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L'essenza dello Yoga Secondo Vasistha
L'essenza dello Yoga Secondo Vasistha
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L'essenza dello Yoga Secondo Vasistha

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Lo yoga secondo Vasistha è un immenso poema composto da più di 28.000 versetti (pari a diverse Bibbie messe insieme) redatto nel IX secolo in sanscrito dal leggendario Vasistha. Benché noto e venerato in India da tutti i saggi, tradotto in persiano e fonte delle Mille e una notte, tale insolito testo è ancora praticamente sconosciuto in Occidente. Un monaco indù, Swami Jnânananda Bhârati, lo condensò in meno di duemila versetti, ed è questo appunto L’essenza dello Yoga Secondo Vasistha, un gioiello di spiritualità presentato, per la prima volta, al pubblico italiano.
I lettori antichi e moderni hanno cercato di ricollegare questa specie di Mille e una notte filosofico a una scuola oppure a una religione, ma alla fine hanno compreso che si tratta di un’impresa vana. Questo è un poema inclassificabile, pur veicolando un messaggio non dualista: il mondo, i nostri terrori e i nostri idoli sono fatti della sostanza dei sogni.
Vasistha Yoga: vivere liberi dall'immaginazione e risvegliare la coscienza
Il leggendario saggio Vasiṣṭha è chiaro: vivere per davvero significa vivere liberi dall’immaginazione.
L'immaginazione è una malattia, e bisogna guarirne. In che modo questo è possibile? Utilizzando i suoi stessi incantesimi. Guarire il male per mezzo del male: è questa la terapia offerta dal saggio.
La coscienza, che è priva di forme, continuamente immagina se stessa in innumerevoli forme, mondi, situazioni, come uno specchio che non può fare a meno di produrre riflessi. La coscienza, però, si smarrisce in questa creatività senza sosta e mai riesce a trovare se stessa. Lo scopo del saggio è il risveglio della coscienza, che può così riconoscere la sua libertà di sempre, per fruire della pienezza dei suoi poteri, invece di subirli.
Per porre un freno e liberarsi dell'immaginazione la cosa migliore è ricorrere all’immaginazione stessa. Per questo l’autore anonimo ci trasporta in un flusso di storie incatenate tra loro, come le storie che ci raccontiamo durante la giornata. Invece di rafforzare il chiacchiericcio alienante, però, questa sequenza di racconti ricchi di insegnamenti su saggezza e meditazione, ci immerge nella meraviglia e nel silenzio.

Un testo magistrale adatto a tutti, una chiave indispensabile per entrare nella saggezza orientale.
LanguageItaliano
Release dateJan 16, 2020
ISBN9788827230145
L'essenza dello Yoga Secondo Vasistha
Author

David Dubois

David Dubois, dottore in filosofia comparata, insegna filosofia al liceo. È altresì direttore di programma al Collège International de Philosophie, ove effettua conferenze sulla coscienza e sulla libertà nelle dottrine dell’India. Si interessa in particolare al Tantra non dualista del Kashmir. Si reca spesso in India, dove è vissuto per diversi anni. Ha già pubblicato numerose traduzioni dal sanscrito, anima un blog molto seguito (La vache cosmique) e conduce seminari di meditazione

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    Book preview

    L'essenza dello Yoga Secondo Vasistha - David Dubois

    Introduzione

    Inclassificabile

    Parlando dell’immaginazione, maestra di errore e falsità, Pascal è colpito dalla sua potenza: L’immaginazione dispone di tutto. Essa crea la bellezza, la giustizia e la felicità che nel mondo è tutto¹. In altre parole, l’immaginazione è onnipotente. Come esserne padroni? La vita stessa non è forse uno scatenamento dell’immaginazione, tanto seduttrice quanto vana?

    Nel testo che presentiamo, tradotto dal sanscrito, il leggendario saggio Vasiṣṭha taglia corto: vivere per davvero significa vivere liberi dall’immaginazione. È una malattia, e bisogna guarirne. In che modo? Utilizzando i suoi stessi incantesimi. Guarire il male per mezzo del male: è questa la terapia offerta dal saggio. In questo caso, esposta in forma narrativa.

    Essa è formulata nello Yoga secondo Vasiṣtha², un immenso poema di più di 28.000 versetti – equivalenti a diverse Bibbie messe insieme – redatto nella lingua perfetta degli immortali³, all’inizio del IX secolo, da uno o più personaggi ignoti, vicini alla corte del re del Kashmir, regione dell’India settentrionale, ai confini dell’attuale Afghanistan, allora immersa nella cultura sanscrita, nell’induismo e nel buddhismo.

    I suoi lettori antichi e moderni hanno cercato di ricollegare queste Mille e una notte filosofiche a una scuola o a una religione, ma è un’impresa vana. Appare chiaro che questo poema è inclassificabile, pur veicolando un messaggio non dualista. Il mondo, i nostri terrori e i nostri idoli sono fatti della sostanza dei sogni. In verità, il mondo è l’Immenso (brahman), il mistero ineffabile, il Bene al di là del bene e del male e il nostro Sé, la nostra natura autentica. A colui che esamina da vicino il mondo, esso si rivela come uno spazio di presenza indicibile, pace perfetta e gioia priva di cause. Attingendo a tutte le fonti del suo tempo, l’autore non si convertì ad alcuna di esse. Attraverso 1000 tempeste dell’universo, di cui è capace di servirsi per far avanzare la sua nave salvifica, egli mantiene la rotta: l’oceano della coscienza, privo di confini.

    Spontaneamente, la coscienza priva di forme immagina se stessa in innumerevoli forme, esseri e mondi, dei e demoni, come uno specchio che non può fare a meno di produrre riflessi. La coscienza, però, semplice e feconda, si smarrisce nella sua propria creatività, simile a un gioiello celato dal suo stesso fulgore. Lo scopo di questa terapia è il risveglio della coscienza, che può così riconoscere la sua libertà di sempre, per fruire della pienezza dei suoi poteri, invece di subirli.

    Per liberarsi della pazza di casa⁴, non c’è niente di meglio dell’immaginazione stessa. In tal modo, invece di un trattato freddo e forse sterile, l’autore anonimo ci trasporta in un flusso di storie incatenate tra loro, per associazione, per continuità, un po’ come le storie che ci raccontiamo durante la giornata. Invece di rafforzare il chiacchiericcio alienante, però, questa pletora di racconti, fiabe e parabole ci immerge nella meraviglia e nel silenzio. È un’omeopatia letteraria, del resto ben nota ai narratori, che non ricerca una perfetta coerenza. Il racconto non è lineare, ma volteggia come una farfalla, come il verbo di un pazzo geniale, essendo concepito come il riflesso del nostro mondo. E noi siamo insensati. La realtà non è razionale, ma è inesplicabile tanto quanto il delirio di un mitomane. O piuttosto, è spiegabile fino a un certo punto – altrimenti non vi crederemmo. Tuttavia, al di là di una certa soglia, sulla quale l’autore vuole condurci, la magia cede, e il delirio collassa nel silenzio interiore. Questi universi, di fatto, non hanno un fondamento razionale ultimo. Vi sono delle leggi, ma la loro concatenazione è come sospesa nel vuoto. Tutto appare relativo ad altri mondi, a loro volta relativi ad altri ancora, e così di seguito, all’infinito. Se, con audacia, accettiamo di seguire le voci dell’autore in questo paese delle meraviglie, saremo immersi nello stupore.

    Egli si rivolge a tutte le condizioni: dio, divinità, demone, re, intoccabile, barbaro, monaco o animale. Affronta tutti i problemi: perdita di un prossimo, depressione, cattiva coscienza di un uomo politico, separazione delle famiglie, delle coppie, senza mai arretrare di fronte alle convenzioni.

    Pur essendo noto e venerato in India da alcuni saggi, benché tradotto in persiano e fonte delle Mille e una notte, questo testo-universo, insolito e analogo al nostro mondo postmoderno e soggettivista, è ancora pressoché sconosciuto. Il compito di tradurre il testo originale parve simile a una fatica di Ercole. Fortunatamente, un monaco indù di nome Swami Jnânananda Bhârati ricompose il poema in 1698 versetti, un lavoro ammirevole che ridusse le dimensioni colossali dell’originale, senza attenuarne la portata abissale. Ed è la traduzione di questo testo sanscrito, pubblicato in India nel 1973, che offriamo ai lettori⁵.

    Un percorso razionale

    Malgrado l’aspetto barocco del testo, il percorso proposto appare ben ordinato, alla stregua di una terapia scientifica.

    La diagnosi inizia con la descrizione dei sintomi direttamente da parte del malato, in questo caso il principe Rāma, un giovane adolescente con un brillante futuro davanti a sé. Di ritorno da un viaggio, soffre di un malessere generale (duḥkha) difficile da descrivere, ma che sul piano fisico si traduce nell’assenza di qualsiasi gusto per la vita.

    A tale smarrimento, il medico chiamato al capezzale – il cappellano Vasiṣṭha – innanzitutto risponde invitando il malato a prendere coraggio (dhairya) e a fare affidamento solo sui propri sforzi (pauruṣa), sulla propria esperienza e sulla ragione. Il destino (daiva) è la scusa dei pigri. Né dio, né alcuna religione, né alcun guru possono salvarci. Ciascuno è amico o nemico di se stesso.

    Il mezzo principale per guarire dal malessere è la riflessione (vicāra), che consiste nell’interrogare se stessi, portando fino alle estreme conseguenze le domande: chi sono io? Cos’è il mondo? Qual è la sua causa?

    In tal modo, la mente (manas) è il mezzo per guarire dalla mente stessa, da una follia che passa inavvertita. Di fatto la mente è l’immaginazione (saṃkalpa), un potere che costruisce noi stessi e costruisce i mondi. Mediante l’esame razionale dell’immaginazione, tuttavia, è possibile liberarci di quest’ultima, svegliarci dal sogno e tornare in noi stessi, alla nostra natura autentica, che non è fisica né mentale.

    Oltre alla mancanza di giudizio, ciò che impedisce all’uomo di essere libero dall’immaginazione sono le abitudini (vāsanā). Queste pieghe del delirio danno conto dell’impressione di solidità e realtà generata dalle costruzioni immaginarie. Grazie alla riflessione si può prendere coscienza della loro vera natura (o meglio, della loro natura inesistente), del loro carattere illusorio, simile a un miraggio. Il fascino dell’immaginazione, allora, svanirà. È la morte della mente, l’oblio di ogni cosa e l’inizio della guarigione.

    Non appena si è raggiunta la certezza che il mondo e gli esseri non sono altro che sogni privi di fondamento, si consegue il vero distacco (vairāgya), ben diverso dalla melanconia che colpisce regolarmente gli ingenui. Tale distacco è frutto della conoscenza della realtà (tattva-jñāna), acquisita per mezzo della riflessione. La rinuncia (tyāga) totale procura una pace totale, fin nell’esistenza quotidiana.

    È la libertà in questa vita (jīvan-mukti), uno stato ineffabile nel quale la mente è morta, per lasciare il posto alla trasparenza (sattva) di un’immaginazione sublimata, spoglia, aderente alla realtà, e non più sorgente di febbre. Invisibile all’esterno, essa viene vissuta come un oceano di pace (śānti) e di interiore freschezza (antaḥ-śītalatā). L’uomo, presente a tutto senza mai fermarsi davanti a nulla, è libero. Al di là di qualsiasi sensazione, esperienza, immagine o idea, è libero, identico a ciò che è sempre stato: lo spazio della coscienza (cid-ākāśa), mare di felicità al di là di tutti gli opposti. La coscienza-mondo è guarita dalla sua follia, come quando ci si desta da un sogno.

    Vediamo ora con qualche dettaglio in più i diversi aspetti di questa terapia.

    Duḥkha: malessere

    Partito all’esplorazione del suo futuro regno, il giovane principe Rāma scopre il ciclo delle rinascite (saṃsāra). Piuttosto che la reincarnazione di un’anima in corpi diversi, questo termine designa qui la ripetizione, e, per estensione, l’assurdità delle peripezie umane, animali e divine. Tutto ciò che ha inizio finisce, e ciò che finisce ricomincia, in virtù di una misteriosa rinascita del desiderio. Il saṃsāra è il mito di Sisifo. Tutto ciò che si guadagna si finisce per perderlo, ogni incontro termina con una separazione, che però non è mai definitiva. Da questo ciclo ricorsivo non può emergere alcun significato particolare. Il mondo sembra fatto in modo tale che ogni desiderio comporta una delusione, e poi un nuovo desiderio. In questo modo, anche nel migliore dei casi (quello degli dei), tutto passa, tutto stanca, come pervaso da una sorta di malessere. Alla lettera, duḥkha indica il fatto di essere fuori asse, a disagio, posseduti dal senso, più o meno vivido, ma sempre presente, che qualcosa non vada. Non vale la pena vivere. Gli uomini mentono, anche a se stessi. In maniera lucida, l’adolescente si rifiuta di continuare a far finta di nulla. Vive senza vivere, come assente a se stesso.

    Pauruṣa: coraggio

    Chiamato al capezzale del paziente, Vasiṣṭha loda la sua lucidità e al tempo stesso ne condanna la passività. Cerca di scuotere il malato immaginario invitandolo a tornare in sé. Non si tratta di un appello allo sforzo cieco, alla forza bruta, come in una lezione di morale, ma di un appello al coraggio, alla curiosità, all’eroismo e all’autonomia. Bisogna provare da soli a essere autorità a se stessi, senza affidare la cura di sé alla buona volontà di qualcun altro. Vasiṣṭha si oppone così all’idea della salvezza per mezzo della sola fede nel maestro, nel destino, negli dei o in dio. Il concetto di pauruṣa è affine alla concezione buddhista dell’esperienza personale, che si realizza in modo diretto (pratyag-ātma-saṃvedanīya): una verità è tale solo se la si fa propria mediante l’esperienza. Paradossalmente, l’insegnamento su un assoluto impersonale è efficace solo se sperimentato personalmente. Pauruṣa designa il fatto di essere un puruṣa, un essere umano nel senso umanistico, con la propria dignità, il libero arbitrio, il coraggio dinanzi all’influsso degli stereotipi.

    L’esaltazione dell’ardimento si spiega altresì con il fatto che probabilmente il testo in oggetto fu composto in un ambiente guerriero, quello della corte del re del Kashmir. Uno dei suoi ministri fu forse l’autore principale dell’opera, redatta intorno al 940⁶. Dappertutto sono valorizzati i valori della nobiltà, della cavalleria e di quella che l’autore chiama la sapienza regia (rāja-vidyā)⁷. Possiamo affermare che, nello spirito della Bhagavad-gīta⁸, l’autore propone un ideale di libertà cavalleresca, una via del guerriero. Nella tradizione dei re dell’India, il futuro sovrano deve innanzitutto girovagare, al pari di un esule, prima di salire al trono. Deve accettare la possibilità di non essere riconosciuto come re, per essere infine riconosciuto come tale. La storia del re Bhagīratha⁹ riprende questo tema: il re rinuncia. Non appena la sua rinuncia è totale, egli torna re. Lo stesso schema ricorre nelle due maggiori epopee sanscrite, il Mahābhārata e il Rāmāyaṇa. Solo la rinuncia alla vita rende capaci di vivere. Paradossalmente, la rinuncia completa si compie nell’accettazione delle responsabilità della vita. In tutti i racconti o quasi, infatti, si trova una rinuncia, poi una rinuncia alla rinuncia stessa, che si traduce nella maggior parte dei casi in un ritorno alla vita ordinaria. Il cavaliere o la donna autentica (satī) non fuggono dalla realtà.

    Vicāra: riflessione

    Cosa fare, però? Come mettere in pratica questo coraggio? Esaminando razionalmente le nostre convinzioni e il mondo, ossia ciò che consideriamo reale. Questa ricerca deve essere esaustiva, deve giungere fino al termine ultimo. Tutti si fanno do­mande. Non le grandi domande, gli interrogativi supremi: chi so­no io? Qual è la causa del mondo? Sono solo il mio corpo? Cos’è davvero reale? In genere il bambino prosegue il suo percor­so del perché? fino ad approdare a queste domande. L’adul­to, però, non gli risponde, o si prende beffe di lui, soffocando così la curiosità metafisica. Vasiṣṭha ci ingiunge di ritrovare lo slancio metafisico, il gusto della verità, non appena ci rendiamo conto che il mondo non è in grado di soddisfarci.

    D’altro canto, questa riflessione ha dei limiti. Il nostro testo non è razionalista: la ragione non è l’unica fonte della conoscenza, benché il cammino verso la verità passi per essa. Accade come con i fiammiferi che si adoperano per accendere un fuoco. Non appena quest’ultimo comincia ad ardere, si getta via il fiammifero. Resta solo il fuoco. Tuttavia, senza il fiammifero non ci sarebbe stato alcun fuoco. Allo stesso modo, la riflessione razionale approda direttamente alla conoscenza, ma la conoscenza relativizza e annulla ogni cosa, compresi i ragionamenti. Ciò spiega una certa tendenza a enunciare verità contraddittorie. Qui, tuttavia, l’intenzione non è quella di creare un sistema del tutto coerente, ma di approdare alla comprensione. Secondo il contesto e lo stato mentale del paziente, il medico può prescrivere rimedi apparentemente contraddittori. La contraddizione però è solo apparente, poiché si tratta sempre di superare un punto di vista, integrandolo in un punto di vista più ampio, senza formulare semplicemente un rifiuto.

    Manas: mente

    L’organo di questa riflessione, però, è anche la fonte di tutte le nostre sofferenze: la mente, che si può intendere anche come cogitazione. Qui è necessario distinguere le sfaccettature o modalità della mente. In senso stretto, essa è la facoltà di immaginare e organizzare le informazioni sensoriali per vivere in modo efficace, per sopravvivere, si direbbe oggi. Soprattutto, la mente fabbrica immagini. È la sua natura, non può farne a meno. In realtà non è la sorgente dei pensieri, ma la somma dei pensieri stessi.

    L’intelletto (buddhi), invece, produce concetti su tali immagi­ni, ed è capace di comprendere la realtà, anche se tale com­prensione implica la sua scomparsa. Comprendere, infatti, vuol dire assumere la forma dell’oggetto. Ora, la realtà è semplice, priva di forme. O piuttosto è infinita, come lo spazio. Quando l’intelletto comprende, quindi, smarrisce la sua forma propria, come un fiume che si perde nel mare. Non per questo vi è una rottura assoluta, poiché si tratta di un mare di intelligenza, coscienza, conoscenza. Il fiume non ha più la sua forma, ma è sempre acqua. La differenza tra l’intelletto e l’oceano della coscienza pura sta solo nel grado, non nella natura.

    Per dirlo in altri termini, la mente dubita, oppone il soggetto all’oggetto e fugge dalla realtà fabbricando i mondi. L’intelletto, chiamato anche cuore, caverna del cuore o spazio del cuore, è la facoltà di visione diretta della realtà. Esso è visione (dhī). In realtà, è il potere proprio della realtà di svegliarsi a se stessa. La dualità, infatti, non è altro che illusione. C’è solo la realtà, che si smarrisce nella sua immaginazione intessuta di brama, per poi risvegliarsi. Allorché la realtà si invischia nella sua stessa creatività, è la mente. Quando tende verso il risveglio e il riconoscimento di se stessa, è l’intelletto.

    Saṃkalpa: immaginazione

    In realtà, siamo pura presenza a noi stessi, immediata, unica, senza forma né struttura prestabilita. Ma a causa di questa purezza, di questa trasparenza, la coscienza può diventare qualsiasi cosa e credere in qualsiasi cosa. E in base a ciò essa crea spontaneamente, senza causa né scopo. Come uno specchio riflette, come un oceano si agita, la coscienza manifesta il mondo ancora e ancora, in maniera ciclica, in modo analogo al succedersi dei giorni e delle notti.

    In realtà, essa immagina il mondo. Quanto a noi, di questo mondo siamo parte. Secondo Vasiṣṭha, nell’atto di creare la coscienza è immaginazione. E quest’ultima non si limita a vaneggiare o ricamare su un mondo già formato. Essa è in noi, non noi in essa. Il nostro corpo, infatti, è solo un frammento del nostro immaginario, con il quale ci identifichiamo in modo più o meno arbitrario, o per abitudine.

    Vāsanā: abitudine

    Diventiamo schiavi della nostra immaginazione perché i mondi immaginari divengono per noi, che in realtà siamo coscienza senza forma, una sorta di seconda natura, come un leone che venga allevato da pecore. Per quanto irreale, l’immaginazione non è priva di efficienza. Essa produce effetti. In ciò consiste tutto il suo essere. Ma questi effetti sono concatenati, si organizzano e formano un mondo coerente. Sul piano individuale come su quello cosmico, tutto

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