che ha come simbolo Ti e come numero atomico il 22. È resistente alla corrosione, è forgiabile, saldabile, ha una bassissima dilatazione termica, una durata quasi illimitata ed è totalmente riciclabile: queste doti lo rendono una materia prima di straordinaria importanza in numerosissimi settori industriali. Ho fatto cenno, prima, all’industria aeronautica, ad esempio per la costruzione dei carrelli di atterraggio e per i supporti dei motori, a quella spaziale, la costruzione dei missili e delle capsule, ma vorrei anche ricordare il suo impiego per la sostituzione di ossa e cartilagini ed in architettura: per la costruzione del Guggheneim Museum di New York, ad esempio, se ne utilizzarono ben quarantamila mq in uno spessore di 0,38 millimetri. Accanto a così tante straordinarie doti, signori, il titanio ha un difetto: è molto costoso.

    Il professor Martins percepì il brusio di conferma del suo attento uditorio.

    E ciò dipende, proseguì, dall’elevato grado di complessità del processo di purificazione in quanto, normalmente, esso non si fa trovare in forma elementare bensì, sotto forma di ossidi, nell’ilmenite e nel rutilo. Ma questo problema sembra in via di soluzione: il metodo FFC-Cambridge, se saprà confermare i risultati finora prodotti in via sperimentale, ridurrà del 70% i costi di purificazione del titanio. ...Scavate nel vostro giardino, concluse William Martins, in tono sorridente, è facile presumere un’incredibile impennata della domanda... e del suo valore....

    Schattner guardava assorto il Professore e stava pensando che quel suo modo di parlare gli ricordava qualcosa o qualcuno…

    Dopo alcuni secondi l’immagine dell’oratore perse i suoi contorni e la mente di Schattner si perse un’altra volta nei meandri inesauribili dei suoi ricordi.

    La voce di William Martins gli giungeva sempre più lontana e incolore, mentre si addentrava nei sentieri nebbiosi della sua memoria.

    Forse si assopì, forse restò immerso nei suoi pensieri a lungo e quando recuperò il senso della realtà il professor Martins stava concludendo la sua lunga conferenza.

    Eccoci giunti al termine della nostra esposizione. Mi rendo conto, signori, che l’argomento che abbiamo trattato è complesso e strettamente connesso a tematiche tecnologiche altamente specialistiche, pertanto lascerei gli ultimi dieci minuti della conferenza a disposizione del pubblico per un breve dibattito. Sono pronto ad ascoltare le vostre osservazioni ed a rispondere alle vostre domande.

    Un giovane imprenditore alzò con slancio la mano verso l’alto e William Martins lo invitò con un cenno del capo ad intervenire.

    Professore, vorrei che lei ci dicesse qualcosa di più sulle prospettive di sviluppo del metodo FFC-Cambridge che, a quanto sembra, è un procedimento innovativo che consentirà di abbattere i costi della produzione del titanio.

    Certamente, William Martins riprese nuovamente l’argomento, lo illustrò con scrupolosa attenzione dei più minuti particolari e concluse: Si tratta del sistema applicativo più innovativo e, tra quelli fino ad oggi sperimentati, quello che fa presumere, con un sufficiente grado di probabilità, che le possibilità di utilizzo di questo nobile minerale aumenteranno in modo esponenziale nel giro di pochissimi anni.

    Penso di poter affermare con sufficiente tranquillità, disse il professor Martins dopo una pausa di effetto, che il metodo FFC-Cambride rivoluzionerà molti dei più comuni processi produttivi dell’industria meccanica garantendo un impulso insperato alle economie dei paesi che sapranno utilizzarlo.

    Questo potrà costituire un fattore di freno all’aggressività delle economie dell’Est asiatico? Chiese una voce dalla platea.

    Benché sia indotto a pensarlo, rispose il professore, non mi sembra scientificamente corretto dichiararlo; l’unico aspetto che mi pare ragionevole prevedere nello scenario del futuro più prossimo, come già detto, è il balzo del prezzo del titanio sui mercati internazionali.

    Il professor William Martins rispose ancora ad alcune domande, quindi proseguì verso la conclusione della proiezione delle slide e della sua esposizione.

    Permettetemi di aggiungere, disse ancora, ma in tono più leggero, ed arrestando con il mouse la proiezione, che, benché molto di rado, in presenza di alte concentrazioni di rutilo, da cui principalmente il titanio si ricava, si trova anche una curiosa combinazione mineralogica; ecco, la pietra che vedete ora sullo schermo è la combinazione di sesquiossido di antimonio e ossido di mercurio, con sigla Hg2Sb2O7. Si tratta di una specie di spia, concluse il professore, nel senso che, sebbene non sia vero il contrario, la sua presenza garantisce quasi in assoluto quella del rutilo, da cui il titanio si ricava. Hermann Schattner vide la pietra descritta da Martins ed ebbe la sensazione che essa appartenesse alla sua memoria, che il suo ricordo fosse radicato nel suo passato personale.

    Di fronte all’ultima diapositiva, per un attimo, i suoi sensi furono avvolti dal tepore di

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