Altri racconti
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Gruppo delle Apuane: mole possente di lavoro non ancora nato. Dalle mille strade di lavoro che in esse hanno avuto la sorgente e che si sono allungate per la penisola, sui mari, per sfociare, infine, nei cantieri, nei laboratori di tutti i continenti, si può, con fede, credere alle mille, centomila nuove polle di lavoro che da esse scaturiranno nei secoli futuri. Verranno nuove, nodose mani a strappare la roccia, a martellare le pareti; nuovi boati franeranno, di vallata in vallata, a portare, giù, sulle sponde del Carrione, ad Apuania, ove avranno ansiti nuovi le segherie e battiti vigorosi i laboratori, la notizia che nuovo lavoro è nato.
Verranno, allora, scapezzatori, squadratori, lizzatori, filistri, tecnici, scultori, architetti ed i monumenti sbocceranno, e gli edifici, gli stadi sorgeranno."
Terra di Apuania, Biagio Zagarrio.
Biagio Zagarrio nacque a Ravanusa nel 1898 e, laureatosi in giurisprudenza, esercitò la professione di procuratore delle imposte alternandola alla carriera di poeta e scrittore. Zio del poeta Giuseppe Zagarrio, nel 1949 vinse con la raccolte di liriche Sereno il Premio Viareggio per la poesia ex aequo con Ugo Moretti.
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Altri racconti - Biagio Zagarrio
Terra di Apuania
Il gruppo delle Alpi Apuane, massa possente di energie accumulate nei lontani millenni dalla provvida natura, domina queste terre d’Apuania.
Gruppo delle Apuane: mole possente di lavoro non ancora nato. Dalle mille strade di lavoro che in esse hanno avuto la sorgente e che si sono allungate per la penisola, sui mari, per sfociare, infine, nei cantieri, nei laboratori di tutti i continenti, si può, con fede, credere alle mille, centomila nuove polle di lavoro che da esse scaturiranno nei secoli futuri.
Verranno nuove, nodose mani a strappare la roccia, a martellare le pareti; nuovi boati franeranno, di vallata in vallata, a portare, giù, sulle sponde del Carrione, ad Apuania, ove avranno ansiti nuovi le segherie e battiti vigorosi i laboratori, la notizia che nuovo lavoro è nato.
Verranno, allora, scapezzatori, squadratori, lizzatori, filistri, tecnici, scultori, architetti ed i monumenti sbocceranno, e gli edifici, gli stadi sorgeranno.
Il lavoro già nato ha lasciato, nel corso dei secoli, le sue tracce sulle montagne Apuane; qua e là brevi intacchi nelle cime, lasciano che qualche nuova stella si affacci, a notte, a guardare Carrara, giù a valle, adagiata nel sonno. Qualche breve ferita è rimasta aperta sul dorso, sui fianchi e da essa sono scivolate scie di detriti, come tenera neve.
Lavoro già nato dalle aspre fatiche dei cavatori Apuani: brevi, poveri intacchi sul grigio delle montagne.
La massa di quello non ancora nato si erge compatta, immensa sulle terre Apuane, in attesa.
Sulle tenere sabbie delle marine di Carrara, di Massa ai primi caldi, sbocciano gli ombrelloni e le voci dei dialetti più vari.
Dietro alle cabine, subito dopo la litoranea, ha inizio il verde degli orti, dei campi, dei giardini: si stende da Marinella a Montignoso, sale rigoglioso fin sopra ai colli che circondano Carrara, che dominano Massa. Volti bruni di contadini girano tra il verde: mani sapienti potano la vite, innestano l’arancio, piantano l’ulivo, regolano filari di cavoli, di lattuga.
Nella piana reti e raccordi, energie nuove, stringono le due antiche città nella più grande Apuania; ma questo non è il volto, il vero volto della gente Apuana. Esso mi si è rivelato una notte lungo la strada a monte che conduce da Massa a Carrara.
Avevo assistito ad una rappresentazione straordinaria di Lorelay, ricorreva il centenario della morte di Catalani, al teatro Guglielmi di Massa. Si ritornava a Carrara; i fari dell’auto scovavano, fermandoli in un’attesa spettrale, parapetti, pali telegrafici, vecchi contorti ulivi, costoni di monte. Ad un tratto, nella scia luminosa, furono presi uno, due, tre uomini in marcia lungo il bordo della strada; poi un altro, un altro ancora. La teoria dei marciatori non aveva fine.
La macchina avanzava, l’ombra inghiottiva l’ultimo marciatore, i fari ne scoprivano altri ancora: camminavano l’uno a qualche metro dall’altro: passo lungo, giacca sulla spalla, cappello largo calcato sulla fronte: nessuno di loro si voltò a guardarci:
— Dove vanno?
— Alle cave – rispose il mio antico Milani.
— Alle una?
— Già, per trovarsi sul posto, all’alba.
Da Massa, lungo la strada a monte, da Carrara, lungo la Carriona; su per gli aspri sentieri, marciavano i cavatori all’attacco della roccia: un attacco che si ripeteva ogni giorno, da secoli, con morti e feriti. Un lavoro che ha fortificato il cuore ed il braccio di questi lavoratori, che li ha abituati a tutte le gioie, li ha temprati a tutti i lavori.
Pellegrino Rossi, Tacca, Dazzi, Fontana, Lazzarini, cari nomi di grandi Apuani; ma dentro, nel mio ricordo, risuona più caro il tonfo dei passi di quei marciatori; degli anonimi cavatori Apuani; uomini dal fiato lungo e dai muscoli sodi.
Son venute ore difficili a stendere veli di silenzio su molti lavoratori e segherie. In molte cave pesa il freddo bianco dei cimiteri: i blocchi giacciono anneriti dal tempo sui piazzali; tacciono i fili elicoidali, arrugginiscono le corde delle lizze
attorno ai gavitelli.
Giù, nella piana, son nati rotaie e raccordi; scheletri di stabilimenti vanno mettendo la polpa rosea delle pareti. Qualcuno già fuma dai suoi camini e risuona di voci, di martelli.
Centinaia di