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Primadonna
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Ebook331 pages4 hours

Primadonna

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About this ebook

Carlo è un giornalista squattrinato, dipendente di una rivista specializzata in opera. Il suo compito è quello di recarsi a teatro per assistere ai provini di incantevoli aspiranti cantanti e incitare alcune di esse previo accordo con l'editore, per "creare un'opinione pubblica". Le ragazze si susseguono sul palco, ma solo Noemi è in grado di attirare la sua attenzione. Per lei, Carlo perderà la testa e tra i due nascerà una passione che lo spingerà persino a mettere in pericolo la sua stessa carriera... -
LanguageItaliano
PublisherSAGA Egmont
Release dateMay 10, 2022
ISBN9788728309803
Primadonna

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    Primadonna - Arturo Colautti

    Primadonna

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1921, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728309803

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Primadonna

    Uscito postumo, Primadonna non ha potuto – inevitabilmente – contare su una revisione dell’autore: l’edizione pubblicata da Bemporad nel 1921 presenta purtroppo varie incongruenze e, talvolta, vere e proprie lacune. Si è tentato, nei limiti del possibile, di ovviare con un lavoro di editing. Quando le lacune richiedevano interventi troppo invasivi si è preferito, però, evitare correzioni ed evidenziare il problema testuale in nota.

    I

    Egli introdusse la chiave nella toppa e ve la rigirò lentamente, soavemente, amorosamente, mentre il cerino consumato, calcinandogli l’orlo delle unghie, gli strappava una grossa bestemmia.

    All’aprire l’uscio non bastava. Occorreva richiuderlo in modo da impedirne il cigolio denunciatore. Spinse quindi il battente con la cautela e quasi con l’arte di un industriale notturno incanutito nelle effrazioni. E poté entrare senza produrre alcun rumore sospetto.

    Un odore acre e composito, odor di cipolla e di petrolio, di burro e di sudore, lo prese tosto alla gola. Un altro sarebbe scappato: egli si limitò ad arricciare il naso. Ci era tanto avvezzo!…

    Ma, fiutato appena l’incenso del santuario domestico, si fermò a origliare. Dall’oscurità umida e grassa saliva l’accordo dissonante di una doppia respirazione: l’una dolce e regolare, l’altra affannosa e intermittente. Pareva un basso continuo con qualche gamma flautata.

    Egli s’inoltrò nelle tenebre, questa volta come un assassino addirittura, rattenendo il respiro, in punta di piedi, sempre con l’ombrello sotto il braccio e la scatola in mano. Il suo concetto tattico era di giungere allo studiolo, accendere la lucerna, mettersi al tavolino, scrivere il resoconto per la domane: tutto ciò senza far più rumore di un insetto; quasi avesse le scarpe di feltro, e le mani di bambagia. Poi si sarebbe fatto sorprendere lavorando, e avrebbe detto di essere rincasato a un’ora più onesta.

    Sgraziatamente, per giungere alla sua cameretta, bisognava attraversare quella prima stanza lungo l’angusto passaggio tra i letti e l’armadio. Conoscendone appuntino la topografia, infilò quelle termopili domestiche con la sicurezza di uscirne incolume. Ma non tardò a inciampare in una seggiola che, rovesciandosi, dette un colpo secco capace di destare un’accademia.

    L’avrà messa apposta! pensò, fermandosi di botto.

    Egli sperava di cavarsela netta. Una voce, o piuttosto una raucedine troppo nota, che partiva dal letto più vicino, lo disilluse.

    «Sei tu, Carlo?» diceva quell’afonia.

    «Chi diavolo vuoi che sia?» gridò egli seccato, rialzando la sedia.

    «Mi hai fatto paura!…» proseguì la voce in un tono troppo mellifluo per essere rassicurante. «Che ora mi porti?».

    «L’una» rispose l’altro sfacciatamente.

    «Non è vero!… Le ho contate, sai… Alle due stavo desta, e tu non eri rientrato… Buon giorno!».

    «Sai che non ho orologio…».

    «Non è colpa mia, se è all’ospedale!…». La voce alludeva, certamente, al solito Monte.

    Per tutta risposta, Carlo fece sentire un brontolio nel quale si fondevano tutte le sue bestemmie favorite. E poiché, vedendosi scoperto, ogni precauzione riusciva superflua, accese un altro cerino.

    Ma nell’inarcare il braccio sinistro gli scivolò giù l’ombrello dimenticato. Era scritto! Se non fosse stata la seggiola, sarebbe stato il paracqua.

    «Si può sapere dove sei stato finora?» insistette la voce che – pessimo indizio! – si faceva sempre più dolce.

    «Al teatro, naturalmente…» sospirò l’altro, cercando l’unico candeliere.

    «Sempre a teatro!… Sempre a teatro!…».

    «Eh, perdio! È il mio mestiere… un brutto mestiere, ne convengo, ma non sono stato io a inventarlo…».

    Egli aveva trovato, finalmente, non una candela, ma un mozzicone: un mozzicone consunto quasi fino alla carta turchina, che lo teneva infisso nel buco.

    «Ma sei tu che l’hai scelto!» ripigliò l’ottavino in una modulazione più acuta. «Vuol dire che ti conveniva e ti piaceva… Infatti, a teatro ci si diverte…».

    «Sì, con quei cani che ci latrano e con quei cretini che li applaudiscono!…».

    «Oh, voi altri uomini vi divertite anche cogli occhi… e quelle care amiche non ci mancano mai!…».

    E la voce sottolineò con un diesis di cattivo augurio l’attributo e sostantivo. Carlo capì, dalla tonalità, che ne avrebbe avuto per un pezzo. Quando la Giulia cominciava, non c’era verso di farla smettere. Tentò dunque un’abile diversione, mentre strofinava inutilmente un cerino dopo l’altro.

    «Che cagnara e che cagna!» esclamò ridendo forte all’oscuro.

    C’era stata quasi una battaglia al Dal Verme. Una giovine, venuta non si sa di dove, allieva di non si sa chi, che si spacciava per polacca, poiché la moda esigeva i cognomi esotici come una volta all’estero le desinenze italiane, si era prodotta nella Lucia. Figurarsi! Nella Lucia, l’opera più ingrata e più noiosa del vecchio repertorio, la parte meno adatta e meno consigliabile a un’esordiente, in quella Milano memore ancora delle grandi interpreti donizettiane!… E poi con quella voce, più che da soprano, da mezzosoprano strozzato, senza acuti e tutto medie: una voce floscia e appannata che non vibrava, che non portava, incapace così di un gorgheggio giusto come di un salto preciso: una voce male educata, o piuttosto non educata affatto, che calava sempre, benché fosse sul crescere!…

    Questa critica, preventiva e zeppa di tecnicismi, ottenne un mediocre risultato.

    «È per questo che sei rincasato all’alba?» interruppe l’altra.

    Carlo, gettando via il fiammifero, si strinse nelle solite spalle. Sdegnava di rispondere; d’altronde, sapeva per prova che sarebbe stato uno sbaglio. A quell’ora, egli non provava alcun bisogno di una polemica orale. Una mezza parola di replica ne avrebbe tirate mille, come le ciliegie.

    Ma l’altra, dopo una battuta di aspetto, ricominciò.

    «Già è la solita storia!… Tu a teatro a contare le signore, io a letto a contare le ore… colla paura dei ladri, e dei sorci per giunta!…».

    Carlo avrebbe potuto obbiettare che gli uni e gli altri ci avrebbero rimesso le spese, ma si frenò. Alla luce dapprima livida e poi gialla della stearica, le pareti seminude eseguivano una ridda fantastica ai suoi occhi già rifattisi all’oscurità.

    Egli fissò imbambolato la fiamma, quasi volesse cercarvi dentro qualche cosa. Questo qualche cosa non poteva essere altro che una risoluzione. Doveva coricarsi o mettersi a scrivere?

    «A che ora è finito il teatro?» ridomandò la Giulia, tornando al primo tono.

    Carlo, più sordomuto che mai, rigirava gli occhi stanchi senza voltarsi e senza decidersi.

    In quella camera da letto, troppo grande per una bambola e troppo piccola per una famiglia, c’era qualche cosa più della semplice povertà: c’era la sua dissimulazione. Tutta quella pulizia quasi affettata denunciava la vergogna dell’indigenza.

    Quei quattro stracci lì, che avrebbero disarmato gli uscieri del tribunale di commercio, erano assettati, forbiti, lucidi, fiammanti meglio forse di quando stavano nel magazzino. Sul canterale, che serviva agli usi più vari, si sarebbe potuto mangiare; l’armadio, poi, un miracolo di manutenzione: la biancheria tutta di bucato.

    Quello che anzi tutto mancava era lo spazio: poi, il resto. A momenti si toccava il soffitto con la mano, l’unica finestra pareva un abbaino, e i due usci usurpavano due pareti. I letti riuniti, di ferro vuoto forse, riempivano cinque sesti dell’area.

    L’ultimo sesto era occupato dal cassettone e dal canterale, più un tavolinetto da lavoro, un lavamano di ferro coperto da una salvietta, un appiccapanni carico di sottane, nonché due sedie di stoffa che trent’anni addietro avevano dovuto essere gialle; infine, ammonticchiate qua e là, certe grandi scatole da modista.

    Questo tutto il mobilio, compresa la gabbia di un canarino assente e non escluso un cavalluccio di legno modellato forse su quello di Troia.

    Se vi si respirava un’aria troppo azotata, in compenso vi faceva più freddo che in istrada. Quel quinto piano, grazie alle tegole senza cemento, era più umido di una cantina. La tappezzeria di carta a tre soldi il rotolo sudava. Avevan dovuto stendere certe vecchie coperte su in alto, dalla finestra alla porta, e mettere dappertutto delle stuoie non molto più nuove, che con la loro semifracidità contribuivano all’odor dominante.

    Pure, qua e là, un’intenzione di grazia, un istinto di lusso, un sintomo di civetteria, una punta di eleganza, un tentativo di arte domestica. Le leggi della simmetria vi erano meticolosamente osservate. E, in ogni angolo, l’ago e l’uncinetto alleati rivelavano la presenza di una donna, quasi di un’artista.

    Quel balconcino, a cui mancava solo l’inferriata per offrire l’idea di un ergastolo, s’inorgogliva di una cortina magnifica, in seta azzurra a sbuffi col suo festone di velluto più cupo.

    Che dire dei letti gemelli? Una grande imbottita di raso arancione, su cui smagliava trapunto in ciniglia un monogramma ghirigorato; la medesima cifra ricorrente tra pampini e drappi sulle lenzuola; le foderette degli origlieri squisitamente ricamate a mano in un motivo di fiori e uccelli immaginari. Lo stesso capolavoro di pazienza biancheggiava sul canterale, sull’armadietto, perfino sulla spalliera delle due seggiole.

    Sopra la testa dei letti, una Vergine clorotica amoreggiava col Vittorio Emanuele di rimpetto: due oleografie dimostranti l’inutilità della separazione della Chiesa dallo Stato. Sul tavolo da notte un vaso idropico senza essere del Giappone e pieno di fiori tanto artificiali quanto tarlati, omaggio permanente alla Madonna. Sull’armadio una pendola napoleonica di bronzo falso col galletto simbolico, ma senza indici; un servizio da tè in porcellana non affatto ordinaria, ironia più ancora che pleonasmo; due doppieri di vetro inargentato simulanti abbastanza bene un regalo da nozze. E più in alto, tra una penna sfilacciata di pavone e un ramo di palma benedetta, uno specchio veneziano del secolo scorso degno di servire da consulente a una duchessa.

    Nessuno era responsabile di siffatto eclettismo, figlio ben più del caso che della scelta. Quelle carabattole d’ignota provenienza, come le macchie policrome delle pareti, non appartenevano alla proprietaria stessa delle coperte e delle tendine. Era un appartamento ammobiliato, come diceva pomposamente il portinaio, che lo aveva preso per conto suo, subaffittandolo a un prezzo di affetto. Ciascuno dei precedenti inquilini, tutti più o meno morosi, ci avevan lasciato qualche cosa e qualche impronta. Ed ecco qualmente il degno funzionario aveva potuto effettuare quell’associazione d’incompatibilità.

    «A che ora dunque è finita?» ridomandò il rauco soprano, che ignorava la stanchezza.

    Carlo, avendo più sonno che dignità, si voltò per vedere se fosse possibile dormire sotto le coltri quella notte.

    Ella si era messa a sedere sul letto e lo guardava, battendo le palpebre a schermo della luce. Con quel fazzoletto di seta rossa legato intorno alla testa, in modo da coprire fronte e capelli, con quella vecchia giacchetta da uomo che l’affagottava tutta, con quei mezzi guanti di lana alle mani, non pareva quasi una donna, o piuttosto pareva una vecchia. Al chiarore dubbio del moccolo, le sue occhiaie apparivano più fonde, i suoi zigomi più salienti, il suo mento più aguzzo, il suo collo più esile, le sue spalle più curve, il suo petto più liscio, la sua carne, o meglio la sua pelle, più cerea. Nessuno le avrebbe fatto meno di dieci lustri, eppure toccava appena la stagione trionfale della vita, in cui la donna felice raggiunge l’opulenza del frutto maturo.

    Egli, che tornava da teatro brillo ancora di accordi, di bagliori, di profumi, con tutto un repertorio di motivi sbozzati nell’orecchio e di aneliti confusi nel cuore, con tutto un albo di semidee fotografato sulla retina – volti mistici e torsi profani, pupille sediziose e bocche beffarde, spalle ignude e gambe imbottite – non poté reprimere un senso di nausea ben più che di pietà.

    Era proprio quel rudere vivo la dolce e gioconda creatura che egli aveva attesa e accolta dal caso, che aveva sedotta o secondata per capriccio, che aveva scelta o subita a compagna per dispetto? Era davvero quella fantasia querelante la splendida bionda alla quale aveva immolato, in un momento di ubbriacatura o di vigliaccheria, l’orgoglio dell’indipendenza, la dignità dell’inerzia, tutto un programma di eroismi politico-letterari? Quella vecchia precoce, quella perenne ammalata, era lei la Callipige popolana dalle curve ardimentose, dai colori sfacciati, che cantavano per via ogni sorta d’inni fisiologici, e per cui – oh imbecille! – s’era spinto sino al suicidio morale?…

    Sei anni soli erano bastati a fare di quel capolavoro uno sgorbio, di quella statua una macerie, di quell’irradiazione un’ombra. Due infermità lunghe e implacabili – l’artrite e la gelosia – avevano scolorite quelle floride guance e limate quelle membra possenti. La macchina stupenda s’era un brutto giorno sfasciata; e come nelle donne spettrali di Bürger e di Hoffmann, invece della carne ci aveva trovato lo scheletro. Di tutti i suoi fascini di bellezza stupida e per questo appunto completa, non restavano più che gli occhioni azzurri e giovani sempre, e quella voce soavissima che le serviva a dire tante sciocchezze superflue e tante atroci malignità, abusando della pazienza o dell’apatia maritale.

    «Lo spettacolo finisce al più tardi alle dodici e mezzo» ribadì la Giulia con la caparbietà propria delle mosche e delle mogli «e tu sei rientrato alle tre precise!… Che hai fatto di bello in queste tre orette?».

    «Sta’ a vedere adesso che non potrò andare al caffè cogli amici, dopo il teatro!…».

    «Ah! Sei stato al Caffè… Perché non dirmelo subito? Già mi scordavo che tu hai bisogno di ristorarti da tante fatiche… Scusa, sai!».

    Egli, ligio alla propria consegna, alzò gli occhi al ritratto infedele del Gran Re, per chiedergli forse un supplemento di stoicismo. Poi, chinandosi a mezzo sul letto e sollevando colla mano un lembo dell’imbottita, vi ficcò gli occhi pregni di tenerezza; tenerezza in cui era probabilmente un po’ di rimorso.

    Là, nella commessura dei letti gemelli, in un avvallamento del cuscino, sotto un mucchio di coperte, giacevano due corpicini, l’uno lievemente agitato, l’altro immobile affatto: una bambina e una bambola. Le due testine egualmente bionde, egualmente rosee, si toccavano, e i capelli dell’una si intrecciavano al parrucchino dell’altra. Anzi, la pupattola di carne teneva stretta al seno quella di cera, come una mammina pronta a dare il latte anche dormendo.

    La Giulia, all’attitudine amorosa del marito, ebbe un sorriso che voleva essere atrocissimo.

    «Ella non ha cenato, sai!» disse a denti stretti con una cadenza grave come un’accusa.

    Carlo, indiano più che mai, si chinò fino a sfiorare col naso la testa della piccola dormente, coprendo con la barba il faccino della bambola, e tra quell’oro filato immerse la bocca umida. Poi avvertendo un vano tra le coperte, che lasciavano esposto un omeretto graziosissimo, ravviò il lenzuolo sino al collo paffutello. Il corpicino, raccolto e stretto così tra le coltri, non parve più che un gomitolo, mentre la pupattola ci scompariva sotto.

    «Che ottimo padre!» mormorò la mamma, abbastanza sorpresa di quella insolita premura. «Che padre modello!…».

    Egli sollevò dalla sua banda i lembi estremi delle coperte; vi tuffò la mano per verificare la temperatura; vi fece anzi, premendo, una certa concavità, quasi volesse acconciarvisi il posto. Poscia interrogò con gli occhi gli occhi di lei, come un pilota può interrogare gli astri della grande Orsa.

    «Era dunque bella?» saltò su a dire la Giulia, che pensava sempre al teatro.

    L’altro sperò che il tempo si rimettesse al bello, o per lo meno al variabile. La fronte corrugata di sua moglie pareva schiarirsi. Era un segno foriero del sereno, o era un semplice strappo di nuvole?

    «S’è salvata per questo!» esclamò, riconfortato tutto all’idea di potersi coricare. «Sì, bella, bella fin troppo…».

    Vista da vicino, poteva disilludere, ma lì, ai lumi della ribalta! Era una bellezza veramente teatrale, una bellezza a grandi linee, a toni forti, a movenze solenni; qualche cosa di augusto, di classico, quasi di mitologico; una iddia meglio che una diva, una eroina della vecchia tragedia prima che un personaggio del teatro romantico. Norma ben più che Lucia. Certo, né Walter Scott, né Donizetti l’avevano sognata così nel vecchio castello di Lammermoor.

    Carlo, abbandonando la sua prudenza consueta, non si accorgeva di cadere un po’ troppo nell’apologia e di parlare quasi fosse solo, di parlare a se stesso e per conto proprio, di parlare come se dettasse l’articolo.

    «Bionda o bruna?» interruppe l’altra, che ascoltava il marito con un principio di stizza, senza capire altra cosa tranne che si trattava di una formidabilità.

    «Bruna e pallida, anzi pallidissima…».

    Quel pallore era la sola cosa di polacco che avesse; un pallore strano che poteva dipendere tanto dall’emozione, quanto dall’Eau de Fée. Bellissima adunque, ma di una bellezza insignificante, e quasi deprimente a furia di voler essere o di voler parere perfetta. D’altronde, impacciata come può esserlo una principiante e una principiante di provincia, figlia forse di un portinaio, forse allieva di un organista…

    «Giurerei che è bergamasca!» concluse il giornalista teatrale con un sorriso timido.

    «E avete avuto cuore di maltrattarla questa meraviglia?» disse beffardamente la Giulia, quasi offesa dalla descrizione, che le ricordava le glorie della sua passata plasticità.

    Naturalmente, alla sortita, c’era stato una specie d’intontimento. Non si era mai visto laggiù su quelle tavole diffamate una esordiente simile, che pareva evasa dalla regia pinacoteca. I primi suoni incoerenti usciti da quella bocca vaghissima non avevano dunque sconcertato nessuno. Quel miagolio ritmico lo si attribuiva alla solita attenuante del panico.

    Perché stupirsene? Gli occhi erano più occupati degli orecchi; e, mentre si ammiravano le curve, non si udivano le stonature. Così il celebre duetto aveva potuto passare senza proteste, tranne qualche alzata di spalle o qualche sorriso di compassione. Anzi, la grande maggioranza del pubblico non faceva altro che invidiare il tenorino Ravelli, il quale, con soverchio entusiasmo forse, si stringeva al giustacuore tutta quella grazia di Dio.

    «Che stupidi!» mormorò la Giulia. «Sempre insieme colle donne, massime colle primedonne».

    Al second’atto, le cose si erano messe maluccio. I buongustai delle poltroncine subivano tuttavia i fascini combinati di quella Giunone ventenne. Le prime file specialmente, ad onta di tutto, parevano disposte all’indulgenza plenaria come quella bellezza.

    Il pericolo era tutto nel loggione. I frequentatori di quelle sommità, troppo distanti per apprezzare le opulente qualità extra canore di siffatta Lucia, pretendevano assurdamente che cantasse e basta. Ora, la polacca di Bergamo, o di Campobasso, si permetteva tali fioriture eccentriche e tali agilità arbitrarie da provocare il non ingiusto sdegno di tutti gli orecchianti; i quali, sapendo la sua parte a memoria, si stimavano capacissimi di eseguirla un po’ meglio di lei. Ecco perché all’accompagnamento dell’orchestra si era andato aggiungendo via via un altro più acustico, fatto di grugniti, di risa e di stropiccii: un basso continuo che copriva le voci, la sua specialmente.

    «Benissimo!» gridò la Giulia esultante. «Ma perché non fischiarla addirittura?».

    «Aspetta!» seguitò Carlo, felice di aver dissipato l’uragano domestico col racconto di quell’uragano teatrale.

    Oh! I malcontenti si erano un po’ troppo affrettati. Nella scena culminante del delirio, la Dobrowsky aveva colto l’occasione di una mezza rivincita. Quando l’avevano vista entrare nell’abito bianco e discinto di rito, con un certo gioco di veli sparati davanti, era stato a momenti un trionfo…

    Figurarsi! Dalle maniche aperte e cadenti uscivano due braccia degne dell’antica Grecia, mentre il busto scollato oltre il bisogno lasciava meglio vedere di quello che indovinare. Certo, la deliziosa stonatrice aveva fatto qualche assegnamento sull’effetto di quella esposizione regionale…

    «Sfacciata!» interloquì la Giulia coll’invidia propria delle magre, specie di quelle che non lo erano una volta.

    Il pubblico pagante, il quale, appunto perché paga, vuole illudersi di divertirsi – e si divertiva infatti, otticamente almeno, davanti a quel capolavoro umano – non domandava niente di meglio che applaudire. Le prime battute del rondò famoso, prese con sufficiente sicurezza, benché in un movimento troppo largo, avevano strappato qualche mormorio di approvazione e qualche applauso d’incoraggiamento.

    Le macche, cioè gli amici dell’impresa, tra cui brillano i soliti corrispondenti di giornali clandestini e gli inevitabili impiegati ferroviari, si spingevano fino alla aperta approvazione. Sgraziatamente, la controclaque economica organizzata nelle ultime file del baritono Carbone, un cane del San Bernardo che voleva trionfare o soccombere in buona compagnia, non la pensava così. Quei portoghesi dando una mentita alla canzone erano tutt’altro che gai. Laggiù si era cominciato a zittire e si era finito con ridere forte; tanto più che Lucia, insieme al senno, smarriva l’intonazione. I più imparziali, tanto per fare omaggio alla verità, gridavano: «Bella! bella!…».

    La povera figliuola era veramente fuori di sé: non udiva più l’orchestra, non vedeva più il direttore. Da pallida si era fatta livida, da commossa, tremante. Faceva più pietà a vederla che non a sentirla. Ma, invece di smettere, perdendo sempre più il sentimento della misura, come in preda a una fatalità misteriosa, si gettava a capofitto nello stile fiorito. I suoi gorgheggi non avevano più nulla di ornitologico, i suoi acrobatismi non avevano più nulla di umano. La sciagurata, in perfetta buona fede del resto, credeva così di correggere lo spartito, di migliorare la musica, di seguire la tradizione del bel canto italiano. E, intanto, non si accorgeva di sostituire a Gaetano Donizetti il maestro Pastizza!…

    «Bravina, davvero!» fece la Giulia gongolando, senza sospettare che il marito esagerasse appunto per farla ridere.

    Era venuto un momento acustico in cui il pubblico pagante e quello pagato non ne potevano più. Gli stessi professori d’orchestra ridevano sotto i baffi, tra un’arcata e l’altra. A un tratto, una raffica violenta di fischi subissò definitivamente quegli atroci piripipì col tremolo relativo. Quei quattro abbonati, avvezzi a despoteggiare laggiù, avevano un bell’alzarsi in atto di protesta contro la sopraffazione: i falsi giornalisti, nello stesso ordine d’idee, avevano un bel rompersi i guanti lavati di fresco. La vox populi tuonava dal loggione come la voce dell’eterna giustizia. Gli scherani del baritono, là in fondo, potevano ormai riposare: il baccano non abbisognava di rinforzo. Pareva, insomma, di essere alla stazione, quando tre o quattro treni arrivano e partono insieme.

    «E lei?» chiese la Giulia soddisfatta. «È scappata? È svenuta?».

    «Quasi» ripigliò l’altro, contentone di essersela cavata a quel prezzo.

    Quella del rondò non era stata una cadenza, ma una caduta. La comprimaria aveva ricevuto tra le braccia filiformi la splendida primadonna, facendola adagiare nella poltrona dorata. Le apparenze erano salve, perché il libretto voleva così; ma ciò non impediva che Lucia fosse incapace di ricominciare. Ecco perché il famigerato sestetto, eseguito in mezzo a un continuo brontolio come di temporale lontano, si era dovuto risolvere in un quintetto, anzi in un assolo; poiché, mentre il tenore si risparmiava per l’ultima romanza, gli altri non osavano farsi sentire a tutto benefizio di Carbone, che latrava, lui, come una muta intera.

    Alla stretta poi, c’era stato un tentativo di reazione da parte degli impiegati ferroviari, sempre partigiani delle primedonne. Ma uno scoppio come di tuono l’aveva tosto represso. Calato il sipario, un burlone si era permesso di chiamare: «Fuori!». Non l’avesse mai fatto: la tempesta, che pareva dileguarsi, ripigliava subito con maggior furia. E, mentre quelle locomotive umane intronavano le orecchie, due signori di parere contrario venivano quasi ai bastoni.

    Formalmente tutto doveva finire con una risata omerica che, separando i due avversari, riconduceva il buon umore nella sala. L’opera, affidata quasi esclusivamente al tenore, poteva chiudersi con discreta infamia. La riconciliazione del pubblico coll’impresa l’avrebbe poi fatta il ballo; un ballo dei più sottomarini, pieno di mostri d’ambo i sessi e di sorprese idrografiche che era il trionfo dell’insensatezza danzante.

    «E tu?» esclamò la Giulia, rifattasi diffidente. «Sarai andato, naturalmente, a consolarla nel camerino?».

    «Niente affatto!» protestò Carlo sdegnato. «Non la conosco che di vista… Figurati che nemmeno è abbonata al nostro giornale. Oh, se fosse delle nostre!…».

    «Che avresti fatto? Sentiamo…».

    «Avrei dovuto per lo meno assisterla, dopo quel po’ po’ di delirio… Fortunatamente, la nostra agenzia non è entrata per nulla nella scrittura. Io potevo, dunque, lavarmene le mani…».

    «Sì sì» insisté l’altra «ma tu sei capacissimo di dirne domani un mondo di bene…. Va’ là che ti conosco… Anche tu sei come quegli sciocchi che applaudivano…».

    «Ma no,

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