Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

La soddisfazione di avercela fatta
La soddisfazione di avercela fatta
La soddisfazione di avercela fatta
Ebook335 pages4 hours

La soddisfazione di avercela fatta

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

"La mia storia d'immigrante è una delle tante, così semplice e delicata come qualsiasi altra storia di immigrante italiano. Ma con così tanta grinta e volontà di superare se stessi che è ciò che finisce per distinguere gli uni dagli altri e, soprattutto, con la soddisfazione di avercela fatta. Non cerco riconoscimento pubblico, tantomeno voglio superare o confrontarmi con i miei simili, è la soddisfazione di aver superato me stesso. Potró ritenermi soddisfatto se posso mettere in chiaro che ho superato me stesso perché è questa la sensazione che ho ogni mattina ed ogni sera e continuo a provarci giorno dopo giorno" (Michele Bornaschella).

"La vita aveva in serbo per me la fiducia di Michele nel poter portare a termine questa storia. E non solo: l'opportunità di poter chiedere, così come lo spazio necessario che mi è stato concesso per poter immergermi nei suoi sentimenti e poter conoscere non solo lo strettamente necessario, ma anzi soddisfacendo ciò che la curiosità chiedeva per poter completare il panorama. Grazie a questo e quant'altro ho potuto intravedere una storia così emozionante che non credo che la stilografica abbia l'abilitá di poter dettagliare fedelmente" (Alberto Miramontes).
LanguageItaliano
Release dateMar 30, 2022
ISBN9789878362618
La soddisfazione di avercela fatta

Related to La soddisfazione di avercela fatta

Related ebooks

Related articles

Reviews for La soddisfazione di avercela fatta

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    La soddisfazione di avercela fatta - Michele Bornaschella

    Ringraziamenti

    Pur rischiando di cadere nei luoghi comuni ci sono certi ringraziamenti che voglio rendere noti, non per il mero obbligo o semplicemente per ricordare la loro valorosa collaborazione, ma per riservare loro un posto nel mio cuore per sempre.

    Innanzi tutto ai miei figli. La loro costante compagnia, il loro affetto e la loro comprensione sono stati il sostegno della mia vita. Così come il mio obiettivo costante di vegliare per il loro benessere. Probabilmente, come ogni padre, avrò fallito in certi casi e tralasciando il fatto che possano essere state tante volte o poche, ho questa sensazione nell’anima di dover fare qualcosa di più. Sebbene abbia sempre cercato di fare il possibile, prometto di migliorare sempre. In ogni gesto della mia quotidianità cerco di rimediare alle possibili ferite arrecate ed anche se molte sono risultate inevitabili, anche il sentimento di colpa lo è.

    Sicuramente loro, non sono stati gli unici che lungo la strada siano rimasti con qualche ferita addosso. Con tutti mi scuso con il mio più sincero pentimento. Il punto è che per scelta o mero istinto, i fatti della vita sono stati così vertiginosi che spesso non hanno dato il tempo necessario per poter smussare una alla volta, tutte le scomodità che ogni decisione porta appresso.

    I miei genitori non li ringrazio solo per la loro presenza costante ed il loro insegnamento senza limiti. Educazione alla quale non hanno mai riservato un luogo fisso, né un orario specifico e neppure l’hanno portata a termine in situazioni speciali. Il loro compito è stato così imprevisto e così chiaro che i frutti sono rimasti per sempre, tanto da comparire in molte di queste pagine. Anche per questo li ringrazio, il fatto che il loro lascito rimarrà in modo più o meno incisivo nelle prossime generazioni della mia famiglia e in quella di molti altri che mi conoscono.

    Ai miei nipoti auguro la stessa felicità che desidero per i miei figli e che possano mantenere le loro orecchie, occhi e cuori ben aperti per poter imparare tanto o più dei loro genitori.

    A Marcela, compagna ed amica, per la sua integritá ed affabilitá con le persone, per il suo incomparabile spessore umano e, come se non bastasse, per aver affrontato con grande entusiasmo la traduzione in inglese di questo libro. Pensandoci bene, ho altri motivi per ringraziarla. Non è stato facile il compito di dover avere a che fare con una persona col mio carattere. Ha dovuto essere testimone di discussioni per diversi motivi e mi ha saputo comprendere, interpretare e dare sicurezza nelle mie prese di posizione. Abbiamo dibattuto e ragionato ed in ogni situazione mi ha accompagnato con il suo buon cuore.

    A mia sorella Livia, non posso non ricambiarla con il mio affetto per tutte le attenzioni che ha sempre avuto verso di me e ringraziarla per la cura che, con grande disponibilità, ha messo in ogni lacuna e salto temporale che sono venuti a galla nella storia.

    Ad Alberto Miramontes la mia gratitudine per la sua disponibilità ad ascoltarmi, a chiedermi nuovamente ogni dettaglio e per avermi interpretato con la fedeltà che era necessaria per poter stendere sulla carta tutto ciò che gironzolava qua e là nella memoria.

    Ed infine, a tutti coloro che desiderano un Paese migliore, dal più profondo della mia anima li invito a collaborare con il loro lavoro costante, esaustivamente costante, senza pausa e con onore perché il nostro Paese possa essere una distesa infinita di possibilitá dove l’emigrazione, dei nostri figli e di noi stessi, smetta di essere un’opzione.

    A presto

    Michele Bornaschella

    Parole dello scrivano...

    Dopo un po’ di tempo dall’aver intrapreso quest’avventura, Michele mi suggerí che riservassi un po’ di spazio e tempo per poter trascrivere la mia esperienza. Mi sono dibattuto per un bel po’ sul da farsi. In un certo modo, mi risultava scomodo dover parlare di lui. Il fatto è che mi capirete, come chi dice, ‘i generalli della legge’. Non solo sono colui che ha collaborato perché possa esprimersi, sennó che per il resto dei giorni sono suo dipendente. Il fatto è che sia per un lavoro o per l’altro non ho altro che ringraziamenti.

    Dopo aver intrapreso il cammino che oggi finisce, posso dire che ho avuto la fortuna di poter viaggiare mano nella mano, per i sentieri una storia così ricca ed eloquente che spesso mi ha emozionato. Conobbi Michele vent’anni fa e da allora è sempre stato un grande narratore di aneddoti. Quasi tutti qui trascritti. In modo tale che per una ragione o l’altra, insomma secondo quella necessaria a scrivere queste pagine, mi sono immerso senza ombra di dubbio in una storia francamente emozionante.

    Cosa posso dire, la vita aveva in serbo per me la sua fiducia per poter portare a termine questa storia. E non solo: l’opportunità di poter chiedere, così come lo spazio necessario che mi ha concesso per poter immergermi nei suoi sentimenti e poter conoscere non solo lo strettamente necessario, ma anzi soddisfacendo ciò che la curiosità chiedeva per poter completare il panorama. Grazie a questo e quant’altro ho potuto posto davanti ai miei occhi una storia così emozionante che non credo che la stilografica abbia l’abilità di poter dettagliare fedelmente.

    In questo momento, potrei riempire di elogi Michele, esaltare le sue virtù o anche sottolineare altri aspetti, ma, senza soffermarmi né in un aspetto né nell’altro, mi piacerebbe concludere che è un uomo diverso. Potrei mettere in rilievo successi, potrei rimembrare fallimenti e frustrazioni, ma considero che niente può descriverlo meglio che la frase stessa che ha scelto lui come titolo di questo libro.

    Per avermi dato la possibilità di condividere l’esperienza di questo libro, gliene sono grato. Per tutto ciò e per gli ultimi vent’anni lungo i quali mi ha onorato con la sua amicizia.

    Alberto Miramontes

    Prefazione

    Prima che le lacune nella mia memoria continuino ad aumentare e finiscano per abbattere l’idea iniziale, ho deciso di dare la mia testimonianza. È da molto tempo ormai che ho questa intenzione, che per un motivo o l’altro ho rimandato più volte, ma ora mi è diventato imperativo rispondere a questa intima esigenza.

    Quando l’idea era appena sbocciata, sembrava semplicemente essere un cumulo di esperienze che si perdevano e tornavano a incontrarsi lungo il cammino percorso. A quei tempi erano solo una raccolta di aneddoti che raccontavo ogni volta che lo ritenevo appropriato, oppure ogni volta che si verificavano fatti che in quel momento facevano emergere la morale.

    I ricordi fluttuavano da una parte all’altra della mia quotidianitá, in modo così spontaneo, che non risultava uno sforzo per me raccontarli, ripeterli, e talvolta alle stesse persone –anche se mi interrompevano per segnalarmelo– e poter così trasmettere la mia esperienza con la morale corrispondente, graficando il vissuto ai miei figli, nipoti, amici, ai vecchi e nuovi dipendenti ed alle loro famiglie. È forse arrogante cercare di insegnare? Questo non è il mio scopo. Né penso di essere stato arrogante ogni volta che ho detto di voler lasciare la mia testimonianza.

    La mia storia è una delle tante, così semplice e delicata come qualsiasi altra storia di inmigrante italiano. Ma con così tanta grinta e volontà di miglioramento, che è ciò che finisce per distinguere gli uni dagli altri e, soprattutto, con la soddisfazione di avercela fatta. Non è per la pubblica approvazione, neppure per il prevalere sui miei simili, è per aver superato me stesso. Potró ritenermi soddisfatto se posso mettere in chiaro che ho raggiunto questo obietivo, superato me stesso perché è questa la sensazione che ho ogni mattina ed ogni sera, e continuo a cercare di farlo giorno dopo giorno.

    Tornando ai piccoli frammenti che sono stati il germe di questa storia, gli aneddoti sono apparsi e si sono accumulati nel tempo con la stessa velocità e la stessa incoscienza degli anni trascorsi. Mio padre mi raccontava molte storie: sue, dei suoi parenti ed amici. Sempre lo ascoltavo attentamente e soprattutto sbalordito dall’enorme quantità. Aveva sempre una nuova storia da raccontare. Una volta gli dissi del mio stupore e mi rispose che per il mio modo di essere, anche io avrei avuto molte cose da raccontare. Mi disse che sarebbe successo non appena avessi raggiunto l’età e l’esperienza appropriate.

    In questo momento della mia vita, mi capita di non voler raccogliere altri aneddoti. Dando un’occhiata al passato, vedo chiaramente il filo conduttore che unisce i successi e posso immaginare la storia al completo. Farò del mio meglio per mantenere un certo ordine cronologico e cercherò di essere moderato nell’esprimere le emozioni. Ma non posso garantirlo.

    Fortunatamente ho viaggiato nel tempo collegando la sofferenza dell’ apprendimento al momento dell’applicazione delle esperienze. In modo tale che, innanzitutto, la testimonianza la staró dando a me stesso.

    Cercando di descrivere la vita dell’immigrato, e particolarmente la vita della persona immigrata in Argentina, la descriverei come una vita divisa in due. É una storia di viaggi circolari. La mia immigrazione (o la mia emigrazione, a seconda da quale lato dell’oceano si stia leggendo), come quella di molti altri, continua con l’emigrazione di alcuni tra i propri figli. Nell’eventualità che ciò non accadesse, la vita dell’immigrato è comunque divisa in due. Seppur, come è successo nel mio caso, sia un fatto accaduto in tenera età. Un pezzo della tua vita rimane dall’altra parte dell’oceano, a chiedersi cosa sarebbe potuto succedere se lo sradicamento non fosse avvenuto, aspettando i momenti d’incontro, domandandosi nuovamente, così come sicuramente fece mio padre, se fosse stata o meno la miglior scelta, oppure come affermó mia madre –senza ombra di dubbio– che sicuramente non era stata una buona scelta, se le cose sarebbero state più facili o più difficili, da questa o dall’altra parte.

    In fin dei conti, la vita è stata, e continua ad essere circolare. Crescere, perdersi, riprendersi, perdersi di nuovo, prendere fiato per poter andare avanti, rimettersi in piedi e soffrire di una stanchezza senza fine, cadere di nuovo, non deprimersi, piangere quanto basta per poter imparare, ridere il necessario per continuare ad essere ottimisti di indole, accettando le amarezze con disinvoltura, come una condizione irrimediabile della vita.

    In questa avventura, per ora senza fine, ho sempre agito alla luce del sole, e, per quanto siano state insopportabili le conseguenze, non mi sono mai nascosto, né per ridere né per piangere, cose accadute entrambe quasi con la stessa frequenza.

    Ci sono stati molti spettatori in tutti questi anni: amici fedeli, altri che non hanno creduto in me oppure che mi hanno sottovalutato, altri ancora che si sono rallegrati dei miei successi ed altri che stavano ad aspettare un mio nuovo fallimento. Alcuni sarebbero pronti ad aiutarmi ancora una volta ed altri gioirebbero della mia sventura.

    Fare è molto difficile. Proporsi dei traguardi, mantenendo un certo ordine e avvicinando gli obiettivi sembra essere facile, ma ben presto gli ostacoli compaiono improvvisamente, crescendo in modo così naturale che sembrano essere uno scherzo del destino. Da un punto di vista più crudo e un po’ meschino, la politica economica ha sempre messo i suoi artigli e la politica in generale lascia dietro di sé delle conseguenze che soffriamo giorno dopo giorno, e questo finché la nostra partecipazione, la partecipazione della gente comune, non diventi massiccia, naturale ed efficace. Anche questo fa parte della mia testimonianza. La partecipazione è fondamentale, essenziale per poter cambiare il nostro destino ed essere ciò che veramente meritiamo. Se altre persone in altre latitudini raggiungono ciò che stanno cercando, perché non possiamo farlo anche noi? In quelle latitudini, con altri climi, altri terreni ed altri destini, ci sono esseri umani uguali a noi, con lo stesso sangue, lo stesso sudore, le stesse lacrime, che si superano quotidianamente, in modo naturale, senza grida ed urla, e la maggior parte delle volte ce la fanno.

    E noi, ce la faremo? Ognuno di noi troverà la risposta al momento giusto, dal profondo della propria anima, dal proprio punto di vista, ma soprattutto senza mai rinunciare ad essere sinceri con sé stessi. Da parte mia, non potrei mai obbligare qualcuno a pensare contro i propri principi. L’unica cosa che posso fare è esprimere con parole la mia esperienza e tutto ciò che ho imparato da essa.

    Spero di poterlo esprimere nel modo più chiaro possibile.

    Capitolo I

    Montaquila, il paese natale

    Quasi settant’anni dopo, continuo a ripetere la stessa frase per localizzare il mio luogo di nascita, la mia origine: Tra Napoli e Roma, tra l’Adriatico e il Mediterraneo. É con queste parole che localizzo Montaquila nel mondo e in Italia.

    Montaquila è un paese nella provincia di Isernia, nella regione del Molise, a ventuno chilometri dal capoluogo della provincia e a 464 metri di altezza sul livello del mare, a oriente della catena montuosa delle Mainarde e a sud del monte della Meta. Probabilmente esista da quando soffia il vento, ma la prima testimonianza dell’intervento umano la si puó trovare in alcuni documenti, circa l’anno 778. Lì compaiono le prime approssimazioni al suo nome Montem Aquilam, Montis Aquili nel 1150, o Mons Aquilus nel 1168. Alcuni lo traducono come Monte dell’Aquilone, riferendosi al vento del nord. D’altra parte, le prove fornite come valide indicano che queste terre appartenevano al vasto Monastero di San Vincenzo al Volturno. Successivamente, dovuto a vendite e donazioni varie, queste terre hanno avuto diversi proprietari ed eredi. Tra loro, Andrea d’Isernia, Giovanni Caracciolo e i suoi fratelli e Ugo di Rocca e i fratelli di quest’ultimo. Si presume che entro l’anno 1305 Andrea d’Isernia riuscisse ad acquistare tutti i territori di Montaquila, unendoli in una proprietà che in seguito ereditó Landolfo, il più giovane dei suoi figli e che divenne l’ultimo proprietario tra gli anni 1316 e 1325, anno in cui morí. La discendenza di Landolfo è incerta, ma si suppone che nella seconda metà del XIV secolo Montaquila fosse il feudo di una famiglia che alla fine adottò questo cognome. Si pensa che avrebbe potuto essere la stessa famiglia d’Isernia a usare questo nome sia per acquisire un titolo nobiliare, sia per distinguersi dai rami genealogici collaterali della famiglia d’Isernia.

    I primi dati del censimento della popolazione risalgono al 1561, dove si contavano ‘i fuochi’ ovvero i camini e non le persone; in quell’anno ce n’erano 53, 50 nel 1608 e 55 nel 1669. Nel 1795, si contarono 590 abitanti, 790 nel 1848, 1271 nel 1861, 1706 nel 1907, 1857 nel 1911, attualmente sono 2600 abitanti, più o meno la stessa quantità di quando Dio mi mise al mondo il 5 Febbraio del 1948.

    Come era solito a quei tempi, nacqui nella casa dei miei genitori, eredità di mia madre da parte della sua famiglia. Fui l’ultimo figlio che Giovanni Bornaschella e Filomena Ricci avevano deciso di portare in questo mondo. Anche se mia madre mi confidó, una volta, già adulto, con quel suo modo naturale, senza aggiungere frasi inutili, che il mio arrivo non era stato, diciamo, effettivamente pianificato. Insomma, quando nacqui i miei altri tre fratelli erano già arrivati, Ángel di undici anni, Livia di sei e Giuseppa di tre.

    La nostra casa, più di settant’anni dopo, è ancora lì, ben piantata, in Via Piano 4 a Montaquila, paese che piano piano è sorto intorno alla montagna. Si deduce che è stata una pianificazione ben strategica. Guardava infatti a difendere gli abitanti poiché dall’alto si aveva la vista su coloro che dal basso tentavano di invadere in epoche remote. Anzi, la città aveva un enorme portone che metteva dentro al sicuro tutta la sua gente quando si serrava per la notte, e nessuno entrava o usciva, fino alla mattina seguente, quando iniziavano i soliti compiti, fondamentalmente lavori agricoli come la coltivazione della terra e l’allevamento degli animali. Non esisteva la disoccupazione a Montaquila. Tutti avevano qualcosa da fare ogni giorno e ad ogni istante. A Montaquila non c’erano, e non ci sono, industrie. La maggior parte delle cose e tutto ciò che era necessario per vivere si otteneva dalla terra e dagli animali. La valle solcata dal fiume Volturno era la terra più fertile. Tutti, compresa la mia famiglia, avevano i loro piccoli pezzi di terra lungo le sponde del fiume, e con un po’ d’astuzia e di intelligenza ne ricavavano quanto bastava. I frutti della terra si scambiavano con semplicità e affetto tra i vicini. Si barattava una cosa con l’altra, e le restanti si portavano a vendere nei paesi vicini, con diversa fortuna. Il valore di ogni cosa era stato fissato dalle vecchie generazioni, con un criterio sconosciuto e invisibile, ma che nessuno osava discutere, e tantomeno nessuno pensava che fosse necessario modificare queste regole invisibili: un prodotto di un certo gruppo o categoria era l’equivalente a due o tre dell’altro e così via, ogni cosa aveva il suo prezzo e si poteva commerciare in modo tranquillo. Il denaro era limitato, quindi veniva messo via in piccole quantità e usato solo per alcune occasioni importanti, e persino il dottore poteva essere pagato con una cesta di verdure o con altre cose o servizi, senza la necessità di dover usare del denaro. La raccolta del grano veniva portata al mulino. Parte di esso si lasciava lì, a modo di scambio equo, in cambio della farina che si portava a casa. Qualsiasi cosa potesse mancare a qualcuno, qualcun altro l’aveva. In questo modo tutti avevano il necessario. Addirittura si scambiavano le giornate di lavoro quando si andava a lavorare nelle terre altrui. Il tutto si svolgeva in uno stato di ordine e fratellanza e, in caso di controversie, queste non duravano a lungo, giacché la giustizia si faceva strada, anche in modo informale, e le dispute si risolvevano velocemente.

    Durante il corso dell’anno le famiglie allevavano il loro maiale per poterne ottenere la carne. Quindi si tagliava in porzioni abbastanza piccole e si metteva in grandi vasi di pietra chiamati pila ricoperti di grasso, nelle stanze destinate ai beni e le conserve, fino all’anno successivo. Tra le altre cose, lí si conservavano i pomodori secchi oppure le bottiglie con la salsa di pomodoro già lavorata dopo il rito del raccolto. Questa cerimonia era una specie di festa del paese in cui ognuno aiutava l’altro a trattare la sua produzione, e l’unica contropartita era la successiva collaborazione con chi aveva collaborato precedentemente, realizzando così uno scambio di profitto. Tutti i membri della famiglia partecipavano ed era considerato uno dei grandi eventi del paese. Lì non solo si preparano i pomodori, si sbucciava il grano ed il mais e si raccoglievano legumi. A lavoro ultimato, alcuni vicini iniziavano a suonare un po’ di musica e a ballare. Mio padre partecipava attivamente in ogni aspetto del lavoro. Era un gran lavoratore, instancabile ma anche famoso in paese per la sua abilità di suonare l’ organetto con otto bassi. Mia madre non ne era particolarmente entusiasta. Quando mi portava in grembo, non era facile per lui poter partecipare. Fu così che mio padre assieme ai suoi amici, montarono una commedia, credendo di essere originali, che consisteva nel fatto che loro andassero a chiamarlo e lui dovesse negarsi nel modo più convincente possibile. L’atto si svolse a tarda notte, gli amici in strada e mio padre da casa mia, rispondendo e ‘resistendo’. Mia madre li fece recitare per un po’, finché la pazienza glielo permise, e poi, facendogli credere che effettivamente l’avessero convinta, lo lasció andare. Ma a notte inoltrata, mio padre non tornava. Il tempo era scaduto e mia madre andò a cercarlo, immaginando ciò che stava accadendo: la famosa frase chi suona, non balla mai, non si adeguava alla situazione. Fu così che la fisarmonica, mamma e papà tornarono a casa. E la fisarmonica rimase rinchiusa per un bel po’ di tempo.

    Con i frutti della terra raccolti e gli animali macellati, con i relativi baratti, con l’aggiunta del lavoro di preparazione e dopo aver razionato ed amministrato equamente tutto ciò che c’era, allora si poteva mangiare. La distribuzione che mia madre faceva all’ora di pranzo e di cena aveva la stessa equità di quella usata dalle persone in paese quando barattavano i loro beni. A casa la porzione di cibo era in base alla quantità di lavoro svolto. Nessuno aveva il diritto di discutere questa distribuzione, giacché l’unica a soffrirne le conseguenze era mia mamma, l’ultima a servirsi e con la porzione più piccola. Le ripercussioni di quella dieta rimasero impresse per sempre nella sua magra piccola figura, anche se in generale godette sempre di buona salute. Tranne che per il logico deterioramento causato dall’avanzare dell’età, non l’ho mai vista malata, né a letto, né in riposo, né lamentarsi o vantarsi di essere lei a prendere le decisioni a casa, né in Italia né in Argentina. Non si è mai ammalata perché lei stessa decideva di non farlo. L’idea di ammalarsi era come fermare gli ingranaggi di un orologio. Le passavano i raffreddori, l’influenza, i dolori alle ossa. Questi malanni le capitavano come a tutti, ma lei continuava nelle sue cose, senza lamentarsi di nulla. Negli ultimi anni della sua vita diceva che la gente la vedeva molto bene e la adulavano: Sì, certo che mi hai sempre visto bene, diceva sempre, ma il fatto è che non mi sono mai lamentata, perché tanto le lamentele non cambiano mica le cose.

    Ha lavorato tanto quanto mio padre. La mattina presto mungeva la mucca e in seguito preparava la cagliata e il formaggio. Faceva la colazione per i suoi figli, tutte le mattine passava il mio latte da una tazza all’altra per raffreddarlo e poi mandava a scuola mio fratello e le mie sorelle. Un altro impegno quotidiano era andare alla fontana con una tinozza di rame, percorrendo trecento metri per poterla riempire dell’acqua che scorreva giù dalla cima della montagna attraverso una rete di condutture fino al centro del paese.

    Durante l’inverno, e durante il disgelo, molto lento e graduale, l’acqua usciva fiaccamente dalla fontanella al termine del percorso, con un rivolo che non faceva che rallentare le attività del paese. Si formavano, infatti, lunghe code con molta (e alle volte non tanta) pazienza. Visto dal lato positivo, si realizzava un legame sociale che comportava il pretesto perfetto perché le ragazze dessero speranze ai giovanotti e germogliassero nuovi amori. Ma non tutte le relazioni erano così amichevoli. Le poche famiglie che potevano, pagavano i vicini perché facessero tutto questo lavoro di trasportare loro l’acqua. I problemi non tardavano ad arrivare, di tanto in tanto, e quando qualche tinozza superava abusivamente le altre, cominciavano delle belle risse, con tinozze prese a calci e ammaccate. Alla fine, mia madre tornava a casa con i venti litri d’acqua nella tinozza, portata sulla testa e ammortizzata da un panno attorcigliato a corona. La mamma non era estranea ai litigi e anche la sua tinozza aveva le corrispondenti ammaccature. Padroneggiava un’abilità senza pari e un saldo equilibrio perchè non traboccasse una sola goccia d’acqua, che così arrivava a casa, perché potessimo cucinare o lavarci.

    I vestiti si lavavano nel fiume con il sapone che, non poteva essere altrimenti, anche quello faceva mia madre, cuocendo grasso di maiale e soda caustica. La sua routine proseguiva con la preparazione del pranzo che poi portava nel pezzo di terra dove lavorava mio padre. Mentre lui pranzava, lei proseguiva col lavoro del campo e quando finiva di pranzare continuava a lavorare. Tornava a casa per preparare la cena, aspettare mio padre e, se del caso, a tempo giusto, assolvere i doveri coniugali, ai quali, come raccontava a mia figlia Lorena, molti anni dopo, non era pensabile negarsi.

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1