Passato
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Info su questo ebook
Un’esistenza mai sazia, che fatica ad assumere una forma definitiva. Passato è un viaggio verso la pace interiore, attraversando il caos delle sensazioni e degli umori; un romanzo sulla difficoltà di esser felici e di trovare il proprio posto nel mondo, in vista di una redenzione, lontano dall’«inverno dell’anima».
Giovanni Randaccio del Timavo è nato a Roma nel 1949. Maturità classica e corso di laurea in Lettere e Filosofia all’Università La Sapienza. Impegnato dal 1969 nelle aziende di famiglia “Leaders” nel campo della pubblicità esterna. Grande viaggiatore, soprattutto in Africa, India e Sudamerica. Appassionato di arte del ’600 e ’700, è esperto di arte antica e musica classica. Studioso di Napoleone e di D’Annunzio che fu il migliore amico del nonno paterno.
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Anteprima del libro
Passato - Giovanni Randaccio Del Timavo
Nuove Voci
Prefazione di Barbara Alberti
Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.
È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.
Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi:
Non esiste un vascello come un libro
per portarci in terre lontane
né corsieri come una pagina
di poesia che s’impenna.
Questa traversata la può fare anche un povero,
tanto è frugale il carro dell’anima
(Trad. Ginevra Bompiani).
A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.
Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.
Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.
Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: «Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov».
Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.
Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.
Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.
I. LAVANDA ANTICA
Chissà perché mia madre volle farmi guadagnare un anno di scuola.
E fu così che, a soli cinque anni, mi affidò alle cure di una maestra privata.
Nel lungo arco di mesi e mesi venne a casa per prepararmi all’esame di ammissione alla seconda elementare. Una prova che ai privatisti, già all’epoca, era concesso di poter sostenere anche prima delle sei primavere.
La maestra Ulderica Camerlenghi era di Volta Mantovana, a metà strada fra il grande lago e la grande pianura. Avrà avuto circa sessant’anni, era alta e pesava almeno ottanta chili. Aveva un seno immenso e gli occhi allegri, perennemente in movimento. Camminava quasi dondolando, data la mole, e si sedeva al tavolo con fare sussiegoso. Forse ricordando l’antica radice di quel suo nome così marziale, ogni volta, era come se si assestasse su di un trono. Aveva un profumo di lavanda antica che, col passare delle ore, si accompagnava ad un lieve sentore acido di vecchiaia e sudore.
Parlava a voce alta e ogni tanto, davanti a un mio banale errore, urlava d’improvviso: «… mammalucco!». Esagerazione per esagerazione. Come se fosse un insulto fra i più gravi. Se rispondevo bene o facevo correttamente gli esercizi, talvolta elargiva una buonissima caramella d’orzo. Fra quelle di cui lei stessa faceva largo uso.
Puntualissima, ogni pomeriggio, alle cinque si annunciava sempre con due rapidi squilli di campanello. Cosicché sapessi che era lei. E con lei due lunghe ore di lezione. Le caramelle all’orzo, il profilo di quel seno debordante ed un sentore di lavanda antica che poteva degradare fino all’olezzo.
In giugno feci finalmente l’esame. Mia madre m’accompagnò presso la grande scuola nella zona del Quadraro che era la sede designata per la prova.
Ero intimorito perché mai avevo visto un edificio così imponente, dei corridoi talmente enormi e tanti bambini tutti insieme. Inoltre mi era stata imposta la strana compostezza di un grembiule, una sensazione mai provata prima ma già capace di incutermi una sorta di originale disagio.
Non ho particolari ricordi dello svolgimento della prova. Non saprei dire delle sue difficoltà oggettive né di tutto ciò che quei fogli contenevano. Come spesso accade, le sensazioni esterne ai fatti hanno ormai colonizzato la memoria del bambino. Ma l’esame andò comunque bene e fui ammesso senza problemi alla seconda classe.
Fui subito iscritto ad una scuola per soli maschi, nei pressi di casa, tenuta da religiose.
Ho il ricordo a dir poco nitido di alcuni compagni, come dell’abile Tito Rinesi che già disegnava benissimo. Ricordo il piccolo calamaio di inchiostro presente su ogni banco e quei pennini che si compravano dal tabaccaio per dieci lire l’uno. Ricordo la nostra maestra, la buona Suor Pierina, che non alzava mai la voce e non rinunciò mai alla sua dolcezza nel quotidiano adempimento dei suoi pur molti obblighi didattici.
La classe aveva alle pareti, messe lì da tempo a fare da austera tappezzeria, due grandi carte geografiche dell’Italia e dell’Europa. Sul fondo, vicino alla cattedra, c’era una lavagna di quelle ribaltabili.
In quella scuola, in quinta, feci anche la prima comunione.
Durante gli ultimi giorni, poco prima della cerimonia, ci fu una sorta di corso di religione supplementare tenuto durante il pomeriggio.
Nella noia di quelle sessioni integrative, durante l’ora di ricreazione, giocando con altri compagni mi arrampicai su di un albero ma ad un tratto persi l’equilibrio. Cascai con lo stomaco su di una pietrona aguzza che delimitava, insieme ad altre, una larga aiuola con dei fiori. Restai senza fiato per tanti secondi e per un attimo fui sicuro di morire. Ma poi da solo, perché nessuno si era accorto di nulla, mi sollevai e mi sedetti tremante… Ricominciare lentamente a respirare, come ritornando pian piano alla certezza di essere vivo, fece coincidere ogni boccata d’aria alla memoria di un’essenza. Per un breve istante, fra gli altri, mi tornò alle narici anche l’odore sfumato della lavanda antica. Come il fantasma di un passato di effluvi.
Alla cerimonia della prima comunione eravamo una ventina di ragazzi. Tutti vestiti elegantissimi. Tutti agghindati con un completo inglese detto «dinner jacket» del quale, attraverso la reminiscenza di ciò che provai indossando il primo grembiule, ero fiero pur sentendomi al contempo un po’ ridicolo.
Dopo mesi di assidua preparazione, nei sacerdoti che ci istruivano insieme alle suore, si fece strada l’urgenza di infonderci profondamente il senso e l’enorme importanza dei sacramenti della Cresima e della Comunione. Funzioni che avremmo affrontato rigorosamente insieme. Addentrandoci nella loro assoluta sacralità come un gruppo chiamato a degli imprescindibili riti di passaggio. Non più come singoli ma come classe, proprio come si faceva al tempo.
C’erano momenti nei quali, durante quel tortuoso percorso spirituale,