D’amore e d’orrore
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Zombie - romanzo breve (92 pagine) - Quando gli uomini divorano le donne, l’unico uomo buono è un uomo morto due volte...
Le braci incandescenti della Febbre ardono ancora intense, dopo l’incendio che ha consumato il vecchio mondo, bruciandolo fino alle fondamenta. Tra le mura di Nuova Verona e altre roccaforti simili, le donne sopravvissute si sforzano di ricostruire una parvenza di civiltà, un equilibrio precario che fa della compassione e della pietà attrezzi rozzi e pericolosi, da maneggiare con estrema cautela o, meglio ancora, da riporre sottochiave nel segreto della propria anima. Quando amore e orrore si scrutano riflessi nello stesso specchio deformante e grottesco, la necessità di sopravvivere alle conseguenze della Febbre è l’unico comandamento a cui obbedire. E l’ingenuità e la speranza di una madre possono rivelarsi nient’altro che peccati privi di redenzione.
Davide Camparsi è nato e vive a Verona, dove lavora come architetto. Ha pubblicato più di cinquanta tra racconti e novelle, oltre ai romanzi Tre di nessuno, L’Angelo dell’Autunno, Alessandro Nero e le raccolte personali Tra Cielo e Terra per Wild Boar Edizioni e Una Geografia delle Tenebre per Dunwich Edizioni. Ha vinto due volte il Trofeo RiLL e il Trofeo La Centuria e La Zona Morta, nonché i premi John W. Polidori, Esescifi ed Esecranda. Il racconto Non di solo pane è stato tradotto e pubblicato in Spagna, Sudafrica e Irlanda. Per il mercato anglofono ha pubblicato anche una poesia inclusa nell'HWA Horror Poetry Showcase Volume III, e racconti per le riviste The Dark e Future FS Digest. Nel 2021 ha vinto la XIV EDIZIONE del Premio Robot con il racconto Ricordare il futuro.
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D’amore e d’orrore - Davide Camparsi
1
– Questa è una storia d’amore – disse la ragazza, stanca.
Se ne stava a gambe incrociate, accovacciata di fronte a un mucchio di spazzatura che bruciava disegnandole ombre grottesche lungo il viso livido. Gli occhi spalancati avvampavano in quella luce selvatica e feroce al ritmo delle fiamme.
– Questa è una storia d’amore e di orrore – ripeté la ragazza con sguardo assente, quasi stesse parlando a se stessa. Le sfuggì una risata nervosa.
– Ho fame – replicò il ragazzo dall’altra parte del falò.
Lei lo guardò con teneri occhi di madre, anche se non appariva molto più grande di lui.
– Presto mangerai – rispose. – Ma prima devo raccontare questa storia. Le storie sono importanti. Un nutrimento più necessario del vino e del pane. Della carne e del sangue.
Il ragazzo si leccò le labbra riarse, screpolate, e annuì.
La ragazza tornò a sorridere, intenerita.
– Sì, devo raccontare questa storia – disse per la terza volta.
Rimirò il fuoco e il fumo oleoso che si levava oltre la punta rovente delle fiamme, sforzandosi di trovare le parole più adatte. La vera voce del racconto che intendeva narrare.
Trasse un profondo sospiro e cominciò.
2
Il cielo era un soffitto scrostato e ammuffito, cui facevano corona diverse teste di donna dai lineamenti straniti e tesi.
Rita gridò forte.
Una delle donne si chinò su di lei passandole uno straccio umido e fresco sulla fronte, così vicina che il suo alito rancido le strappò un conato.
– Spingi – le ordinò la vecchia, perentoria. Occhi di un azzurro tagliente, spietato, bucavano la dura corteccia d’un albero secco e morto da tempo che era la pelle del suo viso.
La ragazza grugnì, trasse un profondo respiro e ubbidì.
Una delle donne del suo magro cielo sorrise incoraggiante. – Brava, così. Continua. Stai andando benissimo.
La ragazza imprecò, mandandola a fare in culo, suscitando l’ilarità delle altre.
Una contrazione la costrinse a stringere i denti, emettendo un sordo lamento di dolore. Un rivolo di urina calda le scivolò tra le gambe, insieme a sangue e agli umori di cui era intriso l’inguine fradicio. Gli occhi le si riempirono di lacrime per il dolore, la rabbia e la vergogna.
– Ci siamo passate tutte – borbottò la vecchia.
La ragazza smise di trattenere le lacrime, che scivolarono copiose lungo le guance in convulsi singhiozzi scomposti.
Se c’era una cosa di cui Sara era avara, quella era consolazione, e forse gliene aveva appena elargita una stilla, a suo modo.
La ragazza gridò di nuovo, spalancando la bocca, inghiottendo il gusto amaro della propria bile, andandole di traverso. Tossì forte. Dio, se faceva male. Pareva che la creatura che portava in grembo la stesse aprendo in due come una mela acerba e croccante. E magari era proprio così. Magari il neonato si sarebbe fatto strada tra le sue viscere artigliando e mordendo, divorandole pezzi succosi di carne un boccone alla volta. Se n’era andato tutto alla malora da un bel po’ di tempo, dopotutto, no? E anche se cercavano di rimettere in piedi le cose in qualche modo, be’, le cose rimanevano piuttosto ostinate, refrattarie ai cambiamenti. Molto più strambe e storte rispetto ai cari vecchi tempi. Parecchio di più, per usare un eufemismo.
Rita gridò di nuovo.
– Cazzo, sembra il raglio di una scrofa al macello – borbottò una delle donne che l’attorniavano.
Un’altra le ingiunse di tacere. Il nervosismo nella stanza era palpabile, ingombrante, alla stregua di un ospite indesiderato che, tuttavia, non si sarebbe potuto fare a meno di invitare. I rischi di un parto in quelle condizioni di fortuna erano solo una parte di quella tensione diffusa.
Rita pianse.
– Non sprecare liquidi e forze, ragazzina. Ti serve tutta quella che hai. Hai un compito da portare a termine, ce l’abbiamo tutte, prima o poi. Concentrati su quello.
Ogni traccia di partecipazione dalla voce di Sara era già scomparsa, se Rita non se l’era solo immaginata. Strinse i denti furiosa, ora, e spinse di nuovo. Le sfuggì una scoreggia che la fece avvampare. Nessuno rise, questa volta. Lo sguardo corrucciato della vecchia, come la sua voce, erano stati forgiati dalla desolazione di quel mondo per esercitare il potere ed esigere obbedienza.
– Di nuovo – comandò la vecchia.
Rita l’assecondò d’istinto, anche se ogni sforzo le pareva pura vanità.
– Ha i fianchi troppo stretti – bisbigliò Marta tra la corona di donne. – Non dovevano darle la sua notte di semina. – Qualcuno zittì bruscamente l’amica in malo modo.
Sara finse di non aver udito il commento. – Spingi ancora – si limitò a ordinare. – E respira come ti è stato insegnato. Non devi fare altro.
E Rita spinse, spinse e spinse.
Spinse tra le lacrime e i grugniti, nel tanfo soffocante del calore estivo e degli umori che il suo corpo spremeva lungo le gambe solcate da vene bluastre, tra imprecazioni che non sapeva di conoscere né si credeva in grado di formulare ad alta voce. Spinse ascoltando le proprie ossa scricchiolare tra la carne frollata da ore di doglie.
Pensò al viso del ragazzo la notte che l’aveva amata, ancora più ingenuo, più stupido di lei, e ai suoi occhi che fissavano il cielo senza vedere alcunché, diversi giorni dopo il loro amplesso. Finestre infrante di una casa ormai abbandonata. Notte di semina, la chiamava Sara, ma per entrambi era stato anche qualcosa d’altro. Tanta paura e incertezza lenite da tenerezza, scoperta e dolcezza. Rita sperò che al ragazzo fosse bastato almeno quello. Lui, di certo, non avrebbe avuto altro. Quanto a lei, eccola lì, a sputare sangue e lacrime mentre la creatura che il ragazzo le aveva piantato in grembo la stava facendo a pezzi per uscirsene a sbirciare quel mondo guasto e grottesco.
A un tratto le parve tutto uno scherzo di cattivo gusto e, prima di riuscire a trattenersi, scoppiò a ridere come una pazza.
Le donne la guardarono sorprese, allarmate.
I loro volti straniti, stampati contro il soffitto scrostato, le strapparono altre risate sguaiate, facendole perdere la concentrazione, interrompendo il ritmo coordinato di spinte e respirazione riguadagnato con tanta fatica.
– Il bambino… – gemette una delle donne.
Il bambino… il bambino… non importava altro a quell’avido parlamento di corvi. Cornacchie, si corresse Rita dentro la sua testa. Cornacchie, non corvi. Questo la fece ridere più forte, spedendole una selva lancinante di crampi a divampare dal ventre all’addome, ma persino il dolore pareva non avere più importanza ormai. A chi importava di lei, dopotutto? Erano solo preoccupate per il frutto maturo che avrebbero potuto cogliere di lì a poco, appena si fosse decisa a sputarlo fuori senza altre storie da ragazzina. Al raccolto seminato a suo tempo nel campo fertile e caldo delle sue gambe…
Sara la colpì con un manrovescio che le fece voltare il capo contro le lenzuola madide di sudore, ricacciandole la risata in gola, facendole sgranare gli occhi per il nuovo, inaspettato dolore che le era stato inflitto.
– Perderemo entrambi, se non ti concentri – disse la vecchia, asciutta, investendola con un’altra zaffata di alito rancido. – È questo che vuoi?
Rita scosse il capo, a un tratto più sfinita di quanto già non fosse. Non nutriva affetto per Sara, ma capiva quel che la vecchia intendeva dirle. Si arrese alla forza che emanava anche in quel momento, in cui appariva decrepita e tuttavia salda come un salice.
Annuì e tornò a spingere, espirando e inspirando, proprio come le altre donne le avevano insegnato durante il tempo della gravidanza.
Sarà grugnì, affondando le mani adunche nella bacinella d’acqua calda che le giaceva accanto, strofinandosi le braccia magre con vigore.
– Bene. Non ho alcuna intenzione di piantare un altro albero sulla Collina delle Donne. Coraggio, vedo la testa spuntare tra le gambe. Un ultimo sforzo, bambina, e sarà tutto finito.
Così Rita spinse di nuovo, e di nuovo e di nuovo, fino a quando non avvertì la propria carne lacerarsi con un rumore frastagliato e secco, e la creatura che portava in grembo sgusciare tra le braccia di Sara, prorompendo al mondo in un pianto disperato. D’altronde, in quale altro modo un innocente avrebbe potuto salutare la vita che l’aspettava da quell’istante in poi?
Rita abbozzò un sorriso, grata che il dolore scemasse lasciandola sfinita e intorpidita. Si sforzò di allungare il capo oltre l’orizzonte del proprio ventre sgonfio e delle ginocchia nervose, nel tentativo di scorgere la creaturina che aveva custodito dentro di sé per quei lunghi, misteriosi, terribili e teneri nove mesi.
Alcune erano rimaste con lei, complimentandosi per l’esito del parto, porgendole da bere, pezzuole fresche con cui detergerle la fronte e asciugarla tra le gambe, pulendola dagli umori che le impiastricciavano la pelle. Qualcuno aveva tagliato il cordone ombelicale separandolo dalla placenta, abbandonata in un secchio di plastica lì accanto. Il resto delle presenti le dava le spalle, chine sul neonato che strillava a squarciagola, in un silenzio rigido, contratto e spaventoso.
Un groppo scomodo fiorì nella gola di Rita, intrappolandole il respiro tra i polmoni e