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Quel pazzo di Nietzsche: Come leggere la nostra vita e quelle altrui
Quel pazzo di Nietzsche: Come leggere la nostra vita e quelle altrui
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Quel pazzo di Nietzsche: Come leggere la nostra vita e quelle altrui

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L'oggetto fondamentale del presente lavoro consiste nel tentativo di leggere la vita come volontà di potenza, alla luce delle riflessioni nietzscheane in quest'ambito. Tuttavia, se questo è l'oggetto del lavoro, è legittimo anche chiedersi a che scopo. In altri termini: perché dovremmo cercare di vedere questa volontà di potenza nella vita? Che c'importa alla fin fine se la vita sia volontà di potenza o meno? Rispondere a questa domanda ci permetterà di capire perché facciamo quel che facciamo, che a sua volta è una risposta preliminare a una domanda sull'agire, ossia: che cosa dovrei fare da domani mattina alla luce di tali nuove consapevolezze?
LanguageItaliano
PublisherAbel Books
Release dateApr 13, 2022
ISBN9788867522774
Quel pazzo di Nietzsche: Come leggere la nostra vita e quelle altrui

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    Quel pazzo di Nietzsche - Davide Orlandi

    Davide Orlandi

    QUEL PAZZO DI NIETZSCHE

    Come leggere la nostra vita e quelle altrui

    AbelBooks

    © 2022 AbelBooks

    Tutti i diritti sono riservati

    www.abelbooks.net

    ISBN 9788867522774

    A Emanuele Severino

    L’amore deve essere un gesto disinteressato

    come quello dei titolari dei negozi  che mettono

    le ciotole con l’acqua per i cani di passaggio

    Davide Orlandi

    La cosa più difficile da trovare

    nei legami amorosi è l’amore

    (Cit. François de La Rochefoucauld)

    I

    Introduzione: Oggetto e scopo

    Perché faccio quel che faccio e chi è che fa? Chi è quell’io che fa quando dico io? Questa è una domanda che mi ha spesso guidato nelle mie riflessioni filosofiche. La risposta che mi ha maggiormente convinto nel mio percorso di studi me l’ha fornita Nietzsche. Quell’io è in realtà volontà di potenza, anzi ad esser più precisi un soggetto ultimo dietro ogni fare non c’è più, ma ogni soggetto è risultato e strumento di un processo, di un fare, che Nietzsche chiama volontà di potenza. Detto così sembra facile, ma la strada purtroppo è tutta in salita e irta di enormi difficoltà, e quando avremo forse capito qualcosa della risposta nietzschiana, a quel punto, ciò che ci resterà da chiedere sarà la domanda su che cosa dobbiamo fare a partire da domani mattina. La conseguente risposta, la più ovvia, è che non ci resta che aumentare la potenza, questa volta con un’intervenuta maggiore consapevolezza. Tuttavia, per Nietzsche, noi da sempre tendiamo ad aumentare la potenza, ma in modo inconsapevole. Allora, una volta diventati consapevoli cambia qualcosa oppure no? Tutti questi interrogativi ci porteranno a una serie di ricerche e di riflessioni prendendo come riferimento imprescindibile la teoria della volontà di potenza dell’ultimo Nietzsche.

    L’oggetto fondamentale del presente lavoro, infatti, come risulterà chiaramente, consiste nel tentativo di leggere la vita come volontà di potenza, alla luce delle riflessioni nietzschiane in quest’ambito. Tuttavia, se questo è l’oggetto del lavoro, è legittimo anche chiedersi a che scopo. In altri termini: perché dovremmo cercare di vedere questa volontà di potenza nella vita? Che c’importa alla fin fine se la vita sia volontà di potenza o meno? Rispondere a questa domanda ci permetterà di capire perché facciamo quel che facciamo, che a sua volta è una risposta preliminare a una domanda sull’agire, ossia: che cosa dovrei fare da domani mattina alla luce di tali nuove consapevolezze? Lo scopo ultimo del presente lavoro in fin dei conti forse è proprio questo. Ma non sarà necessario rispondere esaustivamente ad essa. La domanda va intesa come un ideale regolativo o giustificativo, ossia il lavoro ha ad oggetto il tentativo di risposta al perché facciamo quel che facciamo; questo tentativo di risposta è funzionale ad uno scopo pratico, ossia è preliminare alla domanda su che cosa io debba fare a partire da domani mattina, ma non è necessario raggiungere suddetto scopo esaustivamente e in modo compiuto, sarebbe chiedermi troppo. Tuttavia, se la filosofia ha intrinsecamente uno scopo, forse esso è quello di raggiungere una maggiore consapevolezza non solo delle nostre rappresentazioni, ma anche delle premesse del discorso filosofico necessario a raggiungere questa consapevolezza; ma poi che cosa ce ne faremmo delle consapevolezze raggiunte se non utilizzarle in funzione del nostro agire? E, in particolare, dell’agire di chi? Anzitutto del mio. Gli altri si arrangino.

    In realtà, l’oggetto giustificativo che ho appena illustrato, sarà sviluppato al contrario, ma dev’essere inteso come implicito in tale sviluppo poiché credo che sia proprio perché ho bisogno di sapere che cosa devo fare da domani mattina che mi chiedo perché faccio quel che faccio, e non viceversa. Naturalmente ogni bravo filosofo sa che questa domanda è solo apparentemente banale, in realtà è enorme, per cui ci dobbiamo accontentare di lavorare in questa direzione. A ben guardare tutto questo lavoro potremmo suddividerlo in due tipi di risposta per altrettante domande; una prima risposta è quella che diamo alla domanda: Perché facciamo quel che facciamo? Una seconda risposta è in funzione della seguente domanda: Tenuto conto della prima risposta, che cosa dobbiamo fare da domani mattina? Tuttavia, la seconda domanda preferisco declinarla al singolare: Che cosa devo fare io da domani mattina? Il motivo di questa precisazione è che non ritengo di avere diritto a parlare per gli altri. Io parlo per me, e impostare il problema in questi termini è questione di onestà. Tuttavia, la seconda domanda resta sullo sfondo, come orizzonte giustificativo dell’indagine, e non occorrerà, pertanto, rispondere esaustivamente a essa. Ad esempio, ciò che distinguerà la mia posizione rispetto a quella di Nietzsche, riguardo al tema dell’Übermensch, è proprio l’impostazione della domanda sull’agire; Nietzsche, in fondo, ha sviluppato la sua filosofia in funzione dell’avvenire della specie umana e dovremo capire quanto ciò possa essere veramente giustificato o meno.

    Mi preme, altresì, precisare, che l’interesse di questo lavoro non è quello di ripercorrere la storia delle interpretazioni nietzschiane fino ai giorni nostri, per cui quanto citerò di altri interpreti sarà solo strumentale al raggiungimento dello scopo. Occorre delimitare l’oggetto della ricerca scegliendo un focus, e questa scelta, peraltro, non è neppure studiata preventivamente a tavolino, ma direi che è sentita, ossia è ciò che più mi viene naturale fare quando passeggiando tra i campi i miei pensieri mi rapiscono e m’indirizzano verso specifiche questioni. Pretendere di confrontarsi esaustivamente con tutti gli interpreti di Nietzsche è un lavoro che richiederebbe diversi anni di ricerche; per ora mi accontento di seguire un mio personale sentire e costruire una base di lavoro per futuri sviluppi. Pertanto, oggetto di questo lavoro sarà un’indagine sulla vita come volontà di potenza, al fine di far vedere letteralmente come la vita possa essere interpretata come un gioco tra volontà di potenza; e per orientarci lungo questa indagine elencherò introduttivamente una serie di criteri che ho individuato durante lo sviluppo del lavoro come principi guida dello stesso.

    Prima di avviarci nell’indagine vera e propria, però, dovremo anzitutto affrontare dei problemi preliminari che altrimenti rischierebbero di annebbiare l’indagine stessa se non opportunamente chiariti, e lo faremo nel primo capitolo.

    Questa indagine consisterà anzitutto nel capire che cosa sia la volontà di potenza per Nietzsche, e ciò sarà il tema del secondo capitolo.

    Siccome questa indagine sarà condotta dedicando particolare attenzione alla vita non potremo esimerci da un confronto con una teoria che è largamente accettata in tutti gli ambienti scientifici, ossia la selezione naturale per adattamento, anche perché Nietzsche stesso lo ha fatto, e questo confronto lo svolgeremo nel terzo capitolo.

    Nel quarto capitolo proveremo a vedere se la volontà di potenza sia l’ennesimo concetto filosofico fumoso o se possiamo scorgerne dei riscontri empirici; a tal fine delimiterò l’oggetto della mia ricerca alla vita, ben sapendo comunque che per Nietzsche tutto il mondo non è nient’altro che volontà di potenza{1}; tuttavia questa è più facile scorgerla nella vita che nell’inorganico, poiché «la vita è la forma d’essere a noi più nota»{2}, mentre un’estensione dell’indagine all’inorganico comporterebbe approfondimenti a carattere scientifico non alla mia portata.

    Nel quinto capitolo espongo il tema dell’Übermensch, provando prima a capire in cosa consista questa figura, poi quale sarebbe il suo scopo e come si dovrebbe realizzare quest’obiettivo; infine argomenterò riguardo alle problematiche di tale orizzonte.

    Dobbiamo allora tentare un’indagine su uno dei concetti più rilevanti della filosofia nietzschiana, elaborato negli ultimi anni della sua vita cosciente, la cui fine, com’è noto, non coincide con la morte il 25 agosto 1900, ma con la caduta nella follia, avvenuta 11 anni prima, il 3 gennaio 1889. Nietzsche era nato a Röcken il 15 ottobre 1844, figlio di un pastore protestante.

    L’indagine mira anzitutto a interpretare nel modo più filologicamente corretto le intenzioni del filosofo di Röcken riguardo al concetto della volontà di potenza, ossia che cosa egli volesse veramente dire; questo è un punto imprescindibile, e solo conseguentemente a questa prima dimensione, potremo, con cautela e non senza rischi, di volta in volta provare anche a esprimere considerazioni personali riguardo ai singoli temi. Queste due dimensioni non sono esposte in una prima parte l’una e in una seconda parte l’altra, ma s’intrecciano nel prosieguo del lavoro ogni qualvolta riterrò opportuno aggiungere il mio punto di vista. A mio avviso, infatti, questo secondo aspetto nel lavoro di un filosofo non è qualcosa di superfluo, quasi che pensare con la propria testa sia un lusso che non ci possiamo permettere, ma è quanto di più importante possegga un vero filosofo e per cui occorre allenarsi, osare, e avere il coraggio delle proprie idee. Non solo questo lavoro ha quindi molto di personale, ma ne sono anche orgoglioso, poiché è «meglio essere un folle per propria iniziativa, che un saggio secondo il parere di un altro!»{3}.

    II

    Introduzione: Criteri dell’indagine

    L’approccio verticale. Per quanto riguarda i criteri dell’indagine, è fondamentale, quando si interpreta Nietzsche, procedere nell’interpretazione dei suoi concetti non orizzontalmente, ma verticalmente, ossia dall’alto verso il basso. È il suo famoso metodo genealogico a suggerirci questo procedere, ossia un percorso a ritroso alla scoperta dell’origine dei valori e delle nostre rappresentazioni epistemiche. Sono convinto, infatti, che molte delle presunte contraddizioni e incoerenze che spesso si attribuiscono al pensiero di Nietzsche, stiano più all’interno delle varie interpretazioni delle sue opere che si sono succedute nel tempo che in Nietzsche stesso. E, molto spesso, la causa di queste apparenti contraddizioni risiede in un inavvertito e inconsapevole procedere in senso orizzontale, da destra verso sinistra o se si vuole da sinistra verso destra restando sulla medesima superficie («Quanti falsi antagonismi! Guerra e «PACE»! Ragione e passione! Soggetto-oggetto! Tutte queste cose non esistono!»){4}. Chiamo questo approccio il paradigma del tifoso da stadio, per cui se s’indossa la maglietta bianca, tutto ciò che proviene dalla maglietta nera è cattivo, e viceversa.

    Muoversi all’interno dei frammenti nietzschiani secondo il paradigma del tifoso da stadio è foriero di sicuri disastri interpretativi. Tuttavia, anche il muoversi verticalmente, dall’alto verso il basso, non assicura il successo dell’interpretazione, ma ritengo che sia la strada obbligata da seguire considerato che il metodo di Nietzsche è essenzialmente genealogico, un camminare a ritroso come i gamberi fino a calpestare il centimetro più indietro possibile. Se immaginiamo questo percorso come una strada che percorriamo all’indietro e poi alzata con una gru in verticale, ne deriverebbe che tutto ciò che sta sopra è l’apollineo, ciò che sta sotto è il dionisiaco, ossia rispettivamente l’alto e il basso.

    Qui si dirige Nietzsche, verso il basso, verso il dionisiaco, verso l’abisso, il magma indistinto, l’inafferrabile postulato caos. Egli si trova spesso da quelle parti, soprattutto l’ultimo Nietzsche, profondissimo. È una strada fatta di livelli, di tappe che vanno intese su un piano verticale come gli strati di una parete montuosa che indicano le varie ere geologiche. I vari strati, o livelli, sono gradi di conoscenza o diversi gradi d’interpretazione. Il criterio, automatico, ossia non consapevole, con cui si distinguono i vari gradi è l’utilità per la vita. Il livello più basso, quello più profondo, toccato da Nietzsche è il livello dei quanta di potenza o della volontà di potenza. Il livello più superficiale è quello del senso comune. Il dionisiaco, il caos, l’energia vitale, non è afferrabile in sé, ma è un postulato, ed è sempre mediato dall’apollineo. Approfondiremo in seguito questi passaggi.

    Nietzsche ha una formazione iniziale da teologo, ma poi diventerà filologo. Fino a 21 anni la sua formazione è umanistica e religiosa. Dopo il ginnasio a Pforta (1858-1864) s’iscrive a teologia a Bonn, ma già al primo anno passa alla facoltà di filologia e ciò gli permette di affinare e approfondire ulteriormente il metodo genealogico che aveva già appreso negli anni del ginnasio. Metodo genealogico significa ricostruire i processi che hanno storicamente determinato le nostre attuali rappresentazioni epistemiche e i valori contingenti; significa, operare un’analisi decostruttiva al fine di renderci consapevoli di come tutto l’apparato attuale del sapere sia stato eretto nel tempo, livello dopo livello, e per questo occorre un continuo movimento all’indietro, per capire cosa sottostia a ogni nostra rappresentazione e a ogni valore; significa fare una «chimica delle idee e dei sentimenti morali, religiosi ed estetici» che ci porterebbe a concludere «che i colori più magnifici si ottengono da materiali bassi e persino spregiati»{5}.

    Se partissi da un punto A e iniziassi a camminare all’indietro, cioè di spalle, che cosa si noterebbe lungo il cammino? Si noterebbe che davanti a me restano una serie di pezzettini di strada, o una serie di tante mattonelle, tanti livelli. Se con un’operazione immaginaria prendessimo il pezzo di strada che abbiamo fatto andando indietro e lo alzassimo trasformandolo in una colonna, avremmo che il punto iniziale da cui siamo partiti diventa il punto più alto, quello più superficiale (la nostra situazione contingente, la società in cui operiamo con i suoi valori, il suo linguaggio, le sue verità), mentre la mattonella che Nietzsche calpesta alla fine di questo percorso a ritroso, diventa il livello più basso. L’ultima mattonella calpestata da Nietzsche sarà quella in cui risiede la volontà di potenza. Il famoso caos nietzschiano, invece, non è afferrabile, ma è postulato; ne parleremo più specificatamente.

    La scienza sta nella parte bassa, poco prima di scendere verso la volontà di potenza, la quale sta sulla mattonella più indietro di tutte alla base della colonna. Questa, costituita da tanti livelli, o gradi, rappresenta il nostro mondo delle parvenze, che è il mondo che ci rimane, ossia il mondo delle nostre rappresentazioni, l’insieme delle nostre interpretazioni, le quali non sono tutte uguali, ma si distinguono in base al grado, e il criterio per distinguere tra grado e grado è quello dell’utilità per la vita. Un altro modello che ci può meglio far comprendere questo approccio verticale, il metodo genealogico, è quello dell’immagine di una montagna tagliata verticalmente dall’alto verso il basso.

    Una volta separata la parte tagliata avremo a vista un’intera parete in cui poter distinguere, guardandola dall’alto verso il basso, diversi strati geologici, ossia segmenti orizzontali della montagna che corrispondono ciascuna a una certa era geologica, e ogni strato presenta delle differenze rispetto a quello precedente e a quello successivo indicative di certe caratteristiche; gli strati sono sovrapposti uno sopra l’altro fino a costituire, appunto, l’intera montagna, la quale quindi altro non è che l’insieme stratificato di tutti questi livelli. Chi ragiona sempre orizzontalmente, stando sullo strato più superficiale ed esterno, non riuscirà mai a cogliere i diversi strati, i diversi livelli, che costituiscono l’intera montagna, ma si fermerà sempre ad analizzare la superficie di essa senza poter capire come quella montagna si è costruita nell’arco di epoche lunghissime. Lo spirito apollineo riguarda l’alto, è la rappresentazione in forma del caos secondo ragione al fine di renderci la vita vivibile, ingabbiando i pericoli e le incertezze del mondo in schemi rassicuranti; lo spirito dionisiaco riguarda ciò che sta più in basso, è l’energia vitale, è, nel suo grado più estremo, il caos inafferrabile come in sé.

    Quindi per metodo genealogico s’intende scendere di livello sempre più in profondità per vedere tutti gli strati della storia di come si è arrivati alla costruzione delle nostre rappresentazioni e dei nostri valori, ma anche delle premesse del conoscere, ossia il nostro linguaggio e i nostri concetti; da qui già si può capire come ogni verità è costruita e non fondabile in sé, ossia è prospettica. Se invece il nostro approccio restasse sempre e solo orizzontale allora vedremmo Nietzsche continuamente come un filosofo colmo di contraddizioni. Tuttavia, sono fortemente convinto che anche dopo aver spiegato in cosa consista l’approccio verticale, è molto facile che si ricada comunque in una disposizione orizzontale in quanto la nostra struttura mentale è abituata da sempre a ragionare così per semplificarci l’accadere caotico del mondo e renderlo più vivibile. Infatti, intendere i concetti sempre come un binomio di termini contrapposti, ad esempio come male e bene, bello e brutto, ordinato e disordinato, giusto e ingiusto, vero e falso, è un modo per facilitarci l’orientamento, per schematizzare il mondo e renderlo oggettivabile, più facile da vivere, più ordinato, più rassicurante, gli attribuiamo delle strade, dei punti cardinali, e in tal modo otteniamo una mappa che ci facilita il cammino. Ora abbiamo un approccio che ci permetterà di sciogliere molte delle apparenti incoerenze e contraddizioni del suo pensiero, anche se forse non tutte.

    Non arrendersi presto. Tuttavia l’approccio verticale, come già precisato, non ci assicura il successo dell’interpretazione. Esso è il minimo, l’approccio guida di tutto il procedere. Occorre, altresì, non arrendersi presto di fronte alle difficoltà, nel senso che Nietzsche non può essere liquidato troppo alla svelta nei casi in cui sembrano emergere delle tensioni o contraddizioni. A tal proposito parto con due pregiudizi: il primo è che egli sia stato un genio tra i più grandi; il secondo è che egli fu assolutamente sano di mente fino alla fine di dicembre ’88.

    Che sia stato un genio è anzitutto una semplice intuizione o più propriamente un sentimento che ho avuto fin da quando ho iniziato a spulciare i libri di Nietzsche. Ma che fosse un genio precoce lo sappiamo anche dalle tante biografie che documentano come nel ginnasio di Pforta egli fosse uno studente tra i più brillanti, fatta eccezione per qualche insofferenza per la matematica{6}. E all’università di Lipsia alla facoltà di filologia era considerato così capace dal massimo filologo tedesco dell’epoca e suo maestro, Friedrich Ritschl, che questi lo raccomanderà al Rettore dell’Università di Basilea per un posto di docente universitario ancora prima che Nietzsche avesse conseguito materialmente il titolo della Laurea; questa gli verrà comunque assegnata per i meriti riguardo alle sue pubblicazioni da studente. Dobbiamo proseguire allora nell’interpretazione con questo pregiudizio di partenza. Se è un genio, allora l’interprete non deve arrendersi alle prime difficoltà, ma dovrebbe sudare il giusto su Nietzsche con Nietzsche. Liquidarlo alla svelta significherebbe non prenderlo troppo sul serio, supponendo in sostanza che egli in fin dei conti fosse uno dei tanti professori che ha cercato di dire malamente due o tre cose ininfluenti che si studiano tanto per arricchire il proprio curriculum conoscitivo e non fare scena muta davanti a eventuali interlocutori esperti di filosofia.

    Se questo fosse l’approccio, allora è inutile poi lamentarsi che in Nietzsche non si capisca nulla, che egli dica tutto e il contrario di tutto. Questa diffusa idea che Nietzsche sia un filosofo che dica tutto e il suo contrario, è molto lontana dal mio sentire. Anzi, ritengo che dallo studio del suo pensiero seppur esposto in gran parte in forma asistematica e aforistica emerga un sistema filosofico molto coerente. C’è poi un secondo pregiudizio, ossia che Nietzsche fosse assolutamente sano di mente fino al dicembre ’88. Questo secondo punto potrebbe sembrare quasi inutile aggiungerlo e invece non lo è affatto. Infatti, ho spesso notato tra i filosofi anti-nietzschiani una generale tendenza, quando non si riesce a trovare la coerenza tra i diversi temi del suo pensiero, a liquidarlo come se fosse stato un soggetto poco sano di mente già da molto tempo prima del suo crollo psichico che viene normalmente fatto coincidere con l’episodio dell’abbraccio al cavallo a Torino, il 3 gennaio ’89. Se si parte con tali presupposti allora è normale che poi si faccia poca fatica e che si consideri inutile prendere troppo sul serio un soggetto del genere. Tuttavia, su questo punto abbiamo la testimonianza diretta dell’amico Overbeck secondo il quale Nietzsche, nel periodo della sua massima attività e sicuramente anche dopo che aveva lasciato l’università per problemi di salute nel ’79, godeva di un’assoluta lucidità mentale; Overbeck ci racconta che non esisteva in lui il minimo sospetto che Nietzsche potesse diventare matto («la sua follia è stata una catastrofe che l’ha colpito in modo improvviso, come un fulmine a ciel sereno»){7}, mentre era molto più presente il timore di un suicidio («ho sovente pensato che il suicidio fosse la fine che lo aspettava»){8} o di una morte precoce che Nietzsche stesso temeva sulla scia del padre (che morì a 35 anni), e che anzi fin troppo spesso addirittura desiderava per via delle sofferenze che gli procurava la sua malattia («Il pensiero del suicidio è un energico mezzo di conforto: con esso si arriva a capo di molte cattive notti»){9}.

    Nietzsche, infatti, soffriva fin da ragazzo di un male oscuro che lo accompagnò fino al crollo nella follia avvenuto presumibilmente i primi giorni del 1889, o gli ultimi del 1888; e per molto tempo, riguardo alla possibile patologia di cui egli era afflitto, si è parlato di sifilide. Tuttavia, è stato osservato da più parti come tale patologia a trasmissione sessuale non sia del tutto compatibile con la sintomatologia e lo sviluppo che ebbe in Nietzsche; ad esempio egli non aveva pustole sul corpo. Questa leggenda è legata a un episodio avvenuto nel periodo di Bonn, nel 1864, quando ventenne si recò a Colonia, e dopo aver visitato i monumenti della città, chiese a un vetturino di condurlo in un buon ristorante, ma quello, fraintendendo, lo portò in un bordello; qui Nietzsche, imbarazzato alla vista di tante donne che lo circondavano, non fece altro di meglio che raggiungere un pianoforte in sala, suonare qualche nota e poi guadagnare l’uscita; fu lo stesso Nietzsche, il giorno dopo, a raccontare l’episodio all’amico Deussen{10}. Essendo, la sifilide, una patologia a trasmissione sessuale si pensò che l’avesse contratta con qualche prostituta al tempo del periodo di Bonn. Tuttavia, un elemento che gioca a sfavore di tale ipotesi consiste nel fatto che Nietzsche soffriva di emicranie già da ragazzo, infatti nel periodo di Pforta (1858-1864) veniva esentato a volte dal frequentare le lezioni per i forti mal di testa{11}, oltre che per altri malanni, come documenta C. P. Janz con dovizia di particolari; oggi si fanno altre ipotesi, e tra queste si presume un probabile tumore al cervello o qualche particolare patologia del sistema cerebrale o nervoso.

    Pertanto, ricapitolando, se Nietzsche era uno studente prodigio e se la sua mente fu lucida negli anni in cui scrive, pur dilaniata da sofferenze dovute a una patologia mai chiarita, allora quando l’interprete lavora sui frammenti nietzschiani e vi trova quelle che sembrano delle contraddizioni o delle tensioni concettuali che si fa fatica a sbrogliare, farebbe bene a fare degli sforzi ulteriori per individuare il giusto senso seguendo un criterio coerentista, cercando di essere padroni dei concetti e non schiavi delle parole. Se il più mafioso dei mafiosi, o il più imbecille degli imbecilli, o il più malato dei malati, sostenesse che è la terra a girare attorno al sole e non viceversa, tale affermazione non sarebbe meno vera dell’analoga posizione abbracciata da Galilei.

    Anche se Nietzsche fosse stato a lungo matto, ma le sue intuizioni avessero un senso rispetto alla realtà in cui siamo immersi, è quest’ultimo aspetto che ci dovrebbe interessare, non il primo. Questo è il minimo per poter arrivare finalmente a capire Che cosa ha detto Nietzsche (come recita il titolo di un libro di Montinari){12}. Solo dopo che abbiamo capito cos’ha detto potremo tentare di esprimere dei nostri personali giudizi e decidere cosa tenerci di buono e cosa no. Ma se si continua a ragionare su un Nietzsche interpretato male, su un Nietzsche che non è il vero Nietzsche, è ovvio che i giudizi conseguenti che si possono esprimere avranno a oggetto non quello che ha detto Nietzsche, ma quello che si crede egli abbia detto. Gli anti-nietzschiani, infatti, troppo spesso, nei loro giudizi, non si distanziano tanto da ciò che Nietzsche disse, ma da ciò che essi credono Nietzsche abbia detto.

    Punti di convergenza. Laddove l’interpretazione è incerta occorre sostenere l’argomentazione alla luce dei maggiori punti di convergenza tra più frammenti, come spesso si usa fare nei processi indiziari. Diversamente da quanto normalmente si crede di Nietzsche, ritengo che si possa giungere a delle interpretazioni sensate solo alla luce di un quadro complessivo e coerente del suo pensiero altrimenti si rischierebbe d’incorrere in ciò che Sossio Giametta chiama il bue squartato, quell’atteggiamento nei confronti del suo pensiero che consiste nel prenderne dei pezzettini e farne ciò che si vuole{13}. Si può notare come diversi dei frammenti postumi, inerenti al progetto di un’opera intitolata "La volontà di potenza", ci siano pervenuti in uno stato un po’ rozzo, primitivo, sotto forma di appunti a volte schematici. Adottare un criterio coerentista è imprescindibile per fare meno danni possibili in questa delicata indagine, pertanto dovremo procedere in modo tale da individuare dei punti di convergenza nei singoli frammenti che riguardano un tema specifico, nonché tra i temi stessi, in modo da pervenire all’interpretazione presumibilmente più vicina alle intenzioni dell’autore. Naturalmente, non voglio affermare che in tal modo sia scongiurato ogni possibile errore. Nietzsche, infatti, pur scrivendo la quasi totalità dei suoi frammenti in modo chiaro e semplice, purtroppo scrive di cose complicatissime. Fa eccezione lo Zarathustra, un’opera particolare, ricca di metafore, la cui interpretazione non è stata sempre lineare, anzi ancora oggi se ne dibatte. Un problema diffuso che ho spesso notato è quello di coloro che parlano di Nietzsche senza averne mai letto una pagina; egli è probabilmente il filosofo più citato del ’900, tuttavia, non sono poi molti quelli che lo hanno studiato approfonditamente. Spesso se ne parla per sentito dire, per voci di corridoio. Questo lavoro, invece parte con la convinzione che Nietzsche sia uno dei filosofi più complessi di tutta la storia della filosofia, di una complessità che a volte sfascia la testa, ma allo stesso tempo è un filosofo che scrive in modo abbastanza chiaro se si eccettua lo Zarathustra; forse, dal mio punto di vista, avrebbe potuto esserlo ancora di più, ma la storia della filosofia è ricca di esempi ben peggiori; egli aveva almeno l’alibi di una vita vissuta nel segno di una grave e debilitante malattia oltre al fatto che la sua vista si era nel tempo ridotta tantissimo, tanto che negli ultimi anni scriveva da semi-cieco, aiutato spesso nelle letture come anche nella scrittura dall’amico Peter Gast, pseudonimo di Heinrich Köselitz, suo studente a Basilea; e, ovviamente, non disponeva di Microsoft Word. Il problema non sta tanto nella non chiarezza di Nietzsche: i problemi risiedono spesso nella frammentarietà della sua scrittura, e poi nella profondità, radicalità e complessità del suo pensiero. La sua nota frammentarietà è stata da una parte una scelta stilistica che ricorda uno dei suoi filosofi dell’antichità preferiti, cioè Eraclito, ma soprattutto una scelta dettata da una causa di forza maggiore, la malattia e la cecità, come ci testimonia Lou Salomé: «La preferenza per lo stile aforistico […] a Nietzsche era stata imposta dalla sua malattia e dalle sue abitudini di vita»{14}. Avere a che fare con il corpus nietzschiano, quindi, è un po’ come avere a che fare con una cesta colma di migliaia di bigliettini, ciascuno un raggio di luce profondissimo che si perde nell’abisso del pensiero e squarcia la realtà come forse nessuno ha mai fatto prima di lui. È già difficile seguire il raggio fin dove si perde nell’oscurità, ancora più difficile è ricostruire un fascio di luce intero con migliaia di questi singoli raggi per illuminare gli abissi in cui questo gigante scendeva per portarci indietro i tesori che vi trovava. A mio avviso Nietzsche era così creativo nel produrre continue intuizioni che spesso non aveva il tempo materiale di sistematizzare il tutto; forse ci sperava, ma continuava ad accumulare del nuovo materiale che non riuscì a pubblicare per la sopravvenuta caduta nella follia nei primi giorni dell’89; per cui molti degli appunti sulla volontà di potenza ci sono pervenuti pubblicati postumi. Il pensiero di Nietzsche non manca di coerenza; è mancata sicuramente, invece, una sistematizzazione a causa della mancanza di tempo. E inoltre, quand’anche il tempo lo avesse avuto, sono fermamente convinto che egli provasse più gusto a scrutare gli abissi, ad illuminare corridoi inesplorati in cammino verso il magma dionisiaco, che non a mettere ordine.

    Nietzsche ha prodotto tanti pezzettini di un puzzle, o di più puzzle, e ha lasciato ai futuri interpreti l’incombenza di metterli insieme per dare immagine a un quadro più vasto e coerente. Il presente lavoro si colloca, con l’umiltà che è necessaria, all’interno di questa sfida interpretativa, con la consapevolezza delle difficoltà che essa comporta.

    La seduzione delle parole. Questo è un problema che riguarda anche i filosofi: farsi ammaliare dal carico positivo o negativo che certe parole hanno assunto nel corso della storia in un determinato contesto socio-culturale, tanto da arrivare spesso ad elaborare delle intere filosofie in funzione della seduzione che esse suscitano. Più precisamente ho notato che in ogni cultura e in ogni linguaggio, nel corso dell’evoluzione, le parole assumono, strada facendo, alcune una carica positiva e altre una carica negativa, a prescindere dal loro significato letterale. Ci sono parole che sono come un carretto, il quale non trasporta solo l’aspetto semantico; se la carica è negativa producono repulsione, mentre se la carica è positiva producono attrazione. Ad esempio le parole amore, cuore, sole, luna, luce, cielo stellato, alba, carezze, abbracci, bontà, solidarietà, altruismo, cooperazione, libertà, solidarietà, sono tutte parole che hanno assunto nella cultura occidentale una carica positiva; e cioè quando ti arriva una parola di questo tipo non ti arriva solo una certa dimensione semantica, cioè un significato, ma ti arriva anche una carica di positività, quasi come fosse un magnete (+) nel suo lato attrattivo; se invece si usano parole di altro tipo, esse producono un senso inconscio di repulsione poiché hanno assunto nella cultura cristiano-occidentale una carica negativa (-), «parole, sulle quali da tempo immemorabile si è impressa un’intenzione denigratoria»{15}. Una parola, ad esempio, che nel tempo ha assunto una valenza negativa è la parola potere, ma anche le parole violenza, egoismo, ipocrisia, sopraffazione, disuguaglianza, guerra (potreste notare che se si usa polemos già va meglio); Nietzsche che ha elaborato la teoria della volontà di potenza, secondo cui il mondo non sarebbe altro che un insieme di volontà di potenze in guerra tra loro per l’aumento della propria potenza, in cui ogni centro di potenza vuole imporsi sugli altri centri di potenza per accrescere la propria, viene percepito come un filosofo cattivo, quasi un delinquente, mentre se si andasse a leggere la sua biografia ci si renderebbe facilmente conto che era una persona oserei dire delicata, corretta, fondamentalmente onesta, e che oltre a studiare tutta la vita per regalarci qualche perla di saggezza, non ha mai fatto male a una mosca. Molte cose dette da Nietzsche, infatti, danno quasi immediatamente fastidio ed egli sapeva benissimo che sarebbe stato anche odiato per certe sue posizioni, come ad esempio la sua idiosincrasia riguardo all’uguaglianza.

    Non solo, ma all’interno del pensiero nietzschiano troviamo l’idea secondo cui da sempre la massa è abituata a vivere in un teatrino pirandelliano in cui tutti usano delle maschere, e contemporaneamente s’illudono di maneggiare verità. Dietro le maschere, il burattinaio è la volontà di potenza. Nietzsche è stato il più grande smascheratore di questo giochino, per cui non c’è tanto da meravigliarsi se da molti viene visto come un delinquente. Se un giudice mettesse in gabbia un nugolo di mafiosi, questi direbbero che è il giudice il delinquente, non loro. Occorre altresì precisare che ogniqualvolta mi sono riferito alla volontà di potenza, non ho mai espresso, e né ho intenzione di farlo in questo saggio, alcun giudizio di valore su essa. Mi pongo, infatti, quasi sempre su di un piano descrittivo, cercando in tutti i modi di resistere dal cader vittima di giudizi di valore. Ma non solo riguardo a Nietzsche, le parole, e il carico negativo o positivo che portano con sé, sono decisive per gli obiettivi che si vogliono raggiungere; le parole veicolano emozioni e le emozioni sono più potenti dei ragionamenti freddi e astratti; anche per questo in un corteggiamento in corso è assolutamente stupido, per mostrarsi intelligenti, disquisire di alta filosofia; è più intelligente volare basso e parlare di stupidaggini con il giusto tono di voce e creando atmosfere che emozionano, tenendo conto delle esigenze della persona che ci sta di fronte. Ebbene, che tutto questo succeda per la stragrande maggioranza degli individui è comprensibile. Il problema è che se i filosofi non prestano attenzione a questo meccanismo del linguaggio, ne diventano vittime, con la conseguenza che non è più il filosofo ad analizzare la realtà, ma è il linguaggio che guida a dire determinate cose, come se avesse una sua volontà e cercasse una sua giustificazione. Quindi, anche i filosofi troppo spesso si fanno ammaliare dalle parole con carico positivo e respingono quelle teorie filosofiche ricche di parole con carico negativo. L’equivoco accaduto storicamente, fin dalla notte dei tempi, ed ereditato culturalmente, è quello di sottostare a una serie di parole che la società ha caricato di valenza positiva perché funzionali alla coesione e conservazione della società stessa. Tuttavia, seppure l’istinto gregario lo abbiamo ereditato dalle specie animali da cui proveniamo, quindi fin dalla comparsa dell’uomo sulla terra, è ovvio che la cooperazione tra gli individui di quella specie che ci ha preceduto, e che ci ha trasmesso tale istinto, debba essere stata funzionale alla loro individuale vittoria per la vita.

    L’egoismo è stato diffamato come eresia da coloro che lo esercitavano (comunità, sovrani, capi di partito, fondatori di religione, filosofi come Platone); essi avevano bisogno del sentimento contrario negli uomini che dovevano esplicare per loro una funzione. Quando un’epoca, un popolo, una città si mettono in luce, ciò avviene sempre perché il loro egoismo è diventato autocosciente, e non rifugge più da alcun mezzo (non si vergogna più di se stesso). […] Di contro a ciò, esaltare l’altruismo, ma ammettere, come Kant, che probabilmente non esiste nazione che sia mai stata fatta dall’altruismo! Dunque, solo allo scopo di abbassare il principio opposto, reprimere il suo valore, ispirare negli uomini freddezza e disprezzo e, per conseguenza, pigrizia di pensiero nei riguardi dell’egoismo!{16}

    La società non potrebbe funzionare senza le regole sociali e senza tutte quelle parole con carico positivo che fanno sì che poi i cittadini rispettino le regole sociali, come amore, altruismo, cuore, solidarietà, rispetto, cooperazione, collaborazione, patria, bandiera, ecc.. Pertanto, coloro che hanno operato per la conservazione della società hanno dovuto educare gli individui a comportamenti funzionali a tale scopo, e ovviamente il linguaggio e i valori sono stati fondamentali mezzi per ciò. L’egoismo allora è stato da sempre, da quando esistono le società e gli Stati, un pericolo per la collettività. Ma la società è nata proprio grazie alla vittoria degli egoismi di alcuni su quelli di altri. Nietzsche contro il contrattualismo{17}, ritiene che lo Stato nasca quando un gruppo più forte e ristretto si è imposto su un gruppo più debole e più vasto{18} a cui ha imposto con violenza delle regole a proprio vantaggio; nel tempo, poi si verifica di fatto una sorta di riconoscimento reciproco tra forze asimmetriche che permette una convivenza più o meno pacifica, ossia nella misura in cui ai forti servivano i deboli, i primi hanno dovuto comunque concedere ai secondi dei diritti, per cui ne è nato un equilibrio tra poteri asimmetrici e quindi anche tra diritti e doveri riconosciuti reciprocamente tra un gruppo più forte e ristretto e uno più debole e più vasto{19}; tuttavia, per Nietzsche il pericolo dello Stato è quello di diventare un nuovo idolo{20}, mentre esso dovrebbe essere inteso come uno strumento per l’individuo e non viceversa; la società nasce in fin dei conti per soddisfare bisogni egoistici, anche se cerca di reprimere quelli estremi che si rivelano minacciosi per la conservazione della stessa, tuttavia, su questa scia, nel lungo periodo si produce nell’animo di molte persone l’equivoco di intendere il mezzo (lo Stato) come un fine, finché addirittura si arriva ad elaborare filosofie o movimenti politici che mettono l’individuo al servizio dello Stato, facendo dell’individuo un mezzo e dello Stato un nuovo idolo, il fine superiore, il che è abbastanza bizzarro se ci si riflette attentamente, infatti a ciascuno, in fin dei conti, non dovrebbe interessare che di se stessi.

    Padroni dei concetti, non schiavi delle parole. Nietzsche usava spesso parole vecchie per dire cose nuove. Ad esempio la parola "volontà nel concetto di volontà di potenza può trarre in inganno, così come anche la parola interpretazione" al centro del suo prospettivismo; vedremo di capire il perché. Occorre, allora, prestare molta attenzione ai concetti che stanno dietro le parole per costruire interpretazioni più aderenti alle vere intenzioni dell’autore.

    Chiarezza. «Chi si sa profondo, si sforza d’essere chiaro; chi vorrebbe sembrar profondo alla moltitudine, si sforza d’essere oscuro. La moltitudine infatti prende per profondo tutto quello di cui non può vedere il fondo»{21}. Spesso si trova tanto fumo nei libri di filosofia, ammettiamolo. Non credo sia proprio vero che determinati concetti filosofici siano così difficili da spiegare con le giuste parole. Sicuramente, però, ritengo che occorra tempo per esprimere chiaramente concetti complicati e che la filosofia non possa essere argomentata sinteticamente, almeno non sempre, pena una catasta di fraintendimenti. Provo rabbia nel dover leggere tante pagine per riuscire dopo moltissima fatica a capire una cosa banale che si poteva dire in poche chiare parole. L’aspetto più assurdo di tutti è che questa prassi è talmente radicata negli ambienti accademici che se oggi scrivi chiaro allora vieni percepito come se scrivessi di banalità, se invece scrivi difficilissimo allora vieni percepito come se stessi esprimendo tesi profonde e alte di cui però nessuno capisce niente, probabilmente neppure lo scrivente. È vero che esistono livelli della filosofia in cui si raggiunge effettivamente una notevole complessità, ma è anche vero che ci sono tanti filosofi che si applicano volutamente per apparire più profondi di quel che sono, scrivendo complicato di cose banalissime. Il mio proposito è l’esatto opposto: scrivere chiaro anche di questioni complicate. Fatta eccezione per lo Zarathustra che è un’opera poetata e ricca di metafore incredibili, come già detto sono convinto che Nietzsche scriva chiaro; i problemi interpretativi sono da imputare soprattutto alla frammentarietà dei suoi scritti oltre che all’enorme complessità di alcune questioni; e tuttavia, non nego che su alcuni punti avrebbe potuto essere ancora più chiaro; dobbiamo, però, riconoscergli un alibi: la malattia e la difficile convivenza con essa.

    Su questo tema un altro problema che riscontro spesso è l’insegnamento accademico a esser il più possibile sintetici. Spessissimo, cioè, gli insegnanti di filosofia invitano gli studenti alla sintesi e ad evitare il più possibile le ripetizioni, come se questo tipo di approccio dovrebbe essere la priorità assoluta di ogni esposizione filosofica. La mia priorità, invece, non è la sintesi, ma la chiarezza e se a tal fine fosse necessario ripetere un concetto più volte, magari in un contesto argomentativo diverso, per rafforzare la coerenza di tutto il discorso filosofico, allora le ripetizioni dovrebbero essere ben accolte; spesso essere troppo sintetici, invece, è causa di sicuri fraintendimenti e incomprensioni.

    Dire due volte. È bene esprimere subito una cosa doppiamente e darle un piede destro e uno sinistro. Su una sola gamba la verità può stare, è vero, ma con due camminerà e girerà il mondo.{22}

    Se l’essere a tutti i costi sintetici facesse correre il rischio di inficiare la chiarezza, allora meglio una ripetizione in più purché questa sia funzionale alla chiarificazione di quanto si vuole comunicare.

    Principio di ragionevolezza. Potrebbe essere tutto sbagliato, e non sarebbe un fallimento. Questa indagine implica l’assunzione di rischi e della seria possibilità di dar luogo a un’interpretazione totalmente sbagliata. Scrivo questo perché ritengo di dover precisare a scanso di equivoci che sono assolutamente consapevole che affrontare l’ennesima interpretazione della volontà di potenza, provando a dire qualcosa d’interessante nel panorama già affollatissimo della tradizione nietzschiana, implichi un’assunzione di rischi non indifferente. Tuttavia, per crescere filosoficamente bisogna affrontare le strade più pericolose e quelle che ci appassionano maggiormente.

    Dire quello che possiamo dire. Questa è una tautologia alla Wittgenstein, ma occorre precisarla ed esplicitarla. Con questo criterio intendo sostenere che molto probabilmente non possiamo dire tutto, ma che dobbiamo trovare un modo di dire tutto ciò è nelle nostre possibilità. Su ciò di cui non possiamo esser certi, dobbiamo trovare il modo più chiaro di dire ciò che ci è possibile in forza delle nostre facoltà conoscitive. La mia filosofia, e sono sicuro anche quella di Nietzsche, è una filosofia del limite. Posto che abbiamo dei limiti, entro questi limiti, cosa possiamo dire? Anzitutto noi filosofi, secondo me, dobbiamo ricercare il modo più rispettoso dei nostri limiti per dire quello che possiamo dire entro essi. Sì è una tautologia, ma non è superflua. Dire quello che non si può dire è foriero di disastri. Tuttavia io lascio la porta aperta anche a coloro che trovano stimolante incamminarsi verso questi percorsi suscettibili di disastri poiché i nostri limiti potrebbero anche modificarsi un giorno e l’asticella delle nostre possibilità conoscitive spostarsi un po’ più in là. È come se questi impavidi filosofi si sacrificassero per un tipo d’uomo che non è ancora presente, ma che un giorno potrebbe anche presentarsi dopo innumerevoli errori. Tuttavia, per il mio agire il tentare di dire ciò che non possiamo dire non serve, anzi è anche dannoso, in quanto ci porta a conclusioni etiche campate in aria. Mentre a me serve rispondere a questa domanda: "Che cosa devo fare da domani mattina?" In funzione di questa domanda, che resta sullo sfondo della mia indagine come il suo orizzonte, dobbiamo trovare un modo per dire quello che possiamo dire nei limiti delle nostre capacità conoscitive, e tanto basta.

    Un ponte per altri ponti. Per ultimo, anche se in un certo senso si tratta di un’ovvietà tra filosofi, è bene precisare che questo lavoro nelle mie intenzioni è da intendersi assolutamente come un ponte e non come un fine, anzi l’inizio di un ponticello. Si tratta, cioè, di un work in progress per future elaborazioni, una piattaforma di idee e di argomentazioni suscettibili di sviluppo ulteriore e di evoluzione, quindi non è certamente una proposta che vuole avere la pretesa di essere esaustiva dell’argomento. In un certo senso ogni filosofia è in fin dei conti un ponte per altri ponti. Non esistono, infatti, percorsi compiuti; la meta è un alibi; il cammino è tutto.

    Chiavi di lettura. Oltre ai criteri finora citati, ci sono alcuni termini che saranno delle chiavi di lettura decisive lungo questa indagine interpretativa. Fondamentale sarà il tema del riconoscimento. Questo tema, lo sappiamo, è stato portato alla ribalta nella storia della filosofia da Hegel, ma era già presente in Hobbes. Nietzsche è risaputo si colloca molto più in continuità con Hobbes che con Hegel. Il tema del riconoscimento è un paradigma concettuale che ci potrà aiutare meglio a leggere tutto il discorso in ambito etico di Nietzsche e anche per meglio comprendere la volontà di potenza. Secondo la mia idea il riconoscimento è al servizio dell’aumento della potenza, ma questi due principi stanno spessissimo insieme, soprattutto in ciò che chiamerò la dimensione pubblica, ma in qualche modo anche nella dimensione privata, seppur meno manifestamente. Sono veramente tanti i fenomeni umani che si possono comprendere usando questo binomio. Il riconoscimento del proprio valore da parte degli altri, infatti, è di fondamentale importanza per l’aumento della potenza; esso costituisce una porta, o un insieme di porte, grazie alle quali poter avere a disposizione nuove fonti di potenza.

    Un’altra parola chiave è relazione. Il concetto di relazione è al centro di tutto il pensiero nietzschiano. Ogni percezione, ogni valutazione, ogni senso, ogni rappresentazione è sempre frutto di una relazione prospettica. Infine, c’è una parola chiave che funge da spartiacque tra il dopo Nietzsche e il prima di Nietzsche. Ossia, se dovessimo individuare una parola che possa racchiudere sinteticamente l’apporto di Nietzsche all’agire pratico dopo 2500 anni di filosofia indicherei la parola consapevolezza. Nietzsche non ha fatto altro che renderci consapevoli della morte di Dio, ma Dio stava già morendo, sta morendo; non ha fatto altro che renderci consapevoli dell’eterno ritorno, ma questo non è che l’abbia inventato Nietzsche, è da sempre così; egli non ha fatto altro che renderci consapevoli della volontà di potenza, ma questa per Nietzsche è da sempre il modo di procedere del mondo; non ha fatto altro che renderci consapevoli del divenire e della desostanzializzazione dell’Essere, ma così era da sempre, semplicemente la filosofia occidentale prima di Nietzsche si era sbagliata. Ci ha reso consapevoli che i nostri valori e le nostre verità sono in fondo dei costrutti umani troppo umani, ma lo erano già prima, solo che molti filosofi non se n’erano ancora accorti. Tutto qui? Non è affatto poco, perché la consapevolezza potrebbe avere un’incidenza sulla nostra visione delle cose e quindi sull’agire, che in fondo era anche l’interesse finale di Nietzsche.

    I Capitolo

    Problemi preliminari alla discussione

    1.1 Le fonti testuali a cui attingere

    La volontà di potenza in Nietzsche è uno dei tre pilastri della sua cosmologia. Gli altri due sono l’eterno ritorno dell’uguale e il divenire. Quest’ultimo è conseguenza della volontà di potenza ed è costitutivo dell’eterno ritorno dell’uguale, quindi i pilastri si possono ridurre anche a questi due. Heidegger considerava la volontà di potenza «il carattere fondamentale dell’ente» e l’eterno ritorno «l’estremo avvicinamento di un mondo del divenire a quello dell’essere»{23}.

    Il concetto di volontà di potenza compare poco negli scritti editi in vita dallo stesso Nietzsche; lo troviamo per la prima volta nella seconda parte del Così parlò Zarathustra nel capitolo Della vittoria su se stessi, quando scrive: «Ogni volta che ho trovato un essere vivente, ho anche trovato volontà di potenza»{24}. Tuttavia, è bene precisare fin da subito che questo concetto non riguarda solo la vita, ma anche tutto l’inorganico: d’altronde per Nietzsche «la vita non è altro che una varietà dell’inorganico e una varietà alquanto rara»{25}.

    Il concetto, però, lo troviamo elaborato molto più profondamente nel Nachlass, ossia nel corpus dei

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