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Now here, nowhere. Ora qui, da nessuna parte
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Now here, nowhere. Ora qui, da nessuna parte

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About this ebook

Alex ha diciotto anni, i capelli biondo platino, suona in una band e vive per la musica. Sono gli Anni ’80, Roma ricorda la Terra di Mezzo del Signore degli Anelli, divisa da guerre tra paninari, fascisti, comunisti, metallari, punk e skinheads. Alex non fa parte di nessuna di queste tribù e la vita non è facile per chi ha deciso di “non appartenere” a nessuna specifica fazione. In più l’eroina ha raggiunto l’apice della sua forza distruttiva, e ragazzi e ragazze si accasciano per strada, con la siringa nel braccio. Così, quando la sua fidanzata perde la madre e deve trasferirsi a Los Angeles dal padre, Alex dice immediatamente “Vengo con te”.

Non può immaginare che il volo intercontinentale sarà solo il primo passo della sua odissea. Perché la West Coast si appresta a diventare il centro del mondo, con l’esplosione del grunge e l’inferno tossico che ne consegue.

Alex farà mille mestieri, dal venditore per telefono al tecnico del suono, cambierà mille case, suonerà in diversi gruppi musicali, si sposerà a Las Vegas, verrà arrestato un paio di volte, scoprirà, grazie a un’indovina, che, se anche la musica era stata il suo primo amore, il suo destino è nel cinema. In questo frullatore, Alex incontrerà tutti i miti di quegli anni, da Prince a Matt Groening, da Courtney Love al suo fidanzato, il messia che un’intera generazione stava aspettando: Kurt Cobain.

Alex Infascelli, regista di fi lm e documentari pluripremiati, rivela un altro dei suoi poliedrici talenti: la scrittura. E lo fa con un romanzo autobiografico che ha la forza di Open e Shantaram, che rimanda a On the road e Trainspotting, e che ogni tanto ricorda anche i grandi capolavori inglesi del ’700 e dell’800, da Tom Jones a Barry Lyndon o addirittura al Pinocchio di Collodi (solo con un po’ di sesso, droga e rock ’n roll in più).

Now, here, nowhere – Ora, qui, da nessuna parte è un incredibile romanzo di formazione, ironico, appassionante, divertente, brutale, indimenticabile, che sembra sospeso tra verità e leggenda riuscendo ad abbracciarle entrambe.
LanguageItaliano
Release dateJul 1, 2022
ISBN9788830526006
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    Now here, nowhere. Ora qui, da nessuna parte - Alex Infascelli

    1

    Allora, io adesso non ricordo esattamente, ma ci arrivo.

    Non ricordo, perché quello che precede la partenza è stato come uno scivolo velocissimo. Sono certo però che fosse verso la fine del 1988, perché faceva freddo quando sono partito e caldo quando sono arrivato. Ho sentito l’escursione termica, proprio mi ricordo questa cosa: che ero vestito invernale il giorno in cui sono atterrato a Los Angeles.

    Prima di partire c’era stata un’accelerazione di eventi, come se tirando in aria dei sassolini fossero caduti nel modo giusto, nel posto giusto, al momento giusto.

    Erano anni ormai che pensavo di andarmene, per tante ragioni. Ero triste, avevo una stranissima malinconia, uno spleen che mi inseguiva da quando ero ragazzino. Sentivo che questo paese non aveva niente da offrirmi, ero venuto alla luce qui, ma ero stato generato da un’altra parte.

    Non a caso ascoltavo della musica che era abbastanza impopolare in Italia, ma non ero uno colto musicalmente. Eppure a casa si ascoltava di tutto, si passava da Burt Bacharach ai Rolling Stones, da Barry White ai 10cc, da Lucio Dalla agli Aerosmith. Avevo sempre a disposizione dischi, anche colonne sonore, e crescendo mi ero innamorato di un certo tipo di rock che si chiamava, tipo, AOR se non sbaglio, che è l’acronimo di Airplay on the Radio o Album Oriented Rock, Adult Oriented Rock, una roba del genere. Era un rock molto leggero, andava da Bon Jovi ai Chicago, passando per, non so, gli Styx, gli Air Supply, i Foreigner, tutte quelle band parecchio americane, con quel suono vellutato che gli europei provavano disperatamente a copiare senza mai riuscirci.

    Nel 1980 avevo saltato completamente l’onda musicale punk, che mi dava un senso di sporcizia, mi dava un senso di, non saprei, ma non mi piaceva. I punk non mi piacevano, perché ero un ragazzino dei Parioli, e di fatto il punk per me era uno zozzone, uno che viveva male la vita. Rifiutava il concetto di moquette, per dire. E poi i punk facevano paura, erano arrabbiati, violenti, drogati: io no.

    Mia madre in quel periodo era come impazzita, forse perché solo tre anni prima, nell’estate del 1977, in un misterioso incidente stradale in Francia, era morto suo marito, mio padre, e da quel momento venivo mollato regolarmente alle tate.

    La mia vita era un fiume denso di solitudine, popolata unicamente da queste donne, di tutte le età, più o meno intelligenti, più o meno simpatiche, più o meno empatiche, più o meno crudeli, che scandivano la mia esistenza. E dalla televisione.

    Dopo il transito di una di queste, particolarmente manesca, e che mi lasciava in macchina quando andava a scopare con il fidanzato, mia madre aveva deciso che era tempo di intervenire. Via le tate. A tredici anni mi ritrovo un tato, Luca, che credo fosse il figlio di qualche sua amica.

    «È un ragazzo meraviglioso» mi aveva detto prima di presentarmelo, «fa avanti e indietro con Londra, ti piacerà. È punk.»

    2

    Luca era un punk.

    Proprio punk punk. Con la cresta punk, gli anfibi punk. Probabilmente era uno dei primi punk a Roma, ed era capitato a me. Così mi ritrovo con un punk che mi portava in giro, mi accompagnava a scuola, alle cose da fare doposcuola, stava con me a casa, passava il tempo con me, mi aiutava a fare i compiti. Quando la gente ci vedeva in giro si chiedeva se chiamare la polizia. A me lui però non faceva paura, mi raccontava di Londra, dei concerti, delle manifestazioni, degli squat: queste case in cui viveva, case occupate. A Roma invece abitava in via del Pellegrino, in pieno centro storico.

    Dopo qualche settimana insieme, aveva detto a mia madre che era arrivato il momento di darmi un po’ di libertà, di farmi crescere, e le aveva consigliato di mandarmi un pomeriggio a settimana a casa sua, da solo.

    Così un giorno ero uscito di casa, avevo camminato – senza che nessun punk mi aggredisse – e avevo preso l’autobus. Dal cuore dei Parioli questo bus scendeva la collina e mi portava a corso Vittorio Emanuele e da lì a piedi verso Campo de’ Fiori, quindi a casa di Luca.

    Ricordo bene quel primo viaggio. Lì, sull’autobus, in mezzo a degli sconosciuti, per la prima volta nella mia breve vita non mi sentivo più solo, al contrario di quando ero a casa. Forse percepivo la solitudine soltanto quando stavo in un luogo che avrebbe dovuto appartenermi, ma nel quale invece mi sentivo straniero. E quel giorno, in quel primo viaggio in autobus da solo, avevo intuito che la mia dimensione di solitudine mi avrebbe accompagnato per il resto della vita, a meno che non volessi continuare a muovermi costantemente per evitare il tradimento dei luoghi comuni.

    Guardando fuori dal finestrino, vedevo Roma, sconosciuta e imprevedibile, con le Brigate Rosse che uccidevano, i celerini che caricavano e, ovviamente, i punk travestiti da tate, che si infilavano nelle case dei bambini. Eppure provavo un senso di pace. Stare solo mi faceva bene.

    Quello che non mi faceva bene era credere di avere accanto una figura che prometteva di esserci, ma poi non c’era. Essere orfano, intendo completamente orfano, a me andava bene. Però se avevo una madre che non faceva la madre, un padre con cui dovermi misurare, senza poterlo fare perché morto, allora saltava tutto.

    Quando l’autobus era arrivato al capolinea, avevo chiesto indicazioni ed ero finalmente arrivato a casa di Luca. Guardavo il nome sul citofono, ma un attimo prima di suonare avevo percepito un movimento alla mia sinistra, come una presenza, sentivo uno sguardo, qualcosa.

    Lì accanto a me c’era un ragazzo di un’età indefinita, forse venti-venticinque anni, era giovane, non ancora un uomo. Stava in piedi, nella penombra di un passaggio buio che collegava a un altro vicolo. La manica tirata su, e l’ago di una piccola siringa infilato nella vena della parte molle del braccio. Mi guardava. Si stava bucando ed ero arrivato io. Non poteva allontanarsi, non poteva fermarsi, aveva l’ago nel braccio. E mi fissava come a dire: Scusami.

    Se ne dicevano di tutte sui tossici che rubavano e ammazzavano, ma invece di avere paura, io provavo un senso di compassione. Lui mi fissava e sentivo la sua vergogna, non potevo sottrarmi al suo sguardo e non sapevo cosa fare, perché in realtà avrei voluto sollevarlo da quella situazione scomoda. Poi gli si erano chiusi gli occhi, e sul volto era apparso un vago sorriso. Sempre a occhi chiusi aveva estratto l’ago dalla vena, e una gocciolina di sangue rosso acceso era subito spuntata sul buchino invisibile lasciato dall’ago.

    In quel mio primo viaggio, fuori dalla mia casa vuota, lontano dalla mia zona sicura, sottratto allo sguardo protettivo di mia madre, o a quello senza amore di una tata, l’occhio del destino era venuto a conoscermi. «Ciao Alessandro. Noi due ci rivedremo presto. Adesso però non pensarci, vai pure avanti con la storia.»

    3

    Due anni dopo, mia madre si era risposata con un signore milanese abbastanza stravagante, avevamo lasciato i Parioli e c’eravamo trasferiti a due passi da casa di Luca, che nel frattempo era tornato definitivamente a Londra.

    Il primo giorno di liceo, dopo elementari e medie dai preti, vedere le ragazze che giocavano a pallavolo nel cortile mi aveva imbambolato. Una di queste mi era venuta addosso, scheggiandomi un incisivo con il suo cranio. C’eravamo fidanzati e trascorrevamo i pomeriggi a pomiciare e ascoltare The Wall. Spesso io mi fermavo con la sua lingua in bocca, perché qualcosa in quel disco mi ipnotizzava. Quei racconti sull’alienazione e l’isolamento, e la voce tagliente di Roger Waters mi parlavano. Forse proprio a causa dell’assidua frequentazione delle lingue di Paola e di Roger a fine anno ero stato bocciato.

    Non volevo studiare, non riuscivo a studiare, io volevo fare. A scuola, insieme ad altri ragazzi dell’ultimo anno che stavano in un gruppo musicale, avevo cominciato a suonare la batteria: era lo strumento più semplice e primordiale e, soprattutto, non aveva bisogno di grande teoria. Avevo perso un anno di scuola, ma avevo trovato la mia prima ragazza, la mia prima band, e un gruppo di amici più grandi da cui imparare, ma che mi ascoltavano anche.

    Ed ecco che sul più bello c’eravamo trasferiti di nuovo, a nord, dall’altra parte della città, nella buia e destrorsa Tomba di Nerone.

    A diciassette anni mi ero fatto i capelli biondo platino e andavo in giro con i tacchi a spillo. Questa cosa mi creava una serie di disagi, perché quello era il periodo in cui erano apparsi i primi paninari, e insieme ai paninari c’erano pure i famosi tozzi, personaggi orrendi con i Levi’s 501 a zampa corta e larghi. Infine c’erano le zecche – quelli di sinistra – e gli skinhead, che non si sapeva da che parte stavano, tranne che erano molto più cattivi dei punk.

    Roma era divisa in zone, ognuna popolata da una tribù. Sembrava un libro di Tolkien con i suoi mondi e sottomondi. Ogni quartiere aveva la propria popolazione che andava affrontata in un certo modo. Ci si doveva muovere seguendo dei codici, dovevi impararli e ricordarli, altrimenti erano cazzi.

    Io non ero di destra, ma nemmeno di sinistra, proprio non sentivo di appartenere a una di queste categorie direzionali, tutte italiane.

    Per questo forse mi piacevano quasi solo le ragazze straniere, perché la cultura di cui mi nutrivo era anche la loro. Se invece uscivo con una ragazza romana – ammesso che non si vergognasse di me – e le parlavo di cose che magari riguardavano il mio mondo di riferimento, questa non capiva proprio cosa stavo dicendo, e io mi sentivo subito un alieno. Che, oltretutto, lo ero.

    Ero un alieno quanto lo può essere un parigino del Settecento se lo porti nel Paleolitico, lo togli dal suo mondo e di colpo è un poveraccio che soccombe, non è più nel suo Zeitgeist.

    Per me era esattamente così: nella vita quotidiana, culturale e anche gestuale ero come il parigino nel Paleolitico, perché già soltanto il mio look non solo era inadeguato alla sopravvivenza, ma proprio un parafulmine per i predatori. Venivo ridicolizzato dalle zecche e aggredito dagli skinhead. Bastava che mi vedessero alla fermata dell’autobus e inchiodavano con il motorino, mi davano due schiaffi e ripartivano. Così, giusto per.

    Dunque ero stato bocciato e, dal liceo hippie con le band e le pallavoliste, ero finito in una scuola di recupero.

    Nella mia classe c’era un tizio che puliva la pistola sotto il banco. E nessuno diceva un cazzo. A cena raccontavo quello che vedevo e mi dicevano sempre «Beh». Ma non solo mia madre e suo marito, qualunque adulto interpellassi o a cui chiedessi aiuto per quello che subivo, mi rispondeva: «Beh, sarai tu che hai fatto qualcosa; sarai tu che l’hai provocato; sarai tu che avrai causato quella situazione. Figurati se...». Nessuno credeva che ci potesse essere una popolazione intera di giovani così cattivi, così stronzi, così infelici.

    A furia di lamentarmi anche a scuola, un giorno un paio di questi delinquenti a piede libero, che normalmente si limitavano a insultarmi, mi avevano preso di forza durante la ricreazione e portato in bagno, forbici alla mano, per tagliarmi i capelli a zero. Mi tenevano fermo, e io non mi divincolavo, non mi ribellavo, perché tanto sapevo che non avrei ottenuto granché, se non farli divertire tantissimo. Avevo cominciato a insultarli, pacatamente, con parole che forse nemmeno conoscevano, e che li avevano straniti fino al punto di lasciarmi andare. Gli avevo tolto le forbici dalle mani e mi ero tagliato una grossa ciocca di capelli, menomando il mio look alla moda. Zac. Gliel’avevo buttata ai piedi. Ecco, adesso se li volete, abbassatevi a raccoglierli. Se ne erano usciti dal bagno di corsa e da quel giorno non mi avevano più nemmeno rivolto la parola.

    All’esame di maturità mi ero presentato vestito come al solito, e dei due anni che portavo per accelerare la mia fuga, ne avevo superato soltanto uno. Tuttavia, essendomi ripromesso di non rimettere mai più piede in un istituto scolastico, accettavo per sempre la terza media come mio cielo didattico.

    4

    Perché Napoli?

    Perché a Napoli c’era la NATO. E c’era il Villaggio Coppola.

    Questa era la risposta che mi aveva dato il mio amico David quando mi aveva proposto di andare con lui a suonare la batteria in questa band napoletana dal

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