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Addomesticare la morte: Politiche e pratiche culturali nella ricerca antropologica
Addomesticare la morte: Politiche e pratiche culturali nella ricerca antropologica
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Addomesticare la morte: Politiche e pratiche culturali nella ricerca antropologica

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Il volume affronta, dal punto di vista antropologico-culturale, quattro temi di ricerca che ruotano intorno alla morte. Il primo riguarda, da un lato, lo smarrimento di fronte all’angoscia di morte legata alla pandemia del 2020 e, dall’altro, la mappa culturale fornita dai miti fondativi, per riorientare quell’angoscia. Il secondo concerne il gioco politico-sociale intorno ai funerali, negati o concessi, di personalità ungheresi e le relative cerimonie riabilitative di risepoltura. Il terzo ruota intorno agli effetti del revival culturale della “vendetta di sangue” in Albania. Infine lo studio, più tradizionale, di un particolare sistema funerario calvinista, attivo in un’area rurale e periferica dell’Ungheria nord-orientale, legato a dei particolari simboli tombali detti fejfák “a forma di barca”.
LanguageItaliano
Publishertab edizioni
Release dateOct 30, 2020
ISBN9788892953833
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    Addomesticare la morte - Amedeo Boros

    Capitolo 1

    La morte trasformata e le sue mappe

    1.1. Spaesamenti

    Questo capitolo ha iniziato a prendere forma mentre fuori dalla mia casa, nella mia città e in tutte le città italiane, dominava il silenzio. Un silenzio molto diverso da quello di cui ho potuto godere in diversi luoghi in cui mi sono trovato per le mie ricerche, lontani dal caos e dallo sciamare inquieto dello «homo consumens» (Bauman 2007). Questo silenzio era popolato di assenza, di attesa, di paura, di mancanza di contatto fisico fra le persone, persone isolate le une dalle altre nelle proprie case, strade vuote, scuole e università vuote, negozi vuoti, vuoti bar e ristoranti, fabbriche, luoghi di culto e, per contro, ospedali pieni, sale di rianimazione piene, piene di persone intubate, e obitori pieni di persone morte, di numeri di morti, così tanti morti da dover essere trasportati altrove, su camion militari in anonimi cortei funebri, privi dell’accompagnamento dei dolenti. La nostra vita si è trasformata in un momento di «sospensione culturale» (Remotti 2014) nel quale si è prodotta una interruzione, una epochè (ibid.) contrassegnata dalla caotica concentrazione di tutti i sistemi di comunicazione intorno al virus, dalle nostre chiacchierate attraverso i canali social digitali, alla televisione, a internet, ai giornali, ai libri, alla politica.

    Un flusso gigantesco di informazioni che hanno portato nelle nostre vite indicazioni contraddittorie, generando un’amplificazione dello spaesamento, una radicale incertezza, di fronte a dati contrastanti sui decessi, sui tempi di incubazione, sui meccanismi di trasmissione del virus, sulle modalità di difesa dal contagio (Beneduce 2020). La morte ha assunto le sembianze di una minuscola pallina colorata con la superficie costellata di piccoli tentacoli, immagine che è diventa così familiare da essere riconosciuta persino dai bambini più piccoli.

    Erano i primi mesi del 2020 quando hanno preso forma anche in Italia gli effetti della presenza del virus² che ha messo in crisi le nostre mappe di riferimento, spaziali, temporali e culturali. La sigla Covid-19 è diventata una presenza costante nella vita quotidiana della controversa era dell’«antropocene» (Mathews 2020) e il modello antropocentrico che la domina è stato messo di fronte alla propria fragilità e insostenibilità, prima nascosta regolarmente con la sistematica colonizzazione del nostro immaginario (Latouche 2011).

    Improvvisamente la mappa dettata dai sistemi economici che hanno determinato la trasformazione del nostro modo di concepire gli scambi e lo sviluppo (Polányi 2010) non è stata più sufficiente a garantire un orientamento, seppure illusorio, dentro gli intricati percorsi della pandemia, costretti fra la paura del contagio, l’avanzare del rischio di morte, e le strutture di governo dell’«economia della disuguaglianza» (Atkinson 2015). L’impostazione liberista di gestione dei servizi sanitari in stile aziendale, con forti tagli dei fondi pubblici, una intensa spinta alla privatizzazione, e la demonizzazione dello stato sociale (Gallino 2013), ha avuto un risultato drammatico nella fase più acuta della sospensione in cui siamo³. I medici delle terapie intensive si sono trovati a dover scegliere chi curare e chi abbandonare alla morte visto «l’enorme squilibrio tra le necessità cliniche reali della popolazione e la disponibilità effettiva di risorse intensive» (Vergano, Bertolini, Giannini et al. 2020). Secondo Amselle, in linea con questo squilibrio, il potere dei medici si è trasformato «n’est donc plus un pouvoir sur la vie mais un pouvoir sur la mort des individus concernés. Contrairement à ce qui passait depuis le XIXe siècle, il ne s’agit plus désormais de faire vivre et laisser mourir les citoyens mais de faire vivre le capital et de faire mourir les vieux et les improductifs» (Amselle 2020). In questo contesto la condizione di sospensione di fronte ad un esteso e imprevedibile rischio di morte, ha portato le autorità pubbliche a sospendere anche il nostro tempo di vita, mettendoci tutti, anche se non tutti nello stesso modo, in una fase liminare (Van Gennep 1981), nella quarantena. Questa parola per gli antropologi rimanda immediatamente all’organizzazione rituale e tradizionale del tempo, che nel nostro caso, però, è stata del tutto irrituale, sia per la durata stabilita ex post, sia per le sue conseguenze⁴ ed è stata parzialmente sostituita dall’espressione inglese lockdown, usata in riferimento alle comunità. Il confinamento è stato uno strumento efficace nella riduzione dei contagi e, quindi, del numero dei morti e ha riguardato non solo un’auto reclusione domestica diffusa (ben diversa da quella di cui parlerò nel terzo capitolo), ma anche una rimodulazione dei nostri confini corporei, costretti dietro mascherine, guanti protettivi (per un periodo) e tenuti ad una certa distanza dai corpi di tutti gli altri.

    Niente abbracci, strette di mano, baci di saluto, una privazione che Niola definisce «contro la nostra natura di uomini e, per noi italiani, anche di più» (Niola 2020). Ma per quanto riguarda il terreno intorno al quale si sviluppa questo libro, il confinamento e la sospensione culturale hanno avuto una conseguenza davvero destabilizzante, che ha coinvolto la nostra relazione con la morte, col morente, coi defunti. Le misure prese per contrastare la pandemia da coronavirus, infatti, hanno sospeso tutti i rapporti fra persone morenti e loro affetti, impedendo il commiato reciproco, l’assistenza affettiva, la cerimonia funebre, la separazione ritualizzata e, quindi, una gestione del lutto culturalmente orientata. Improvvisamente ci siamo trovati davanti ad un gran numero di morti nell’anonimato e nell’assenza di ritualità sociali che ci hanno costretti a riflettere sull’evitamento della morte che il nostro sistema sociale riproduce. Infatti, anche prima della pandemia la presenza accanto ai morenti e poi la vicinanza a chi ha subito il lutto non erano particolarmente attive⁵, ma entrambe si collocavano in una cornice che, in qualche misura e a suo modo, determinava una accettabilità sociale della morte, assente totalmente durante il confinamento. Possiamo provare ad immaginare il dolore irrisolto di quanti non hanno potuto parlare e salutare per l’ultima volta un proprio congiunto, avendo con lui un contatto telefonico nelle prime fasi del ricovero ospedaliero, nella migliore delle ipotesi, poi più nulla. Nessun funerale poi, un rito di separazione fondamentale nel nostro sistema culturale, e ancora l’impossibilità di recarsi in cimitero per la sepoltura del proprio caro o delle sue ceneri, quel che è possibile è rimandato a posteriori, solo che i rituali funebri ex post non fanno parte di una tradizione che consenta loro di recuperare il tempo sospeso della separazione e dell’elaborazione della perdita, delle trasformazioni delle memorie. Come vedremo anche nei capitoli successivi, il tema della memoria è strettamente connesso con quello della morte e per come il nostro sistema funerario è organizzato, iniziative digitali riparatrici come quella dell’Albero internazionale della memoria per le vittime Covid-19⁶ (figura 1.1) possono colpire la nostra immaginazione, ma difficilmente produrre effetti sociali minimamente avvicinabili a quelli dei rituali funerari⁷. L’unico sistema di gestione della morte che ha continuato a funzionare è stato quello professionale, da una parte con il personale sanitario, dall’altra con le imprese funerarie, coadiuvate, come nel caso di Bergamo, dall’esercito.

    Figura 1.1. Albero internazionale della memoria per le vittime Covid-19. Fonte: https://www.corona.crystaltree.eu/?lang=it.

    Nella cornice delineata sin qui, l’elemento predominante è quello del disorientamento di fronte agli effetti della pandemia e all’irruzione della morte fuori dagli schemi culturali ai quali siamo abituati. Le radici di questo spaesamento, divenuto improvvisamente evidente, hanno però origini lontane nel tempo, di cui possiamo individuare alcune tappe.

    1.2. La morte, da fatto naturale a fatto culturale

    Gli esseri umani, come tali, per esistere debbono nascere e, una volta nati, la loro vita ad un certo punto terminerà⁸. Il momento in cui la vita ha termine lo definiamo morte quindi, dal punto di vista fenomenico, la morte è qualcosa che accade, rappresenta un cambiamento di stato, un passaggio irreversibile dall’esistenza alla non esistenza, rispetto alle coordinate spazio-temporali relative al nostro sistema biologico. Ma nel nostro modo di intendere la morte, la abbiamo trasformata in una entità dotata di agentività, la morte bendata, la morte falciatrice, la morte cavalcante, la morte cacciatrice (Di Nola 2005), un’elaborazione iconica alla quale abbiamo assegnato un ruolo attivo, così da disporre di un feticcio culturale al quale ricondurre il dolore, la rabbia, la rassegnazione e altre emozioni, nonché la responsabilità legata al venir meno della vita. La morte come entità rappresenta un contenitore culturalmente determinato, al di fuori del recipiente, però, si potrebbe dire che non esista: La morte non è, avviene.

    Le questioni sufficientemente evidenti, rispetto a nascita e morte, però, si esauriscono qui. Le culture umane, nel tempo, hanno dato interpretazioni assai differenti nell’individuazione del momento e del modo in cui gli esseri umani nascono e muoiono, poiché i parametri da cui le interpretazioni sono partite, ovviamente, attingevano a repertori esperienziali concentrati nello sforzo di dare motivazioni o significati a eventi naturali, che avevano e hanno, importanti conseguenze per la continuità biologica e culturale delle comunità.

    In effetti, il singolo individuo, dei due momenti indispensabili alla sua esistenza di persona, la nascita e la morte, non ha un ricordo di cui possa servirsi per crearsi un abbozzo di mappa che gli consenta di orientarsi, di leggere lo spazio fisico o immateriale degli eventi. Delle cose per le quali non disponiamo di mappe, pur avendo certezza di doverle affrontare, siamo culturalmente portati ad avere a volte curiosità, altre volte diffidenza, spesso paura. Nel caso della morte dobbiamo anche aggiungere che trattandosi di una esperienza non ripetibile e non reversibile, la curiosità resterebbe comunque insoddisfatta, per lo meno sul piano comunicativo, mantenendo l’impossibilità di sapere se dopo la morte accada qualcosa di diverso dalla nientificazione heideggeriana (Heidegger 1992).

    Possiamo approfondire la «natura della morte [solo] attraverso l’esperienza della fine altrui» (Di Nola 2005, p. 19) il che le conferisce lo status di evento tipicamente sociale (ibid.), amplificando il ruolo della collettività. Insomma la mappa fa la differenza e le comunità in cui viviamo, parlando di morte, per garantire la propria continuità, ce ne propongono di più o meno affidabili, creando dei punti di riferimento che ci permettano di vedere, o forse meglio, immaginare, luoghi che l’uomo vivo, come tale, non può sperimentare. L’affidabilità della mappa non è legata alla sua efficacia orientativa razionale, ci serviamo invece di navigatori culturali che ci danno la direzione, come Virgilio per Dante Alighieri, nella Divina Commedia, come nelle molte catàbasi che costellano la mitologia greca e latina, come nel testo assai diffuso della Bibbia. Tutte queste mappe, in un certo momento nel nostro tempo e nel nostro spazio, ci rendono meno insopportabile il corpo umano morto, la morte degli altri e persino il pensiero della nostra stessa morte, trasformandola in una tappa (Thomas 1985). Sono le comunità, attraverso la «sociabilità densa» (Fabietti, Matera 1999, p. 24), a portare memoria con «una cooperazione solidale […] strettamente legata all’esistenza di forti e diffuse relazioni parentali affettive» (ibid.). Le comunità, attraverso i loro componenti, vivono l’esperienza della nascita delle persone e della loro fine, alla quale cercano di dare un senso, attraverso un rituale, per garantire la continuità culturale, «Ce rituel de mort serait en definitive un rituel de vie» (Thomas 1985, p. 121).

    Vedremo più avanti che nella nostra cultura la morte è considerata un accidente divenuto ereditario, un destino inflitto da una divinità o da uno stregone, una punizione (Ariés 1985), in seguito a un percorso che ci ha allontanati dalla morte intesa come fatto naturale, ossia appartenente alla dimensione ontologica di tutti gli esseri viventi, dove la naturalità della morte non deve essere intesa come un elemento qualitativo positivo, mitizzante, che renda l’idea di morte meno greve, ma semplicemente come parte del divenire planetario (Elias 1985). L’allontanamento ha avuto come destinazione la formazione di una escatologia umana che ridisegna radicalmente il confine a valle della vita, attribuendo agli uomini un passato in cui erano immortali, quindi la morte viene rappresentata come una sorte che tocca agli uomini in seguito a cambiamenti materiali e simbolici assai rilevanti. Questa mappa, come vedremo, oltre a stabilire le basi mitologiche dell’ontogenesi umana, collegandole alla volontà di una o più divinità, provvede anche a stabilizzare l’ordine sociale dei sistemi culturali che l’hanno prodotta e a trasformare la morte in una soglia oltre la quale c’è qualche altra forma di vita.

    1.2.1. La comparsa della morte e la stabilizzazione delle relazioni di potere

    Nelle culture mesopotamiche, a partire dal III millennio a.C., nei miti fondativi possiamo trovare chiare indicazioni relativamente alla creazione degli uomini e alla loro iniziale immortalità (Verderame 2014). Nel poema babilonese Atra-hasīs il dio Enki, dopo aver sedata la rivolta degli dei minori che non vogliono più lavorare per quelli maggiori, li sostituisce creando gli uomini, ricavandoli dall’argilla mescolata alla carne e al sangue del dio capo dei rivoltosi, il cui spirito, per punire l’insubordinazione e come monito per gli altri rivoltosi, viene relegato negli Inferi (ibid.). Gli uomini, così, risultano incorporare anche una parte di sostanza divina, che garantisce al loro spirito l’immortalità. Nella variante sumera del mito, la prima generazione di uomini che sostituirono gli dei minori nel lavoro era immortale, conseguentemente nel tempo di poche generazioni la terra si riempì di uomini chiassosi, che impedivano agli dei di riposare e per punirli il dio supremo Enlil, li uccise tutti con un diluvio universale⁹. Per la nuova generazione di uomini creata dopo il diluvio, gli dei stabilirono che la vita avesse una durata limitata (ibid.), dando inizio, conseguentemente, alla morte.

    Nella mitologia religiosa cristiana, più vicina nel tempo e soprattutto assorbita dal sistema culturale occidentale, in particolare da quello italiano, la morte ha un inizio densamente popolato di conseguenze culturali, talmente importanti da essere determinanti, anche se in modo spesso trasparente, cioè non visibile, in molti ambiti dell’organizzazione sociale e della vita di relazione nella nostra quotidianità, ben al di là degli ambiti prettamente religiosi. Per quanto riguarda gli estratti della Bibbia che presenterò di seguito per approfondire il tema della morte, credo sia importante chiarire che non intendo proporre alcuna lettura di carattere teologico ai Testi. Mi limiterò a dare una interpretazione antropologica di alcuni eventi presentati dal mito, che vengono raccontati con uno storytelling estremamente efficace, popolato di personaggi le cui funzioni si allineano con quelle che Propp individuò nella morfologia delle fiabe (Propp 2000). Esistono dispute dottissime sulle traduzioni dei testi biblici e sulla loro esegesi ma qui non daremo loro alcuno spazio, poiché ci limitiamo a considerare che la Chiesa cattolica romana ne ha scelta una specifica traduzione¹⁰ dandole l’imprimatur, ritenendola quindi «Dei Verbum»¹¹, e da quella trarremo le citazioni che seguono. Nel mito fondativo cristiano la potenza generatrice assoluta, da cui tutto discende, è una soltanto, Dio l’Onnipotente, la cui opera è raccontata nella Creazione che apre la Genesi, primo libro del Pentateuco. Dopo aver creato l’uomo, maschio, Dio si rivolge a lui stabilendo una prima regola d’obbedienza, un divieto e una messa alla prova (ibid.), in base al contenuto della quale, noi sappiamo che Adamo viene creato immortale:

    ¹⁵Dio il SIGNORE prese dunque l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo lavorasse e lo custodisse. ¹⁶Dio il SIGNORE ordinò all’uomo: «Mangia pure da ogni albero del giardino, ¹⁷ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare; perché nel giorno che tu ne mangerai, certamente morirai» (Genesi 2:15-17).

    Dio ordina all’uomo di mangiare qualsiasi frutto presente nel giardino, con l’esclusione di quelli dell’albero della conoscenza del bene e del male, non spiega ad Adamo perché non debba farlo, l’ordine si limita a stabilire la conseguenza dell’insubordinazione, ossia la morte. È interessante notare come il morire, alla sua prima apparizione nel testo sacro, acquisisca immediatamente una valenza punitiva, essendo stabilito che la rottura dell’alleanza imposta dalla divinità alla sua creatura, abbia come conseguenza la fine dell’immortalità. Secondo questo disegno, dunque, la natura umana è immortale e il venir meno di questo stato è legato al venir meno dell’uomo all’obbedienza al suo Signore, obbedienza che non è connessa alla comprensione della regola, il cui senso non viene spiegato ad Adamo, ma all’autorità dell’estensore del precetto e al timore per la punizione. È importante anche sottolineare che la punizione della morte è collegata alla proibizione del consumo di frutti di un albero particolare, quello della conoscenza del bene e del male, il che crea narrativamente una relazione diretta fra la conoscenza e la morte e, per converso, fra l’ignoranza e l’immortalità che, in ultima analisi, è garantita dall’obbedienza alle regole imposte dal proprio Signore, a prescindere dal motivo per cui siano state fissate.

    L’ultimo atto creativo del capitolo della Creazione ha un legame indiretto, ma interessantissimo e premonitorio, con il morire, poiché rappresenta mitologicamente un rovesciamento della generatività. Accade infatti che, pur avendo l’Onnipotente popolato la vita di Adamo con animali di ogni tipo «l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile» (Genesi 2:20) quindi Dio

    ²¹[…] fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. ²²Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. ²³Allora l’uomo disse: Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa perché dall’uomo è stata tolta (Genesi 2:21-25).

    In questa fase il racconto attribuisce a Dio un’inversione, di fatto, del processo generativo che gli esseri umani sono abituati ad osservare, cioè, fermo restando il ruolo divino nel dare la vita, attribuisce al corpo maschile una forma di antropopoiesi (Remotti 2010), dal maschio è tratta la prima femmina della specie, «dall’uomo è stata tolta», è una sua costola. Quest’operazione, narrativamente anche chirurgica, è indispensabile al funzionamento del racconto; attraverso Eva¹², infatti, verrà portata a termine l’inversione generativa che porrà le

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