Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Un treno per Pesach
Un treno per Pesach
Un treno per Pesach
Ebook190 pages2 hours

Un treno per Pesach

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook


Un racconto al di fuori dello spazio e del tempo con tre protagonisti: il vecchio comandante della Pandora, grande navigatore e altrettanto grande naturalista, sua fi glia, che ha lo stesso nome della barca, e Manuel, all'inizio orrendo nano deforme che per uno strano incantesimo si è trasformato in un uomo normale e si è trovato a cavalcare mari conosciuti e sconosciuti a bordo della Pandora. La barca giungerà in terre tutt'oggi straordinarie, come le Isole Galapagos e la Patagonia Argentina, tra elefanti marini, otarie, balene, orribili iguana e alberi che avvelenano il viandante che s'addormenta alla loro ombra. Un treno per Pesach è un po' una sintesi dei viaggi dell’autore intorno al mondo per i suoi studi di biologia marina, ma l’avventura al di là dello spazio e del tempo della Pandora incredibilmente rivelerà una sua logica, che scopriremo nelle ultime pagine del romanzo.
LanguageItaliano
Release dateApr 27, 2022
ISBN9788833469812
Un treno per Pesach

Related to Un treno per Pesach

Related ebooks

Related articles

Reviews for Un treno per Pesach

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Un treno per Pesach - Adriano Madonna

    Il nano della strada grande

    Si arrampicò sullo sgabello e appoggiò gli occhialetti di tartaruga sulla punta del naso sottile. Questo sporgeva, come il manico di una brocca, da una testa a forma di pera sorretta da un collo da oca scarno e lungo che s’infilava tra due spalle rachitiche. Per il resto, il nano della strada grande era un lillipuziano con le gambette storte e le mani di bambolotto.

    La bottega da sarto della strada grande era immensa, nonostante l’ingresso fosse angusto e basso. In quel camerone da caserma il nano correva sulle gambe malsicure e in quel suo incedere frettoloso e dondolante era l’immagine di uno scarafaggio.

    La strada grande era una via solitaria di periferia: oltre al lungo muro giallo della fabbrica del vetro e alla bottega del nano non c’era nient’altro. A un certo punto, la strada grande terminava in un campo con poche baracche e poche pecore.

    Tribù di zingari si accampavano nella piana ed erano le sole persone che il nano frequentasse, forse perché non gli ridevano davanti e dietro quando giungeva ciabattando sui piedini sbilenchi, azzimato nella giacca color tabacco, con una sciarpettina avvolta attorno al collo troppo esile e lungo per reggere una testa così grande.

    Per gli zingari, che ogni giorno si cimentavano con l’incertezza di un’esistenza faticosa, non era difficile ammettere che in questo mondo possa esserci posto anche per uno sgorbio come il nano della strada grande e manifestavano questa loro spontanea convinzione con sorrisi e poche parole e aggiungendo una sorta di seggiolone accanto al pentolone del brodo.

    In quelle serate di primavera, il nano della strada grande, con un sigaro in bocca e un tetto di stelle, si sentiva un re sul suo trono e per sentirsi un re gli bastava solo illudersi di essere come tutti gli altri uomini del mondo.

    Tanti anni prima, Almeida Amaral gli aveva insegnato a suonare il violino e la tromba. Almeida Amaral era un gitano che aveva girato l’Europa in lungo e in largo con il suo carro colorato ed era uno dei capi più rispettati fra le tribù dei gitani portoghesi. Almeida Amaral era un gigante con due grandi baffi candidi. Era anche un musicista straordinario e sorprendeva che quelle mani enormi, da orco, con le dita grosse che a malapena riuscivano a piegarsi, potessero destreggiarsi con delicatezza tra le corde del violino e tirare fuori melodie e suoni di tanta grazia.

    Almeida Amaral era un uomo di poche parole ma il suo viso era un libro aperto: da come spianava la fronte e da come l’aggrottava, dal suo sorriso e dalla piega che imprimeva alla bocca, si potevano comprendere con chiarezza il suo disappunto, la sua serenità, la sua preoccupazione.

    Aveva sempre un’espressione pensosa quando vedeva giungere il nano della strada grande a fumare i suoi sigari puzzolenti e a passare la sera accanto al pentolone del brodo. Poi lo guardava quando se ne andava e il buio lo inghiottiva come un insetto.

    Quando il nano della strada grande s’era ammalato ai polmoni, Almeida Amaral lo aveva curato a modo suo, distendendolo sulla paglia, tra i cavalli, sotto il tendone, perché nel respiro dei cavalli, diceva Almeida Amaral, c’è la forza della vita.

    Il nano della strada grande se ne stette lì, disteso sulla paglia come il Bambinello del presepe, coperto da una pelle di pecora, e respirò per un mese i miasmi della stalla. Almeida Amaral lo prendeva tra le braccia come un neonato e gli dava dei pugni sul petto e sulla gobba quando non riusciva a respirare. Poi il nano della strada grande si addormentò e dormì per cinque giorni di fila. Si svegliò con un immenso sbadiglio, guarito. Fu, quella, una delle rare volte in cui Almeida Amaral mise poche parole in fila e disse che il male era uscito fuori dalla bocca del nano della strada grande, ma non era uscito del tutto e doveva essere cavato fuori, poiché sarebbe potuto germogliare di nuovo come un seme del diavolo.

    Fu allora che Almeida Amaral gli insegnò a suonare la tromba, per far uscire il male dai fiati che il nano della strada grande emetteva nello strumento. La tromba, però, era troppo pesante per lui e per suonarla doveva appoggiarla sulla spalliera di una seggiola. Con una coperta da cavallo addosso, di sera, il nano della strada grande suonava la tromba nel campo degli zingari. Questi gli facevano cerchio intorno e lo guardavano muti mentre cavava fuori il maleficio dai polmoni. Anche i cavalli restavano immobili nella nebbia della notte a percepire qualcosa di misterioso, con la testa alta, come statue di monumenti, e le civette acquietavano il loro lugubre verso.

    Almeida Amaral guardava il nano della strada grande che suonava la tromba: guardava le sue mani piccole e grassocce, le dita corte che a stento pigiavano i tasti, e assentiva con il capo quando dallo strumento venivano fuori strani acuti e singolari gorgoglii.

    Dopo un anno, il nano della strada grande era guarito del tutto, ma aveva contratto un’altra malattia, quella della musica: il suono della tromba, che aveva riempito le sue serate insieme con gli zingari lo aveva stregato, ma volle cimentarsi con altri suoni, più lievi, più eterei. Almeida Amaral gli insegnò a suonare il violino, ma se la tromba era troppo pesante per lui, il violino era troppo grande, allora imparò a suonarlo a modo suo, come un uomo normale suonerebbe un violoncello.

    In compagnia del violino, il nano della strada grande passava tutto l’inverno: si sistemava lo strumento tra le gambette storte e si dava da fare con l’archetto. Ne tirava fuori melodie tristi e sconclusionate e le note rimbalzavano sotto le volte altissime di quel camerone gelido che gli faceva da casa e da bottega.

    Ai primi respiri della primavera, quando avvistava i carri degli zingari che dalla provinciale si buttavano giù per la via della piana, il nano della strada grande chiudeva in fretta la bottega da sarto e s’incamminava a passi svelti, con quel suo incedere dondolante, da blatta, verso i campi dove la strada grande si perdeva.

    Per il raduno internazionale dei gitani Almeida Amaral aveva voluto una giacca di velluto nero, e l’aveva voluta bellissima, come quella del capataz degli zingari di Buenos Aires. Il nano della strada grande gliel’aveva cucita e aveva fatto un capolavoro. Armanda aveva detto che con quella giacca addosso Almeida Amaral sarebbe stato il gitano più bello del mondo.

    Quando il nano della strada grande aveva provato la giacca ad Almeida Amaral, dritto come una statua in mezzo al campo, gli zingari erano rimasti a guardarlo muti e seri, con l’atteggiamento degli avvenimenti importanti, come quando il nano della strada grande suonava la tromba per cavare fuori il maleficio dai polmoni. Questi aveva fatto sistemare una scala e tre tavoli accanto ad Almeida Amaral e gli girava intorno con il gessetto da sarto tra le dita, come un mastro muratore che restaura la facciata di un palazzo.

    Quella mattina, Almeida Amaral prese il nano della strada grande per mano e lo fece salire sul carro, poi, con uno schiocco di frusta diede il via ai cavalli. Passarono la piana, guadarono un torrente e infine s’infilarono in una carrareccia che attraversava un bosco con i tronchi degli alberi coperti di muschio. Il carro passò una cortina densa di nebbia e giunse in una piccola stazione con un solo binario. Il treno era fermo, con la locomotiva in pressione accarezzata da bianchi fazzoletti di vapore.

    C’era tanta gente intorno: tutti sorridevano e sembravano felici, anche il capostazione con la paletta in mano e il cappello in testa rideva ed era felice. Almeida Amaral con tre parole disse al nano della strada grande di salire sul treno e di scendere all’unica stazione dove si sarebbe fermato. Il nano della strada grande era sorpreso e frastornato, ma fece quello che Almeida Amaral gli aveva detto e si accomodò sulla panca di legno di uno scompartimento, con le gambe dritte e i piedi che a malapena arrivavano al bordo del sedile. Davanti a lui prese posto una signora anziana e ben vestita e al suo fianco un uomo con un tabarro nero che odorava di tabacco. Intorno al treno, fermo sul binario, c’era un vociare chiassoso e trascinante: sembrava che fossero tutti ansiosi di partire e ad un certo punto lo fu anche il nano della strada grande, pur senza sapere dove il treno lo avrebbe portato.

    Il capostazione cavò fuori un grosso orologio dal taschino del panciotto, gli diede un’occhiata, poi fischiò. La locomotiva cacciò fuori uno sbuffo di vapore bianco e si mosse: i vagoni scricchiolarono, il treno si stirò con un gemito di ferro e prese la sua corsa attraverso i campi, poi scomparve tra le montagne.

    Pesach

    Il nano della strada grande guardò a lungo fuori dal finestrino il mondo sconosciuto che gli scorreva davanti e vide cose bellissime, come sempre aveva immaginato che ce ne fossero al di là della piana, dove c’era il campo degli zingari. Più in là, il nano della strada grande non era mai andato. Solo un’altra volta, nella sua vita, aveva fatto un viaggio in treno: quando aveva due anni, sua madre lo aveva portato da una sorta di mago della medicina che, si diceva, guarisse dai mali più brutti. Il mago riceveva gente infelice in una baracca sulla riva sinistra del Sado. La madre del nano della strada grande si era rivolta a lui quando si era resa conto delle due gobbe che si stavano gonfiando sul petto e sulla schiena del suo marmocchio, già brutto e deforme, e il mago del Sado le aveva consegnato un cataplasma di piante di palude da applicare sulle gobbe. Queste crescevano con una sorta di protuberanza verso l’alto ed era accaduto allora che il collo era venuto su sottile e lungo come quello di un’oca: un rimedio grottesco della natura ad evitare che la testa fosse soffocata tra le due gobbe, e questa sembrava reggersi come una zucca in bilico sullo stelo di un papavero.

    Oltre a quel viaggio sulla riva sinistra del Sado, per il resto le frontiere del mondo del nano della strada grande erano state solo e sempre le mura della sua bottega e la piana degli zingari. Più in là non era mai andato. Adesso il treno lo portava in un paese lontano che si chiamava Pesach, così c’era scritto sul cartello attaccato alla caldaia della locomotiva, e Pesach doveva essere un posto bellissimo, perché poco prima, alla stazione, tutti non facevano altro che dire, quasi in un sussurro, come se avessero timore di pronunciare quella frase a voce alta: «Il treno per Pesach… Il treno per Pesach», e parlavano di quel treno come se si trattasse della formula di un incantesimo.

    Certamente Pesach doveva essere un posto straordinario, perché se Almeida Amaral lo aveva messo sul treno e gli aveva detto che quello era il treno per Pesach, Pesach doveva essere per forza qualcosa di particolare. L’eccitazione del viaggio e il mondo nuovo che scorreva davanti al finestrino come le immagini di un film muto avevano fatto sì che il nano della strada grande si sentisse pervaso da un’emozione esuberante, come mai prima aveva provato in tutta la sua vita, dalla nascita sino a quel momento. Nemmeno quando Eusebio Tomè, il calzolaio, era riuscito a costruirgli un paio di attrezzi fatti di suole e legacci per i suoi piedi storti, il nano della strada grande s’era emozionato tanto, eppure, con le scarpe di Eusebio Tomè era riuscito a camminare per più di mezzora avanti e dietro lungo la strada grande senza essere attanagliato da quei dolori lancinanti alla schiena che a volte gli artigliavano anche il collo e la testa. Quando Eusebio Tomè gli aveva fatto le scarpe era stato felice di poter camminare per lunghi tratti, ma non aveva provato un’emozione pari

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1