I draghi di Komodo
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Anteprima del libro
I draghi di Komodo - Sergio Figuccia
Prologo
Il vaso di Pandora
Un antico mito greco descrive la incomparabile e unica caratteristica di un dono fatto da Giove a Pandora.
Si trattava di un vaso sigillato che conteneva tutti i mali e i peccati del mondo, ma insieme a essi, proprio sul fondo di quel contenitore, era conservato gelosamente un bene prezioso, che da solo poteva opporsi a tutta quell’accozzaglia di vergogne e immoralità: la speranza.
Da sempre mi sono chiesto se questa leggenda ellenica fosse stata ideata per valorizzare il concetto di speranza o, considerando la successiva infausta apertura di quel recipiente, per dimostrare ai comuni mortali l’impossibilità di tenere a bada il male, che è invece destinato a spargersi, in qualsiasi modo e per qualsiasi causa, tutto intorno a noi, quindi più della Vodafone e meglio di Banca Mediolanum, tanto per parafrasare due noti spot televisivi di oggi.
D’altronde dentro l’anima di ogni uomo c’è sempre una sorta di vaso di Pandora. Siamo noi stessi i contenitori di tutte le cattiverie e le colpe della nostra vita, e quando non si tratta di quelle generate da noi stessi, conserviamo il ricordo del male causato da chi ci sta vicino e che, in qualche modo, ci ha toccato e ci ha ferito.
È vero, ci teniamo dentro anche la speranza, ma quella notoriamente è l’ultima a morire e quindi rischia di seppellire anche noi stessi, restando, quale unica sopravvissuta, a verificare l’evolversi dei fatti, magari anche in senso positivo, ma senza la nostra presenza.
Ritengo quindi necessario aprire il mio personalissimo Vaso di Pandora per liberarmi di tutti quei tormenti patiti nel mezzo del cammin della mia vita, prima che i ricordi collassino nel triste buco nero della memoria generato dalla mia stessa vecchiaia.
Raccontare il cronologico svolgimento dei fatti di quel periodo alleggerirà il peso sostenuto dalla mia coscienza per questa storia nata dal malessere di convivenza, evoluto in odio immotivato e sfociato infine in tragedia.
Capitolo 1
Amici miei
Il mio umore è stato sempre strettamente legato alle condizioni meteorologiche, e quel dannato cielo, che intravedevo dalla finestra accanto al lettino dove ero disteso, con quel suo virare continuo dal grigio cenere al grigio topo, mi dava già da solo il tono e lo stato d’animo di un condannato ai lavori forzati.
«Quindi, secondo lei, si tratta di stress legato all’eccessiva continuità dei rapporti con questa gente?» osai dedurre anticipando il dottore di almeno dieci sedute.
«Non salti subito alle conclusioni, le ho solo fatto notare che conosce da almeno vent’anni le persone che mi ha descritto. Questo però non vuol di certo dire che lei si trova in questo stato di depressione a causa delle relazioni con i suoi amici; è solo il motivo per il quale, oggi più che mai, può dire di conoscere molto bene gran parte dei personaggi che costellano la sua esistenza, anche se è ormai nota l’impossibilità di comprendere veramente a fondo chiunque, a causa dell’imperscrutabilità tipica dell’animo umano.»
«Ma alcuni sono totalmente diversi... oggi stento a identificare in loro i cari ragazzi di un tempo.»
«Chi le assicura che questo non valga anche per loro nei suoi confronti?»
«Certo anche io non sono più quello di vent’anni fa; sarò retorico ma non posso fare a meno di dire che è passata troppa acqua sotto i ponti.»
«È un fenomeno più che normale; sia io che lei, i suoi amici e tutto il resto del mondo siamo diventati sensibilmente diversi nel tempo. Ognuno di noi è stato soggetto e oggetto di trasformazioni sociali troppo forti per non subirne l’influsso; la soluzione al problema sta nel non farsi coinvolgere eccessivamente. Quell’acqua che è passata sotto i suoi ponti, che poi sono anche i ponti di tutti, si è rivelata troppo turbolenta e impetuosa, per non essere trascinato dai flutti occorreva quindi che ognuno di noi riuscisse ad aggrapparsi a qualcosa, a quel famoso ramoscello che aderendo alla terra ferma avrebbe impedito di soccombere alla corrente. Molti ci sono riusciti, trovando anche nuovi scopi nella vita... altri purtroppo no.
«Ma a me sembra che l’unico scopo di vita, che hanno tutti in comune, sia quello di sopraffare il prossimo con qualsiasi mezzo, non conta più nulla se non l’apologia di se stessi e l’autoreferenzialità.»
«Lei sa benissimo che la natura tende sempre a migliorare la specie. Così i più forti si sono adeguati alla necessità di farsi largo solo a spintoni e gomitate per poter sopravvivere, e riusciranno a resistere; per gli altri c’è il rischio estinzione. Lei in questo scenario come si colloca?»
«Mah! Mi colloco in bilico! Mi disturba il pensiero di una società basata solo sul concetto mors tua, vita mea, mi affligge l’idea di una collettività priva di rispetto per gli altri e di solidarietà per i più deboli, capace soltanto di esaltare l’egoismo allo stato puro e la competitività assoluta. Se i più forti dovranno essere così... forse preferirei estinguermi.
«Sia chiaro che la mia è stata solo una provocazione. Personalmente non credo che personaggi di quel tipo possano essere considerati forti. Per me sono e resteranno sempre delle canaglie che non meritano alcuna considerazione, ma ho bisogno di capire perché lei si fa coinvolgere tanto da questi miserabili, da dover ricorrere all’aiuto dello psicoanalista. Ho avuto in passato altri pazienti affetti da quella che io chiamo la sindrome di Cristo, una sorta di fissazione che li costringeva a rilevare di continuo tutti i difetti degli altri e a farne un personalissimo fardello, quasi fosse una punizione da portare sulle spalle per tutta la vita. La sua non dev’essere una croce esclusiva, ma deve rendersi conto che si tratta di una piaga sociale effetto dei tempi e frutto delle difficoltà del nuovo vivere civile; non si ritenga l’unica vittima, lo siamo un po’ tutti e, a turno, anche quelli che lei disprezza tanto si troveranno nelle condizioni di subire gli stessi strali che in altre circostanze avevano invece lanciato.»
«Sarà!»
«Per oggi va bene sig. Broletti; ci rivedremo la settimana prossima.
Nel frattempo però, quando le capiterà di presenziare alle conversazioni che lei tanto detesta, la prego di provare a non controbattere, e a concentrarsi mentalmente sulla stoltezza dei suoi interlocutori che non meritano assolutamente alcuna replica da parte sua, né tanto meno un suo coinvolgimento.»
Era già la seconda seduta dallo psicoanalista, ma le mie fastidiose perturbazioni mentali non erano minimamente migliorate... anzi!
Da troppo tempo mi trascinavo dietro quella sorta di disgusto per gli atteggiamenti di quel mio gruppo di compagni di tempo libero che stentavo sempre di più a chiamare amici.
Ci si riuniva per cenare, e si finiva sempre seduti in salotto a pettegolare, sfottere e malignare sui disgraziati che avevano l’unica colpa di non essere presenti in quella circostanza.
In seguito le stesse vittime di quel tiro a bersaglio, rientrando in comitiva nel week-end successivo, da oggetto di ludibrio tornavano a trasformarsi in complici del linciaggio virtuale a danno dei nuovi assenti e così via, in una spirale di ottusa e spicciola cattiveria.
D’altronde, ormai da anni, gossip e maldicenze erano entrati prepotentemente nella nostra vita quotidiana tramite televisione e stampa cosiddetta specializzata.
Scimmiottando insulsi personaggi del piccolo schermo, o giornalisti falliti che potevano sbarcare il lunario solo scavando nella privacy del prossimo, per portare alla luce sepolti e inutili segreti delle vite altrui; tutti ritenevano ormai di essere autorizzati a gettare fango su tutti, e il pantano si estendeva sempre più alla velocità del suono, di quel suono osceno e pernicioso che sapeva di sberleffo.
La calunnia è un venticello che insensibile, sottile incomincia a sussurrar, sottovoce, sibilando, va scorrendo, va ronzando, nelle orecchie della gente s’introduce e le teste e i cervelli fa stordire e fa gonfiar. Alla fine trabocca e scoppia, si propaga, si raddoppia e produce un’esplosione... come un colpo di cannone!
Ecco! Proprio l’aria della rossiniana opera Il Barbiere di Siviglia riusciva a sintetizzare al meglio l’essenza dei nostri incontri, come se ne costituisse adeguata colonna sonora.
Quella sera quindi, dopo aver esternato la mia dose quotidiana di disagio sul lettino del terapista della mia psiche, decisi di chiudere la giornata godendomi in solitudine la partita di calcio di quel torneo che un tempo si chiamava genuinamente Coppa dei Campioni, ma che in seguito alla stravaganza di qualche malato di globalizzante esterofilia, era stato deciso di dover ribattezzare con un osceno e irripetibile Champions League (ogni natio in terra italica che ritenga di poter leggere questo termine con disinvoltura, provi pure a farlo senza sentirsi un deficiente con la semiparesi alla mandibola).
Avevo da poco pensato di spegnere il cellulare quando l’infernale apparecchietto mi suonò nelle mani quasi a volersi difendere, con quell’urlo, dalle mie dita che stavano per neutralizzarlo.
«Pronto?»
«Uhellà! Ciao Tommy.»
«Ciao Creo, come tira?»
«Alla mia età non tira mica tanto come una volta!»
«Non intendevo chiedere notizie sulle prestazioni del tuo sottoposto, volevo solo sapere se l’aria nel tuo habitat è ancora respirabile.»
«Mah! Sto sempre qui in studio a lavorare, lo sai, non mi va di trattare tanta gente, la mia aria è rarefatta, forse puzza un po’ di olio di lino, ma almeno è pulita e trasparente.»
Piemontese di nascita, Remigio Cresi era mio amico da oltre vent’anni; l’avevo conosciuto nell’occasione della recensione di una sua personale nei primi anni ‘80 in una Galleria del centro storico; a seguito del successo ottenuto proprio per quella mostra, e dal calore umano che lo aveva avvolto nella circostanza, si era trasferito definitivamente nella mia città, nella speranza di poter continuare la sua attività di pittore a tempo pieno senza particolari problemi.
Inizialmente era stato messo alla corda dalla difficoltà di trovare mercanti d’arte totalmente onesti e gallerie disponibili a scommettere sul suo nome, in un centro che, tutto sommato, era solo un paese gonfiatosi a dismisura.
Poi, lentamente, si era un po’ ripreso anche grazie al nostro piccolo gruppo di sostenitori che lo aveva aiutato a superare i momenti peggiori che erano seguiti al trapianto della sua arte in una realtà del tutto nuova.
D’altronde, l’assenza di una compagna capace di sostenerlo, e l’iniziale tribolazione nella ricerca di qualche amico sincero, lo avevano costretto a fare tutto da solo con le problematicità del caso, non ultima la paura di sbagliare i contatti o la tentazione di mandare tutto a quel paese.
Poi la sua grande voglia di fare e la sua carica di simpatia lo avevano aiutato a trovare un posticino nell’élite degli artisti locali con il soprannome di Creo, affibbiatogli dai suoi migliori estimatori e derivato dalla simbiosi fra il suo cognome, il suo nome e la vena creativa che lo aveva contraddistinto fin dal primo giorno del suo trasferimento in città.
«Stasera che fai?»
«Assolutamente nulla, Creo. Dopo la partita di Coppa avevo in programma solo una bella cenetta a base di carne in scatola e patate bollite in compagnia di Angela e di Superquark.
«Ah! Se devi trombarti questa Angela... sarà per un’altra volta!»
«Creo! Sto parlando di Piero Angela e di un programma televisivo, non fare lo scemo!»
«Lo so, stavo scherzando, ti pare che sto sempre a dipingere, anche io, come tutti i comuni mortali, mi rincoglionisco dinanzi la tv; volevo solo proporti di andare a mangiare una pizza assieme, se ti va.»
«Certo, ci vediamo sotto casa tua fra un’oretta.»
La mia scelta di vita da single coincideva con quella di Creo, ma mentre per me era solo una situazione temporanea che rischiava di degenerare da un momento all’altro in qualche estemporaneo fidanzamento, il mio amico artista era invece proprio un caso disperato, e c’erano ottime probabilità che la sua solitudine dovesse proiettarsi all’infinito, proprio come le prospettive dei suoi surrealistici quadri.
Era un caro ragazzo ma le sue manie e la sua testardaggine contrastavano troppo con le necessità e le aspirazioni delle donne della nostra città.
Aveva provato tante volte a istaurare relazioni durature con le signorine in cerca di accasamento che io e gli altri miei amici single ogni tanto gli presentavamo, anche per liberarci dai loro continui tentativi di placcaggio che attentavano al nostro libero e felice stato di scapoli impenitenti, ma avevo sempre assistito a un lento e progressivo disinteressamento nei suoi confronti da parte delle controparti del momento.
Inizialmente la donna di turno veniva affascinata dalla fantasia e dalla sensibilità dell’artista, poi col tempo però subentrava sempre, nella precaria coppia, una sorta di noia dovuta al ciclico ripetersi delle crisi da mancanza di ispirazione di Creo e alla sua conseguente necessità di isolamento dal resto del mondo.
Le pulzelle tornavano allora a sfogarsi con me o con gli amici che avevano avuto la brillante idea di presentarle a Creo, quasi volessero responsabilizzarci per quell’azione da paraninfi che avevamo compiuto ai loro danni; e non c’era verso di convincerle a pazientare... non ne volevano proprio più sapere, né Creo faceva nulla per rimediare e impedire la rottura delle varie relazioni.
Dopo i soliti giri infruttuosi fra le solite affollatissime pizzerie del nostro solito quartiere medio-borghese, optammo, almeno quella sera, per un locale fuori dalle mura cittadine; così, dopo una breve passeggiata in auto sulla statale, ci ritrovammo seduti a un tavolo di una deliziosa e semi-vuota trattoria di paese.
«Alla faccia della ciempions lingue, o come cazzo si chiama, questa sera ci sbafiamo una pizza dieci gusti, o anche quindici... e chi più ne ha più ne metta!»
«Ti vedo affamato, Tommy. Da quant’è che non mangi?»
«Sono un po’ appesantito e a pranzo mi limito a ingurgitare solo un po’ di frutta; dovrei però contenermi anche la sera, ma non ci riesco proprio. Stasera me ne fotto completamente. Mi voglio fare fuori una signora pizza che non mangio almeno da un mese.
«Per quanto mi riguarda va bene qualunque cosa, anche solo un’insalata e una birra; non ho fame e la pizza è stata solo un pretesto per poter scambiare quattro chiacchiere con te.»
«Creo, ti trovo nuovamente a corto di energia positiva... lo sai come la penso. Per la ricarica devi rivolgerti a una bella gnocca... un amico può solo esserti utile per gli sfoghi verbali, a te manca una grande scopata dai connotati storici... ma le occasioni che ti capitano per poterla fare le butti tutte nel cesso!»
«Ma non è vero, Tommy! Sono loro che scappano via. Di certo non c’è mai stato il grande amore con le ragazze che ho incontrato, ma speravo che il tempo avesse permesso la nascita di un qualche sentimento almeno in una di loro... purtroppo così non è stato. Comunque i miei problemi sono altri, alla castità ci sto facendo ormai il callo.»
«Ma quale problema non può essere risolto con una bella fottuta?»
«Dai, smettila di scherzare, ho le palle abbastanza a terra.»
«Cosa ti affligge tanto?»
Ci interruppe una bella ragazza che in precedenza, già nel consegnarci i menù, mi aveva sottoposto a ripetuto lancio di sguardi sensuali pieni di desiderio di conoscenza.
«Posso esservi utile?»
«Certamente signorina!» dissi strizzando l’occhio a Creo e sfoggiando sex-appeal a palate con la sicurezza di chi sa di sfondare una porta aperta.
«Mi hanno parlato benissimo di questo posto, e se è vero che il buon giorno si vede dal mattino, già la sua stessa presenza mi rassicura sulla bontà del consiglio che ho ricevuto.»
La ragazza arrossì visibilmente e, trascurando sempre di guardare nella direzione di Creo, sollevò il viso chinato sul blocco notes e incrociò ancora una volta la doppia linea invisibile che partendo dalle mie pupille si sospendeva nello spazio in attesa del suo sguardo.
Ondeggiando come seta dorata nello spicchio della calda luce alogena che la focalizzava, la sua bionda chioma raccolta sul capo sembrava simulare virtualmente gli spruzzi di una fontanella piazzata proprio sull’omonima zona molle tipica del cranio dei neonati.
«Ne sono felice» disse con un filo di voce chiaramente emozionata, «mi auguro che alla fine possa restare soddisfatto anche dai nostri piatti, cosa prendete?»
Nel porgere