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Impolverati racconti dalla soffitta. Piccole storie ritrovate
Impolverati racconti dalla soffitta. Piccole storie ritrovate
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Impolverati racconti dalla soffitta. Piccole storie ritrovate

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About this ebook

Riuscirà a salvarsi il prigioniero numero 17? E perché si trova in quella claustrofobica cella? Cosa legge, in quel piccolo foglietto, il presidente Intergalattico dell'Universo? Chi è in realtà il terribile Fenix, il cavaliere della fenice, che le legioni Romane non riescono a sconfiggere in nessun modo? Cosa succederà, alla foresta di Mojamba, nel momento esatto in cui il buio di un'eclissi di Sole calerà sul mondo? Storie originali, surreali, a volte grottesche, che spaziano da un tema all'altro, dando vita a innumerevoli personaggi che si muovono all'interno di sempre nuove e incredibili vicende. Spingendosi oltre la banale narrazione di una storia, osando sperimentare, lasciando un segno, scuotendo il lettore, facendogli vivere unagirandola di emozioni e invitandolo a riflettere. Racconti uniti dal filo invisibile della fantasia e dell'originalità. Una raccolta che spesso vi farà porre domande. E che vi inviterà a trovare le risposte.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateMay 31, 2022
ISBN9791220398664
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    Impolverati racconti dalla soffitta. Piccole storie ritrovate - Andrea Scurosu

    Prefazione

    Erano molti anni che non leggevo, agiatamente seduto sul mio vecchio divano, il piccolo libro in cui era racchiusa la mia prima fatica letteraria: Ti presto una storia, raccolta di racconti giovanili pubblicata, nel 2012, tramite una delle allora nascenti piattaforme di self-publishing.

    Rileggendola, con occhi più vecchi di dieci anni e tanti, forse troppi accadimenti alle spalle, ne sono scaturiti sorrisi, qualche smorfia di disappunto e, infine, l’inevitabile tuffo nei ricordi che produce qualcosa che si è scritto con passione ma su cui, poi, non si è mai ritornati per molto, molto tempo.

    Oltre alla nostalgia o, come avrebbe detto un mio caro amico, la nostalgioia, leggendo fra quelle strette righe mi sono reso conto, pian piano, che Ti presto una storia è stato un buon lavoro, ma che richiedeva degli aggiustamenti, delle migliorie, per definirsi completo e soddisfacente. Erano necessari alcuni colpi di martello dove fosse servito e, in alcuni punti ben precisi, attenti ritocchi di cesello.

    Insomma, miei cari, sono stato assalito dalla più classica voglia di tornare sul luogo del delitto, rinnovarsi agli albori. Un errore, forse? Chissà.

    E così, dopo aver trangugiato alla grande bottiglie, bicchieroni, damigiane di letteratura (mie e, per fortuna, di altri) inebriandomi dei mille sapori che quest’arte può produrre in tutte le sue sfaccettature, in un romanzo quanto in una sceneggiatura teatrale ad esempio, sono tornato là dove era iniziato tutto: alla solitaria sorgente d’acqua.

    Impolverati racconti dalla soffitta è quindi una sorta di meta-racconto, una raccolta della raccolta; il tentativo, verosimilmente, di narrare faccende che sembrano scritte da un altro, se viste dai miei occhi di oggi.

    Occhi che non sono altro che (ancora!) quelli dell’autore stesso. Forse più maturo, più smaliziato e padrone del mezzo ma, questo è certo, sempre con una gran voglia di (ri)scoprire.

    Ecco qui i migliori racconti superstiti dunque, i sopravvissuti, da cui ho tentato di toglier via la polvere che vi si era pigramente posata sopra con gli anni.

    La mia speranza è che, sotto quella patina, in realtà, questi testi siano ancora vividi, pronti a farvi riflettere, emozionare e sorridere.

    L’Autore

    Usa la nostra forza, vieni qui.

    Ora siamo una tribù,

    siamo una tribù di guerrieri.

    The Doors, Oliver Stone, 1991

    Non sono ricordi tuoi,

    sono di qualcun altro.

    Della nipote di Tyrell, forse...

    Blade Runner, Ridley Scott, 1982

    Morte del Dio Pallone

    Ricordo d’Infanzia

    (Ode al Calcio dei Tempi Dimenticati)

    Capitò tutto in una solare giornata di fine maggio, quando la chioma degli alberi di fronte casa era verde, brillante, viva di vita in effetti, qua e là punteggiata dai primi bagliori aridi dell’estate che, a breve, sarebbe giunta annunciando il sapore di vacanze scolastiche.

    Sopraggiunse tutto che ero ancora un ragazzino (dieci forse undici anni) quando mi trovavo, come abitudine richiedeva, a confabulare con il mio amico di scorribande riguardo al modo in cui avremmo trascorso l’ennesimo pomeriggio d’avventure, fatto di corse automobilistiche sferragliate su trabiccolanti carrelli, partite a calcio contro finestre pronte a essere rotte e subito dopo gridate da mia madre o di inverosimili storie di orchi ed elfi narrate e combattute al suono di dadi rossi, nella magia d’inesistenti stanze fatte di cartone e regole mutevoli all’istante.

    Il campo di battaglia, quella volta, fu il cortile di cemento.

    Un posto quadrato, piccolo, minuscolo, se visto tanti anni dopo dai miei occhi di giovane annoiato fuggito alla routine, ma enorme se osservato dagli occhi di allora, da quelle due castagne che sfarfallavano su ogni particolare mi capitasse a tiro: la botola della cantina che conduceva diretta al centro della Terra (grazie, vecchio Jules), quei due pali di ferro piantati nel muro, che sembravano urlare l’imperativo forza, salta su e divertiti saltimbanco!, la serranda giallognola a forma di porta da calcio, di una perfezione quadratica direi quasi al pi-greco, perfettamente in regola con le dimensioni rettangolistico-calcistiche che m’inventavo di pomeriggio in pomeriggio. Le vetrate multicolori dietro le quali mi aspettavo di veder spuntare il Gobbo di Notre Dame avvolto da intangibili ghirigori d’albore e tenebra, e tante altre cose che un bambino poteva sognare nel suo fantasmagorico cortile di casa.

    In più, abitavo al pianterreno e quindi per me e varia compagnia familiare, quel luogo era una seconda casa. Il nostro punto di sfogo per tirare con l’arco, per sane partite di pallone, corse a rotta di collo, nascondino col fiatone, barbecue, parcheggio abusivo di 127 granata stracarica e pronta per incredibili viaggi verso isole esotiche o sotto la Tour Effeil, e quant’altro voi possiate immaginare.

    Quel cortile era tutto ciò per me.

    Il luogo in cui mi si trovava (statene certi) se non ero a letto o, ahimè, davanti alla tv, immobile a occhi aperti, incantato da gol che tastavo con minuscole dita sul televisore catodico, al suono di 90° Minuto; lì esterrefatto, a bocca aperta mentre vedevo la testolina riccioluta di Maradona alzarsi, guardare qualcosa laggiù a più di quaranta metri, e bang.

    It’s a Kind of Magic cantavano i Queen in quegli anni.

    Oppure preso a guardare, ad altrettanta bocca aperta, le prodezze del Giovane Codino, che allora non si chiamava ancora così perché non l’aveva (il codino), che un bel giorno ha alzato il cappello, ha dribblato mezza Napoli (Golfo compreso) proprio di sua Maestà Diego, per rifilare una bella banana flambé all’incredulo portiere caduto alla difesa.

    Insomma, quando non ero appiccicato alla televisione a guardare cartoni animati di orientale provenienza o gol dall’angolazione iperbolicamente geniale, di solito mi trovavo proprio lì, in cortile.

    A inventare qualcosa di nuovo.

    E quel nuovo c’era sempre, davvero ogni giorno.

    Come la volta che morì il Dio Pallone.

    Eccomi qui, appoggiato all’ultimo scalino del balcone, davanti al cancello che dà sul cortile.

    Eccomi qui, annoiato come ogni pomeriggio intorno alle quattro e qualcosa, minuto più minuto meno, mentre lui se ne sta di là, sul divano, spaparanzato come un principe in un harem, a divorar cioccolato e pane isolano, a masticare cartoni animati di improbabili giocolieri dalle casacche monocromatiche con nomi da telefilm inglese di terz’ordine, che hanno il vizio di calciare palloni-luce con velocità prossime a quelle relativistiche.

    E io qui, in silenzio, rosso di rabbia (lo ammetto, io sono sempre rosso) mentre aspetto un suo gesto, qualcosa che mi faccia capire che oggi mi muoverò anche io.

    Invece continua a stare di là, in soggiorno, mentre qui c’è pure sole e bel tempo…

    E se non volesse più giocare con me?

    Magari ha trovato altro (si sa, i ragazzini sono volubili).

    Bella roba va… bella roba, fare il Dio Pallone.

    Fu così che il suono inconfondibile del campanello mi vibrò nei timpani. Dico inconfondibile perché, da bambini, lo sappiamo bene, siamo più ricettivi agli stimoli esterni rispetto a noi stessi adulti.

    Da bambini si riesce a riconoscere, da una scampanellata di campanello, se chi ha citofonato è tua sorella, tua zia o, suono ben diverso, il tuo migliore amico. Funziona così per altri mille rumori che da grandi non avvertiamo: riconoscere tuo padre che, a sera inoltrata, torna da lavoro solo dall’eco dei suoi passi nell’androne del palazzo (inconfondibile il colpo di tosse: quasi sempre tra le 23.10 e le 23.15), riconoscere l’auto della famiglia che si spegne borbottando sotto la finestra di casa, tuo fratello nella sua stanzetta notturna che ascolta il gracchiante e quasi impercettibile urlo dei The Cure o tua sorella che salmodia strambi versi a gambe incrociate e in meditazione, facendoti credere per anni di aver avuto una sorella maggiore Mahatma, anziché una prossima laureanda in psicologia e affini.

    Dal campanello riconobbi il mio amico di scorribande e, subito, ci catapultammo al balcone di casa. Il mio mitico SuperTele (il pallone) era buttato a terra, davanti al cancello, tra scope e giornali vecchi. Aprimmo il cancello di ferro con un gesto veloce e cigolante e, senza indugio, fummo pronti alla sfida del giorno: porta a porta, ma non quella condotta dal Signore dei Nei, Bruno Vespa, bensì quella che apriva ogni pomeriggio di gioco: calciare da una parte all’altra del cortile tentando di farsi gol.

    E così ci ritrovammo a tirare con forza sovraumana, come se il pallone dovesse percorrere la distanza Terra-Luna, anche se il cortiletto non andava molto oltre i venti metri di lunghezza.

    Tutto nella norma, finché nella mente di uno di questi geni del male formato nanerottolo non comparve la solita idea folle, ma folgorante, a cui l’altro ovviamente non poteva dire no.

    Il no da piccini è solo un optional e i bambini, questo è noto, quando sono legati da profonda amicizia divengono tremendamente frugali.

    Va bene fare del movimento, ma odio quando si mettono a giocare porta a porta!

    Mi prendono a calci come se fossi il loro peggiore nemico!

    E lo chiamano gioco!

    E ridono!

    E si divertono!

    E non si rendono conto che sono rosso di rabbia, perché non posso ribellarmi!

    Ah, già…

    Io sono sempre stato rosso, fin da quando mi ha comprato in quel negozio di giocattoli.

    Ho male dappertutto, davvero.

    Che dolci che sono però questi due, quando ridono così…

    Senza pensare a nulla se non a me, senza pensare alla loro vita futura…

    Fanno proprio tenerezza, anche se mi dimenticheranno in fretta, appena un nuovo eroe di latta o ingranaggi o incastri, abbaglierà i loro occhi…

    Con la prontezza di due berretti verdi (erano gli anni di Rambo), ci lanciammo in direzione dell’entrata del palazzo liberty, intenti a tirarci il pallone da angolazioni difficili da comprendere ora ma, non so come, facilissime da eseguire all’epoca. Come fossimo stati due funamboli venuti alla festa.

    E così, via, palleggio e a te, stop, me la alzo, palleggio e te la ripasso, così fino al portone del condominio che, cosa più unica che rara, era spalancato.

    A uno dei due piombò quindi la palla fra i piedi e, con l’innocenza che può essere custodita solo da un fanciullo, decise di spararla alla velocità di duemila chilometri orari. Bersaglio: la strada.

    Lei, la palla, stanca, spossata, rimbalzò pigramente per finire in mezzo alle rotaie del tram ed ecco che, un secondo dopo, piombò su di lei il gigante arancione fatto di ferro e vetri, e persone frettolose.

    Urlammo l’Apocalisse.

    Il Dio Pallone era a un passo dal triplice fischio della morte.

    È giorno, ma se fossi l’attore di un film drammatico, vedreste due luci baluginare nel buio della notte, poi il fischio del treno, poi il suo suono ritmico e tambureggiante prodotto da taglienti ruote di ferro sempre più vicine.

    Sono morto, manca poco!

    Il tram è quasi su di me, e io non ho avuto il tempo di vedere un po’ il mondo, sempre relegato in quel cortile.

    Chissà cosa c’è al fondo di quella strada?

    Non lo saprò mai.

    Quel maledetto tram chiamato omicida investì in pieno il nostro Dio Pallone.

    Noi lo spacciammo per defunto, eppure lui sbucò dal fondo del tram stesso, rimbalzando divertito, come se si fosse preso gioco di tutti e soprattutto di noi, e delle nostre facce con tanto di bocche e occhi spalancati.

    Ci guardammo senza credere a quell’ennesima prova di capacità sovrannaturale che ci aveva appena mostrato il Dio Pallone.

    Un incendio, molteplici cadute da mirabili altezze, arrugginiti e subdoli spuntoni, niente aveva fermato, fino allora, il Dio di caucciù, e nemmeno un intero tram.

    Poi, giunse la Dea Cinquecento.

    Naturalmente in versione old.

    Ho resistito a tutto, come un soldato dell’Italica penisola che si è sbattuto le due guerre, la Grande e la Crudele, eppure contro di lei non posso nulla.

    La Cinquecento è troppo anche per me.

    La piccola tartarughina mobile travolse, ancora una volta, l’indomabile, indistruttibile, invulnerabile Dio Pallone.

    Eccola lì, la tipica fregatura che non ti aspettavi, e che non ci aspettavamo noi piccoli bambini di iniziatica volontà calcionesca.

    Corremmo subito al capezzale del nostro Dio, ridotto a brandelli, che aveva resistito a due guerre eccetera eccetera, ma non alla violenza sussultoria e meccanicamente traballatoria della Cinquecento vecchio stile.

    Osservammo i resti esanimi del nostro personale Dio, tristi come se il nostro migliore amico fosse partito per una colonia senza mai ritorno, abbattuti di spirito come quando la tua squadra del cuore perdeva tre a zero, dico 3 a 0, e senza che potessi vedere il servizio in tv sulla partita, perché era tardi e mamma voleva che filassi a letto.

    Eravamo tristi, come lo si è quando si perde un Dio.

    Ci adoperammo per fare l’unica cosa che noi iniziati del Pallone potevamo fare: celebrammo un rito funebre nel beneamato cortile.

    Dopo aver raccolto i resti rossicci e sbiaditi del Dio, lo portammo in ossequioso silenzio fino alla Bara di Legno, una vecchia cassetta della frutta posata in un angolo, e lo deponemmo con delicatezza.

    Fu eseguito un breve funerale durante il quale la passione e la malinconia presero il sopravvento.

    La celebrazione fu fatta di ricordi delle azioni più belle che il Dio ci aveva permesso di compiere: ti ricordi la rovesciata che ho fatto dal fondo del cortile? Sì, e la volta che ti ho parato il rigore con la punta del piede anche se ero tutto sbilanciato?

    Decidemmo che il Dio andava lasciato libero, e che il suo spirito avrebbe fatto divertire qualcun altro.

    Pensavamo che, magari, il Dio Pallone sarebbe andato a giocare tra gli angeli, avvantaggiati nei colpi di testa per la presenza di ali piumate.

    Ci voltammo e, con il rispetto pari a quello che si ha nei confronti dell’amico per la pelle, andammo incontro alla vita, una nuova vita, nella quale avremmo mantenuto sempre il ricordo del nostro mitico, impareggiabile, unico, Dio Pallone.

    Grazie ragazzi.

    Avete fatto fin troppo per me, addirittura un funerale!

    Sono commosso, onorato da tanto affetto.

    Vi terrò per sempre nel mio cuore di caucciù e, prima di andare nei celesti prati dove non sussiste la gravità, non posso fare altro che benedirvi:

    I vostri piedi rispettino mai le leggi della dinamica,

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