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Le frontiere della vita: Dai fossili al cosmo
Le frontiere della vita: Dai fossili al cosmo
Le frontiere della vita: Dai fossili al cosmo
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Le frontiere della vita: Dai fossili al cosmo

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About this ebook

Gli sviluppi delle scienze moderne, dal Cinquecento ad oggi, sono caratterizzati da rapide fasi di radicali trasformazioni delle teorie e delle visioni del mondo. La rivoluzione astronomica e la rivoluzione evoluzionistica hanno innescato una decentrazione della condizione umana nel cosmo, e hanno allargato gli orizzonti delle nostre conoscenze a ordini di grandezza anche molto lontani da quelli dell’esperienza quotidiana. La rivoluzione astronomica ha aperto le porte alla comprensione dello spazio profondo; la rivoluzione evoluzionistica ha aperto le porte alla comprensione del tempo profondo.
Nel libro vengono ripercorse le tappe rilevanti di queste due storie e diventa via via più chiaro come soltanto oggi esse confluiscano e si integrino l’una con l’altra. Si mette così in evidenza che le due decentrazioni copernicana e darwiniana non hanno affatto sminuito l’importanza della vicenda umana nel cosmo: ci hanno aiutato a situarla più realisticamente e approfonditamente quale ramificazione unica e singolare fra le innumerevoli ramificazioni della vita, una ramificazione eccentrica e particolare, ma proprio per questo molto interessante. Perché la vita dovrebbe essere confinata solo sul nostro pianeta? E, in attesa di incontri cosmici prossimi o remoti, che cosa possiamo dire già oggi, sensatamente, della vita nell’universo?
LanguageItaliano
Release dateMar 22, 2022
ISBN9788838251917
Le frontiere della vita: Dai fossili al cosmo

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    Le frontiere della vita - Gianluca Bocchi

    GIANLUCA BOCCHI

    LE FRONTIERE DELLA VITA

    Dai fossili al cosmo

    Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium Cultura ed Universale sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.

    Realizzato con il contributo del Dipartimento di Scienze Umane e Sociali e del CQIA dell’Università degli studi di Bergamo.

    Copyright © 2021 by Edizioni Studium - Roma

    ISSN della collana Cultura 2612-2774

    ISBN Edizione cartacea 978-88-382-5018-7

    ISBN Edizione digitale 978-88-382-5191-7

    www.edizionistudium.it

    ISBN: 9788838251917

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    https://writeapp.io

    Indice dei contenuti

    INTRODUZIONE

    PREMESSA

    I. AMPLIARE GLI SPAZI: I MONDI E LE IDEE

    1. La scoperta della Terra

    2. Anomalie e rivoluzioni

    3. Un’inarrestabile cascata di innovazioni

    4. L’immaginazione e la tenacia

    5. Tecnologie. Un nuovo protagonista per le scienze

    6. Un cosmo unificato

    7. L’incomparabile varietà dei cieli

    II. DAL MONDO CHIUSO ALLA STORIA DELLA NATURA

    1. Sondare gli abissi del tempo

    2. Le catastrofi e le estinzioni

    3. La nascita della geologia moderna

    4. Viaggio in Italia

    5. Uniformismo

    6. Natura facit saltus?

    7. Il ritorno dell’iguanodonte

    8. Charles Darwin, esploratore del tempo profondo

    9. La grande controversia sull’età della Terra

    10. Tenacia e resilienza di Charles Darwin

    III. UN NUOVO SISTEMA SOLARE

    1. I destini individuali dei corpi celesti

    2. Asteroidi: una perenne spada di Damocle?

    3. Una periferia sconfinata

    4. Una galassia molto affollata

    IV. AVVENTURE NEL MICROCOSMO DELLA VITA

    1. Charles Darwin, scienziato storico

    2. Evoluzione variazionale: la diversità dei viventi

    3. Dal macrocosmo al microcosmo della vita

    4. I tre polimeri della vita terrestre

    5. I paradossi del genoma

    6. DNA codificante, DNA non codificante

    7. Sequenze ripetitive

    8. Le riscritture del genoma

    9. Una visione emergentista dell’evoluzione

    10. Ma, in definitiva, che cos’è un gene?

    11. Dall’evoluzione al genoma: creatività biologica come risignificazione

    12. Un’ontologia generativa

    V. UNA VITA GIOVANE IN UN PIANETA GIOVANE

    1. I tre domini della vita

    2. Estremofili

    3. I nostri antenati più remoti

    4. Una finestra per la vita

    5. Fra il fuoco e il gelo

    6. La rete globale della vita

    7. Multicellularità: il secondo livello della vita

    8. Le rivoluzioni dell’ossigeno

    VI. L’INVENZIONE DEGLI ANIMALI

    1. L’esplosione dei piani di organizzazione

    2. Durante il cambriano, prima del cambriano

    3. La grande discontinuità

    4. Un albero genealogico per gli animali

    5. I tempi delle biforcazioni evolutive

    6. Nuovi genomi, nuove ecologie

    7. Le glaciazioni delle glaciazioni

    8. Il conflitto delle spiegazioni

    9. Ancora l’ossigeno

    10. Standardizzazione, dopo la sperimentazione

    11. L’evoluzione dell’evoluzione animale

    12. Un pluralismo evolutivo generalizzato

    VII. L’IMPATTO DELLE CATASTROFI. FRA DISTRUZIONI E CREAZIONI

    1. Una Terra dinamica

    2. L’uniformismo rivisitato

    3. Il cambiamento e la stasi

    4. La sorpresa di Gubbio

    5. Cinque, e più di cinque

    6. Asteroidi e vulcani

    7. Dopo Chicxulub

    8. La catastrofe del permiano

    9. Incidenti sistemici

    10. Nuove regole per nuove ecologie

    11. La pura contingenza

    12. Livelli del cambiamento

    VIII. GLI UMANI, FIGLI DELL’INVERNO

    1. L’autunno della Terra

    2. Altopiani e catene montuose

    3. Le prime calotte glaciali permanenti

    4. Moti celesti e vicende terrestri

    5. Transizione di fase

    6. La morsa del raffreddamento globale

    7. Il ricambio della fauna africana

    8. Le speciazioni degli ominidi

    9. Nel cuore delle età glaciali

    10. Il tempo del caos climatico

    11. L’età del disgelo

    12. Un lungo periodo di apprendistato

    13. Alle radici delle civiltà agricole

    14. Verso l’antropocene

    IX. STORIE DELLE ORIGINI

    1. L’uovo e la gallina

    2. Tappe verso la vita

    3. Una difficile definizione

    4. Acidi nucleici alternativi

    5. Il trilemma delle origini

    6. La natura del codice genetico

    7. Proteine mai nate

    8. Biologia sintetica: una tappa ulteriore dell’evoluzione?

    X. ALLA RICERCA DI UN CONTATTO COSMICO

    1. I primi batteri alieni

    2. Marte, un mondo ritrovato

    3. Una navetta cosmica?

    4. I compagni dei giganti

    5. Vite esotiche

    6. Le molte famiglie dei pianeti extrasolari

    7. Dove cercare la vita?

    8. La finestra della vita, nell’evoluzione del cosmo

    9. La Terra: tipica o rara?

    10. Il conflitto delle ipotesi: gli umani fra la solitudine e lo zoo cosmico

    11. Cercare anomalie

    12. Sulle soglie dell’universo

    BIBLIOGRAFIA

    INDICE DEI NOMI

    CULTURA STUDIUM

    Ringraziamenti

    CULTURA

    Studium

    253.

    La Dialettica

    Gianluca Bocchi

    Le frontiere della vita

    Dai fossili al cosmo

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    INTRODUZIONE

    SCIENZE NUOVE? LO SPIRITO DEL TEMPO, UN TERRENO FERTILE

    1. Nel corso dell’ottocento, i fisici e gli astronomi di maggior successo del tempo si trovarono a riflettere sul senso profondo della lunga catena di successi scientifici a cui avevano contribuito. In maniera sorprendente, si diffuse una sorta di malinconia. Ormai l’età eccitante delle grandi scoperte appariva passata per sempre, e alle generazioni future non sarebbero restati che compiti di routine, di consolidamento della visione del mondo a cui si era approdati. Pierre Simon de Laplace, agli inizi dell’ottocento, enuncia alcuni di questi compiti per gli astronomi a venire: catalogare stelle e nebulose; determinarne luminosità, movimenti e variazioni di questi parametri; scoprire nuovi oggetti nel sistema solare e tracciarne con precisione le orbite [1] . Quanto ai fisici, sia James Clerk Maxwell che Albert Michelson si esprimono adottando punti di vista analoghi. Alle generazioni future sarebbero spettati compiti essenzialmente quantitativi: si sarebbe trattato di basarsi sulle teorie acquisite per effettuare misurazioni sempre più precise, approdando a cifre decimali ulteriori [2] .

    Lord Kelvin, alla fine di quel secolo, era della stessa opinione e considerava l’ambito delle scienze fisiche sul punto di approdare a uno stadio compiuto. Nel 1900, tuttavia, volendo tracciare un bilancio della situazione presente del suo ambito di studi, egli si trovò a evocare due nubi che ancora si frapponevano al punto di approdo: due fenomeni che la fisica del tempo non riusciva a spiegare adeguatamente, e cioè la radiazione del corpo nero e l’esperimento di Michelson-Morley [3] .

    La metafora delle nubi è ambigua, perché possono dissolversi rapidamente ma possono anche intensificarsi e creare violenti uragani. Gli sviluppi della fisica del novecento sono stati in effetti una concretizzazione della seconda accezione di tale metafora. Lo studio della radiazione del corpo nero condusse agli sviluppi della teoria dei quanti; l’interpretazione dell’esperimento di Michelson-Morley agli sviluppi della teoria della relatività. Il termine rivoluzione, introdotto al singolare per indicare le origini della tradizione scientifica moderna [4] , verrà sempre più declinato al plurale, per indicare le varie svolte irreversibili e di ampia portata nello sviluppo delle scienze e delle conoscenze umane [5] . A partire dalla metà del ventesimo secolo, mentre Thomas Kuhn e altri storici e filosofi a lui coetanei lo hanno reso uno dei cardini di un nuovo modello degli sviluppi delle conoscenze, esso si è imposto per descrivere la fenomenologia delle attualità scientifiche persino al senso comune colto.

    L’esperienza delle scienze novecentesche, così ricca di svolte imprevedibili e sorprendenti (e non solo nelle scienze fisiche) dovrebbe essere sufficiente a convincerci dell’inadeguatezza (e, al limite, dell’inutilità) delle consolidate autorappresentazioni degli sviluppi scientifici dell’età moderna. Non è affatto evidente che questi sviluppi tendano a uno stato stabile conclusivo, come Lord Kelvin riteneva (e forse anche auspicava). Anzi, può darsi che il problema – come è stato posto – non abbia senso. O, meglio, forse ha un senso del tutto diverso da quanto intendevano Lord Kelvin, o Maxwell, o Michelson: può darsi che in gioco non sia tanto il mondo, quanto noi stessi, e il nostro rapporto con la conoscenza.

    Nella seconda metà del ventesimo secolo, la condizione della fisica era totalmente diversa da quella di un secolo prima, anche e soprattutto per la consapevolezza che le fasi rivoluzionarie erano parte integrante dello sviluppo scientifico e che bisognava tenere conto della fallibilità di ogni risultato della ricerca, per quante conferme esso avesse antecedentemente avute. Anzi, Karl Popper si era spinto a definire la stessa possibilità di falsificazione come il criterio principe di una teoria o di un enunciato teorico.

    Altrettanto, e forse ancora più significativa, è stata la vicenda dell’astronomia negli ultimi due secoli, e del modo in cui ha capovolto quel ruolo di un sapere di nicchia, e sostanzialmente declinante, al quale le osservazioni di Laplace la confinavano. Questo capovolgimento di prospettiva vale: per l’estensione spaziale del campo di studio dell’astronomia, giacchè fino a novecento inoltrato questo era limitato alla nostra galassia, mentre oggi – grazie alla strada aperta da Hubble – sappiamo che esistono almeno trilioni di galassie; per la sua estensione temporale, fissata almeno attorno ai 13,8 miliardi di anni prima della nostra era, il tempo che si valuta sia intercorso fra il Big Bang e il presente [6] : soprattutto per la varietà degli oggetti di studio, quando taluni tipi di corpi celesti già noti (come i pianeti) si sono rivelati in realtà di una diversità estrema e quando sono emerse molteplici entità (come i buchi neri o le stelle di neutroni) che due secoli fa erano letteralmente inimmaginabili [7] .

    Le affermazioni di Laplace sembravano inoltre normalizzare l’astronomia quale disciplina ancillare rispetto alla fisica di base, quasi dimentiche del ruolo di traino che aveva avuto alle origini della tradizione scientifica moderna. E anche in questo campo i cambiamenti sono stati radicali. Soprattutto, rispetto a uno degli ambiti di punta delle scienze fisiche del novecento, e cioè la fisica relativistica, le scoperte astronomiche hanno giocato un ruolo essenziale sia di proposta, sia di precisazione, sia di conferma, intavolando un dialogo biunivoco, talvolta anche polemico [8] , che è sfociato nella cosmologia contemporanea: un ambito di ricerca quanto mai interdisciplinare che affronta il compito titanico dello studio scientifico e filosofico dell’universo.

    2. Lo spirito di Laplace e di Lord Kelvin, tuttavia, non si era definitivamente dissolto. Negli ultimi decenni del ventesimo secolo si è riproposto quale ideale regolativo – o, forse, quale metafora influente – per orientare le aspirazioni di alcuni fisici, e per accompagnarli nel loro sforzo di integrare in una prospettiva unitaria, panoramica e preferibilmente completa le quattro forze fondamentali della natura fisica. Negli anni settanta del novecento, fu così formulata la cosiddetta teoria elettrodebole: ad altissime energie e ad altissime temperature (come nei primissimi istanti successivi al Big Bang), la forza elettromagnetica e la forza nucleare debole sono una forza sola. Dopo questo successo, e fino ai nostri giorni, i fisici sono andati in cerca della grande unificazione, che dovrebbe mettere in relazione questa forza elettrodebole con la forza nucleare forte (naturalmente, tenendo in considerazione scale energetiche e di termperatura ancora più elevate). La speranza è conseguire anche questo risultato di enorme portata, dopo di ché non resterebbe che mettere in relazione la forza di gravità con il quadro della grande unificazione. Allora, forse, la teoria che ne risulterebbe potrebbe essere considerata una teoria del tutto.

    Dopo alcuni decenni e dopo serrate controversie al proposito, la prospettiva sembra lontana e, forse, sempre più lontana. Continuiamo ad avere grandi difficoltà nell’integrare la forza di gravità con le altre grandi forze dell’universo. Per di più, qualunque prospettiva di unificazione possa delinearsi, essa non riesce (ancora?) a rendere conto dei problemi cosmologici che si sono nel frattempo moltiplicati, quali la spiegazione della natura delle cosiddette materia oscura ed energia oscura, che oggi appaiono costituire gran parte della massa del nostro universo. Parallelamente, ci chiediamo anche quale valore avrebbe una teoria del genere in relazione alle esigenze pratiche delle varie discipline scientifiche e, a maggior ragione, agli sviluppi delle conoscenze umane negli aspetti della vita quotidiana, delle vicende del nostro pianeta e, appunto, dello stesso universo. Sicuramente il suo valore predittivo sarebbe assai basso, al massimo sotto forma di vincoli alquanto generici.

    Nel frattempo, le stesse dinamiche interne alle scienze fisiche, astronomiche, cosmologiche e persino biologiche, hanno spinto a chiederci che cosa ci sia oltre il nostro universo, se sia possibile che esso sia soltanto una parte, persino una piccolissima parte, di un tutto più esteso. Questo vale rispetto al tempo come rispetto allo spazio. Per quanto riguada il tempo, ci si è chiesti se e come sia possibile parlare sensatamente di un prima del Big Bang. Al proposito, si sono sviluppate diverse concezioni e prospettive di un universo ciclico [9] . Per quanto riguarda la spazio, invece, è stata avanzata l’ipotesi che il nostro universo sia soltanto un universo isola, separato e coesistente con altri universi isola, nei quali potrebbero anche valere altre leggi fisiche, e che potrebbero essere caratterizzati persino da un numero superiore di dimensioni spaziali delle tre canoniche [10] . Forse l’idea più vertiginosa proposta nel contesto della cosmologia contemporanea è quella dell’eterna inflazione: l’idea di un multiverso che è esistito da sempre e nel quale la maggior parte degli innumerevoli universi isola intraprendono processi di espansione a velocità incomparabilmente più elevata di quella con cui si espande il nostro attuale universo (che sarebbe una regione relativamente stabile di questo multiverso, e di dimensioni infinitesimali) [11] .

    Vi sono molte opinioni autorevoli, del tutto comprensibili, che condannano queste speculazioni come non scientifiche e vane, se non proprio dannose, perché incontrollabili, perché situate su scale spaziali e temporali troppo lontane, perché contrarie al rasoio di Occam secondo il quale è opportuno non moltiplicare gli enti, se non costretti da una necessità inconfutabile. E tuttavia tante altre voci altrettanto autorevoli ritengono che congetture di questo genere siano necessarie per la comprensione del nostro stesso universo, e si attrezzano per intravedere future possibilità di controllo sperimentale. Nello stesso tempo, anche gli oppositori ritengono che sia possibile falsificare empiricamente l’ipotesi. La controversia rimane aperta, e non è detto che possa venire decisa in maniera univoca [12] . Forse, sarebbe anche opportuno relativizzarla e sdrammatizzarla, notando quanto sia stata frequente nella storia delle nostra tradizione scientifica un’evoluzione e una trasformazione dell’idea di universo: così, per l’astronomia dell’ottocento l’universo equivaleva praticamente alla nostra galassia mentre oggi, solo nella parte visibile dell’universo, di galassie ce ne sono trilioni.

    D’altra parte, essa si intreccia con la comprensione che in un certo senso gli sviluppi delle conoscenze umane spesso procedono oltre quest’universo, anche quando non coinvolgono orizzonti immani dal punto di vista spaziale e temporale. Ad esempio, si procede in maniera altrettanto perturbante (e rivoluzionaria) quando si concepiscono modi innovativi di guardare agli oggetti scientifici consolidati, o persino agli oggetti della vita quotidiana: ad esempio, invece, di guardare all’universo solo dal punto di vista di ciò che effettivamente accade, guardarlo dal punto di vista di ciò che può e di ciò che non può accadere [13] . E in tutti questi casi – sia che si tratti di travalicare gli attuali orizzonti spaziali e/o temporali, sia che si tratti di travalicare gli attuali orizzonti delle relazioni con i nostri oggetti di conoscenza – non abbiamo alcuna garanzia che i percorsi intrapresi abbiano una fine ultima.

    Di fatto, il problema è ancora più profondo, perché riguarda soprattutto noi stessi. Ne è indizio un uso troppo disinvolto dei termini di teoria e di tutto, apparentemente legittimato da presupposti come minimo inverificati, se non forse inverificabili, e anche falsi. La scienza moderna ha sviluppato linguaggi e griglie concettuali particolari, consolidati appunto nelle idee correnti di ‘teorie’ e ‘modelli’, un cui sottoinsieme è per di più espresso sotto forma di leggi universali in parte matematizzabili. Ma come possiamo essere sicuri che il tutto si faccia rinchiudere in forme linguistiche e in griglie concettuali elaborate da una singola specie, dotata di una biologia e di un’intelligenza molto particolari, situata in uno degli innumerevoli pianeti che si trovano in una delle innumerevoli galassie di un universo? E c’è qualche motivo particolare che questo tutto sia esprimibile in termini di coerenza, che sicuramente è un valore importante, ma un valore importante per gli umani? Come può questa specie biologicamente e cognitivamente molto localizzata, e di scala infinitesimale rispetto all’immensità degli spazi e dei tempi in cui è collocata, valutare questi spazi e tempi come se si trovasse all’esterno, e tradurre l’idea di universo (o anche di multiverso) nell’idea di tutto ciò che esiste o, in forma più forte, nell’idea di: tutto ciò che esiste, e nient’altro che questo?

    Oggi stiamo esplorando vari tipi di limiti [14] della conoscenza umana, e più che limiti nel senso di non oltre essi si rivelano vincoli costruttivi derivanti dalle specificità biologiche, cognitive e spazio-temporali di noi soggetti umani, che devono essere compresi per gli ulteriori sviluppi delle conoscenze [15] . In questo senso, più che limiti umani in senso stretto sono limiti alle capacità di proiezione dei nostri caratteri particolari sulla realtà stessa, al fine vano di domarla, controllarla, conquistarla, addomesticarla. Se noi diciamo che non è possibile, nel micromondo studiato dalla meccanica quantistica, misurare contemporaneamente posizione e velocità di moto di una particella sotto una certa soglia di indeterminazione, questo significa che il micromondo non si lascia ingabbiare dalle nostre griglie concettuali elaborate originariamente alle scale spazio-temporali della nostra vita quotidiana. E se diciamo che esistono problemi computazionali irrisolvibili, fenomeni non descrivibili, fatti matematici non dimostrabili, significa che nell’universo non tutto può essere reso oggetto di computazione, di descrizione, di dimostrazione [16] .

    È questa proiezione, questa ambizione del controllo, che spesso offusca i processi di conoscenza, imprigionandoli entro simulacri di realtà a proprio uso e consumo, per paura di perdersi nell’oceano dell’ignoto. È un atto di presunzione somma porre noi, soggetti umani incarnati, sullo stesso piano del mondo, del cosmo, della realtà o di qualunque cosa vogliamo assumere a nostro interlocutore nel processo della conoscenza. Di fatto, il rapporto fra noi e questo nostro interlocutore non può che essere asimmetrico. Può ricordarci il rapporto fra discepoli e maestro in molte pratiche orientali, ad esempio l’operato di un maestro zen che pone ai discepoli una serie di ko¯an [17] , per spiazzarli [18] . Sappiamo, dalle varie pratiche orientali che fanno un uso costruttivo dei ko¯an, che queste sono affermazioni decisive non per il loro contenuto informativo ma perché obbligano il discepolo a sostare, a meditare, a riflettere su se stesso e sulle proprie cornici mentali. Così, poi, egli può proseguire il suo percorso di crescita, trovando soluzioni innovative, ampliando e ristrutturando le sue cornici di riferimento, abbandonando consolidate presupposizioni che a un certo punto risultano pesanti e caduche.

    Così, oggi, qualunque atto di conoscenza non può che prendere il via da un atto di resa: la comprensione che la nostra conoscenza incarnata e particolarizzata non potrà mai ingabbiare e omologare il nostro maestro cosmico. Se vogliamo visualizzarla, la relazione fra noi e il nostro maestro cosmico è una relazione paragonabile alla relazione fra finito e infinito o forse, meglio ancora, a quella relazione fra diversi ordini di infinito, che le matematiche degli ultimi centocinquant’anni ci ha reso familiare.

    È solo questa resa che scioglie la gabbia delle limitazioni preventive che avevamo proiettato sulla realtà e sul cosmo. È solo questa resa che dà il via a una danza che crea [19] fra noi e il cosmo, sempre mobile, intrinsecamente incompiuta e interminata. Certo, è possibile che almeno talune direzioni di sviluppo di questa danza che crea a un certo punto finiscano con l’interrompersi perché la scala spazio-temporale della nostra esistenza risulterà troppo distante da altre scale spazio-temporali (o, forse, da ambiti del reale non esprimibili in termini spazio-temporali). Ma vale la pena di scommettere sul fatto che i nostri giochi della conoscenza hanno ancora orizzonti sconfinati davanti a loro, capaci di dischiudere altre scale e altri ambiti, definibili o non definibili in termini spaziali e temporali. Con la speranza, naturalmente, che le nostre avventure conoscitive non vengano interrotte prematuramente per motivi esterni, dovuti all’irrompere della distruzione o dell’autodistruzione dei soggetti umani (o del nostro stesso universo). Si sa, del domani umano e cosmico non c’è certezza.

    3. La rivoluzione più importante negli sviluppi scientifici dei nostri giorni non riguarda soltanto contenuti, teorie e modelli (è scontato che comunque ci siano tante rivoluzioni rilevanti al proposito); riguarda soprattutto il nostro modo di metterci in relazione con questi contenuti, teorie, modelli. E per compiere questa svolta, diremmo antropologica, nel modo di vivere il presente e il futuro delle conoscenze umane, un aiuto indispensabile ci arriva dalla storia delle nostre conoscenze, e in particolare dalla storia della tradizione scientifica moderna. Come tante altre vicende storiche, questa non è stata e non è una storia necessaria, non è stata e non è l’unica storia possibile. I suoi vari sviluppi, le sue varie discontinuità, le sue varie conquiste – al pari degli sviluppi, delle svolte, delle conquiste di ogni tradizione conoscitiva – si sono intimamente intrecciati con i contesti sociali, politici, economici dei suoi tempi; ancora di più, si sono intimamente intrecciati con un insieme molto ampio di visioni ideologiche e metafisiche, talvolta collettive e condivise, in altri casi puramente personali e idiosincratiche. D’altra parte, questi stessi sviluppi non possono prescindere da sviluppi antropologici di lunga durata, che nel caso della scienza moderna in parte risalgono al medioevo e all’antichità classica, e prima ancora alle origini stesse di quella che chiamiamo la tradizione di pensiero occidentale [20] .

    Per quanto gli studi degli storici della scienza oggi siano profondamente informati da queste consapevolezze, un progetto antropologico di questo genere è in continuo divenire, e probabilmente (diremmo anche: fortunatamente) sarà sempre aperto e incompiuto. Ma per quanto riguarda l’origine e la storia della tradizione scientifica moderna, siamo in grado di valutare taluni vincoli, di ordine storico e antropologico, che hanno disciplinato strettamente il comportamento e le aspirazioni degli scienziati (e anche dei filosofi), incanalando le direzioni di sviluppo del loro pensiero, lo spettro delle domande considerare ammissibili, e i tipi di risposte da ricercare. In questo modo hanno innalzato una barriera abbastanza rigida, anche se non proprio impermeabile, tra un pensiero dominante e i pensieri giudicati eretici, di volta in volta sottovalutati, ignorati o condannati.

    La tradizione scientifica moderna è stata per molti aspetti vittima dei suoi successi: rapidi, spettacolari e di enorme portata. In un periodo relativamente breve era riuscita a spiegare i comportamenti enigmatici dei corpi celesti e a unificare questa spiegazione con i comportamenti dei corpi terrestri, grazie all’elaborazione di espressioni matematiche semplici e universali. Si sviluppò dunque la convinzione che le molteplici dimensioni dell’universo, compresi i sistemi umani, potessero essere affrontate in questa maniera e che, plausibilmente, le matematiche potessero costituire il linguaggio privilegato in cui esprimere le molteplici forme della conoscenza. E una tale sindrome del successo è finita col generare una caratteristica insensibilità rispetto alla possibilità stessa di soglie oltre le quali i nostri tipi di spiegazione, i nostri modelli, le nostre strategie potessero venir meno. In altri termini, ha avuto luogo una fatale confusione fra la parte e il tutto, un’illegittima estrapolazione dalla parte al tutto. Se le nostre strategie, i nostri modelli cognitivi potevano funzionare per quella parte del mondo già resa comprensibile, probabilmente questi potevano essere estesi indefinitamente con il procedere dell’attività scientifica.

    Questo atteggiamento estrapolativo è stato ereditato, in maniera piuttosto diretta, anche dalle scienze della Terra e della vita. Lo ritroviamo agli inizi del novecento con la nascita della genetica, che alle origini interpetava tutti i rapporti fra i genotipi e i fenotipi degli organismi sulla base di una produzione diretta dai genotipi ai fenotipi, quale era emersa negli esperimenti di Mendel su talune piante (e nemmeno su tutte le piante) a sua disposizione. La ritroviamo alcuni decenni dopo, verso la metà del novecento, nella cosiddetta assunzione sintetica del neo-darwinismo, secondo la quale i processi della microevoluzione (cioè, il mutamento delle frequenze geniche nell’ambito di una specie, insieme alla competizione fra organismi e fra specie) sono condizioni necessarie e sufficienti per la spiegazione dei processi macroevolutivi, quali l’estinzione dei dinosauri, la nascita di nuovi piani di organizzazione animali, o la stessa nascita degli animali. È ironico allora che questa attitudine estrapolativa inizi ad essere messa in discussione proprio in uno dei campi fondamentali in cui la tradizione scientifica moderna si era originata, l’astronomia, giacché alla fine dell’ottocento si scorse, almeno in linea di principio, come il comportamento dei corpi del sistema solare non potesse essere omologato in un unico modello predittivo.

    Altrettanto importante per il ventaglio delle sue ricadute è quella ricerca della certezza, spesso esasperata, talvolta persino ossessiva, a cui la tradizione scientifica moderna è stata particolarmente sensibile, soprattutto ai suoi inizi [21] . La seconda metà del cinquecento e tutto il secolo successivo sono stati caratterizzati da una recrudescenza dei conflitti bellici, con la conseguente insicurezza nella vita quotidiana degli individui e delle collettività. Di fatto, queste guerre si coordinano nel contesto di una vera e propria guerra civile europea, che conosciamo sotto il nome di guerre di religione e che ha le sue radici nello scisma di Lutero del 1517. La contrapposizione fra i cattolici e le varie confessioni protestanti non aveva luogo soltanto fra diverse coalizioni statali e imperiali, che naturalmente ne approfittavano soprattutto per realizzare obiettivi di potenza molto mondani. Parallelamente, e diremmo indissolubilmente, vi era una serie di persecuzioni delle minoranze, e di guerre civili all’interno dei singoli stati, nessuno dei quali poteva dirsi immune da queste dilacerazioni. Molto particolare assumeva poi la dimensione della guerra civile nel contesto della chiesa cattolica, i cui ordini ecclesiastici (fra i quali, soprattutto, i gesuiti) erano impegnati in una lotta dalle alterne vicende per il prestigio e per la rispettiva influenza sul potere papale. È noto come Galileo sia stato drammaticamente invischiato in queste lotte e alla fine ne sia stato travolto; ma la loro influenza regressiva sugli sviluppi scientifici va al di là delle vicende del grande scienziato pisano [22] .

    Altrettanto, se non più gravi furono le conseguenze di una seria crisi climatica, che rese molto precaria l’esistenza stessa dei contadini, che allora costituivano l’assoluta maggioranza delle popolazioni europee. Gli scarsi raccolti e le conseguenti carestie furono tali da elevare di gran lunga i tassi di mortalità in molti paesi, soprattutto dell’Europa settentrionale. E ancor oggi non riusciamo a dipanare quanto, in questi picchi di mortalità, sia dipeso dall’impossibilità di alimentarsi adeguatamente e quanto dal continuo imperversare delle epidemie: di fatto questi due fattori si accompagnavano in maniera inestricabile.

    Questa crisi climatica a più livelli (un raffreddamento generale si accompagnava a un aumento della variabilità del tempo atmosferico, e a un’incontrollabilità delle precipitazioni), oggi nota come piccola era glaciale, era in atto sin dalla seconda metà del trecento ma raggiunse il suo apice proprio nel seicento, quando l’Europa centrale era devastata dalla guerra dei Trent’anni. Le fatiche del vivere quotidiano erano tali da suscitare ondate incontrollate di violenza e spesso anche la comoda ricerca di capri espiatori: questo secolo è anche l’età della caccia alle streghe. Naturalmente, in queste ondate di violenza, è difficile separare e isolare le motivazioni: le predazioni degli eserciti e dei mercenari bellici, il fanatismo religioso, la necessità di soddisfare ad ogni costo gli elementari bisogni alimentari si intrecciano in un circolo vizioso [23] .

    Quelli che negli ultimi secoli saranno chiamati scienziati (un concetto e un termine che ancora non esistevano [24] ) condividevano con i loro contemporanei l’incertezza esistenziale del vivere quotidiano. Pensiamo solo alla biografia di Galileo, come abbiamo detto, ma anche a quelle di Keplero o di Descartes. E, nel loro caso particolare, l’incertezza delle condizioni generali si accompagnava all’incertezza del loro riconoscimento sociale ed economico, che era ben lontano dall’essere garantito: chi non aveva la fortuna di essere abbiente per nascita o per professione, doveva andare in cerca di un protettore, come potevano essere – ma solo nei più fortunati dei casi – i Medici, il Pontefice, l’Imperatore del Sacro Romano Impero, il Re di Danimarca. Spesso era la veste talare a garantire una certa autonomia nella ricerca, fatti salvi i controlli dogmatici dei superiori ecclesiastici o, ancora, i conflitti fra le confessioni religiose.

    Questa situazione politica e sociale ha sicuramente generato – anche se non determinato in senso stretto – la scelta di organizzazione delle conoscenze scientifiche in forma di una piramide bastata su fondamenti certi e indubitabili: una ricerca che, fra parentesi, confliggeva con lo stesso metodo ipotetico-deduttivo che sin dall’antichità era espressione di una consapevolezzza almeno parziale della possibile relatività e convenzionalità degli assiomi e dei postulati fondazionali [25] . Soprattutto, con il procedere della tradizione scientifica moderna, il problema cruciale non era quello di garantire la certezza di questo o di quel presupposto particolare (che, naturalmente, variavano moltissimo da approccio ad approccio, da autore ad autore), ma di garantire – a un livello di generalità più elevato – che la stessa ricerca della certezza fosse un’impresa dotata di significato e di buon esito. Come ritenere dunque che i nostri strumenti cognitivi siano adeguati al mondo? E, a prescindere dalle particolari convinzioni religiosi e spirituali degli individui, di fatto molto varie, una soluzione confortante era il ricorso a Dio quale garante supremo della validità delle nostre conoscenze. Ma questo era un dio che spesso non aveva molto a che fare con il Dio delle singole tradizioni religiose, e che invece assomigliava a quello che oggi chiamiamo ‘god of the gaps’ (dio dei vuoti) [26] : la presenza di un’istanza superiore con la funzione precisa di garantire la possibilità stessa di fondamenti ultimi alle nostre conoscenze.

    La situazione si ingarbuglia proprio quando il crescente prestigio della scienza, a cavallo fra il settecento e l’ottocento, ispira orgogliose affermazioni di autosufficienza: Pierre Simon de Laplace, davanti a Napoleone, afferma di non avere più bisogno di un dio quale graziosa ipotesi. Laplace opera allora un colpo di mano che, a lungo termine, risulta persino autodistruttivo. Quale garante dell’adeguatezza delle nostre conoscenze, egli pone il potere di predizione e di controllo della stessa mente umana, incarnandolo in un demone dalle capacità calcolistiche molto più estese di quelle dei singoli soggetti umani, individuali o collettivi che siano, ma in linea di principio da queste estrapolate. Ma il calcolo è un’operazione molto concreta nell’universo fisico, lo si faccia con carta e penna, con i computer dei nostri giorni o, ancora, con computer quantistici di là da venire. E la capacità di calcolo ha intrinsecamente limiti molto seri, sia di fatto [27] (il tempo necessario per molti calcoli affrontati nelle scienze supererebbe di gran lunga il tempo di esistenza del nostro universo) sia in linea di principio (perché esisterebbe un limite intrinseco alle possibilità di computazione del nostro stesso universo) [28] . L’idea di un demone dalle capacità calcolistiche illimitate e indeterminate è contradditoria, e inutilizzabile per ogni discorso sui fondamenti.

    Più modestamente, si è andati e si va in cerca nella generica natura una possibilità del fondamento di ciò che asseriamo e conosciamo: dopotutto gli umani sono un prodotto di questa stessa natura, si sono evoluti nel suo seno, si sono adattati ai suoi aspetti più variegati. Un ragionamento del genere, però, è solo parzialmente valido. Il richiamo all’evoluzione può essere inteso anche in senso molto diverso: noi ci siamo adattati, in quanto esseri biologicamente condizionati, a una gamma abbastanza ristretta degli aspetti della natura, quelli maggiormente coinvolti ai fini della nostra sopravvivenza. Questi adattamenti sono così localizzati spazio-temporalmente, e per di più sempre in discussione, data la continua trasformazione degli ambienti e anche delle nostre necessità biologiche e cognitive.

    Così, negli sviluppi della scienza del novecento, questa ricerca dei fondamenti assoluti è sfociata nella dissoluzione del significato stesso di questa ricerca: nella presa di coscienza di un ‘sapere senza fondamenti’ [29] , di ‘mondi senza fondamento’ [30] o, per dirla con Karl Popper, di una ‘scienza su palafitte’. Questa condizione, a dire il vero, non equivale all’assenza di fondamenti ma, piuttosto, alla scoperta della contestualità e della relatività di ogni fondamento. Quando compiamo questa o quella procedura scientifica, ad esempio se vogliamo misurare la distanza dalla Terra di una stella lontana [31] , non possiamo procedere che assumendo come certe e indubitabili talune teorie, talune nozioni di base che in quel momento e per quel determinato fine vengono assunte come fondamenti. Ma questi fondamenti sono sempre provvisori e revocabili: nulla vieta (e anzi talvolta accade) che anche fondamenti estremamente profondi e generali vengano sottoposti alle nostre indagini, e ai nostri tentativi di falsificazione.

    4. Un grandissimo successo della tradizione scientifica moderna consiste nel fatto che è riuscita ad attuare felicemente una transizione fra un’immagine dell’universo, e un’idea della conoscenza di tale universo, in sostanziale continuità con le esperienze della vita quotidiana – almeno della nostra civiltà occidentale – a un’immagine dell’universo, e a un’idea di conoscenza di tale universo, che coinvolge anche e soprattutto scale spaziali e temporali molto lontane da quelle della vita quotidiana (che a prima vista potevano apparire incommensurabili con le nostre esistenze, e da esse inattingibili).

    L’astronomia è una scienza che affonda le sue radici nelle società umane delle età remote: le posizioni relative del Sole, delle stelle e delle costellazioni erano indispensabili per orientare navigatori e nomadi nei loro rischiosi viaggi, e altrettanto indispensabile era la conoscenza dettagliata dei cicli solari e lunari per le attività agricole. Ben prima che si sviluppasse una riflessione filosofica sul cosmo nell’età classica della filosofia greca, ben prima che si decidesse di affrontare direttamente gli enigmi del moto apparentemente irregolare dei pianeti, conoscenze astronomiche dettagliate erano iscritte nella cornice di un universo a due sfere [32] , basato su una fitta rete di relazioni fra la Terra immobile e i moti della volta celeste. All’ordine delle osservazioni astronomiche si sovrapponeva e si integrava l’ordine dei richiami simbolici, delle narrazioni mitiche [33] . Era un’età antecedente alla nascita della scienza come impresa autonoma, ma non era un’età ingenua. Anzi, questa cosmologia a due sfere andava incontro in maniera ammirevole alle esigenze di base della vita degli individui e delle collettività umane [34] , producendo conoscenze che – considerate le enormi limitazioni derivanti dalla mancanza di strumenti tecnologici di osservazione e il ricorso quasi esclusivo alle trasmissioni orali per l’affidamento dei saperi alle nuove generazioni – ci appaiono assolutamente raffinate anche dal punto di vista privilegiato dei nostri giorni. Di fatto, l’universo a più sfere, che la civiltà greca classica tramandò al mondo medievale e rinascimentale, risultava un eccellente perfezionamento di questo universo ancestrale, ed era sorto soprattutto per affrontare con nuovi strumenti concettuali il problema dei moti irregolari degli astri erranti (pianeti) [35] . Ma gli impatti che esso ebbe sul senso comune non furono troppo radicali. L’universo restava centrato, finito, e sperabilmente dominabile grazie alle opere dei filosofi e degli astronomi, congiunte ma anche un po’ conflittuali.

    Con il procedere dei secoli, in queste prospettive di lunga durata si inserirono delle crepe che, all’inizio dell’età moderna, resero rapidamente obsoleti i multimillenari attributi dell’universo. Improvvisamente gli umani scoprirono di vivere in uno spazio profondo, acentrato, illimitato, a prima vista inattingibile dal senso comune, e svilupparono persino una nostalgia per l’antico ordine cosmico che intercorreva fra le conoscenze astronomiche e la vita quotidiana. Pochi dotti si caricarono sulle spalle la sfida di elaborare nuovi strumenti pratici e teorici: una nuova tecnologia e una nuova scienza.

    Per di più, anche quando la tradizione scientifica moderna aveva iniziato con coraggio e quasi con baldanza l’esplorazione di questo spazio profondo, l’idea di un tempo profondo, in direzione del passato come in direzione del futuro, restava del tutto inconcepibile. Nella civiltà europea del seicento l’interpretazione della cronologia biblica, e la sua interconnessione con le cronologie dell’età classica (e degli egizi, e dei babilonesi) non solo produceva una cultura condivisa delle élites colte, ma era alla base di un’attività scientifica vera e propria [36] . E ciò valeva nei confronti del passato come in quelli del futuro [37] . L’interpretazione corrente imponeva di credere che la vicenda dell’universo avesse un’ampiezza temporale limitata e prefissata, e definibile a partire dalla lettura dei testi biblici, sulla base di un limite complessivo di circa 6000 anni. Nell’età delle guerre di religione visioni millenaristiche e apocalittiche continuavano ad essere vitali, come era stato per tutto il medioevo, e intrecciavano in varie forme politica, religione ed escatologia. Lo stesso Isaac Newton era affascinato dalle profezie bibliche, e non rifuggiva da calcoli da esse ispirati, secondo i quali la fine del mondo doveva essere fissata non prima del 2060 [38] . Con fine del mondo, tuttavia, è probabile che Newton, al pari di tanti altri contemporanei o predecessori, intendesse il Secondo Avvento e il Regno di Dio sulla Terra. Ma i tempi apocalittici erano già cominciati. Per Newton, l’Anticristo sedeva già in Roma: si trattava del potere temporale dei papi [39] .

    Una grande direzione di sviluppo della scienza moderna sta proprio nelle esplorazioni progressive di scale spaziali e temporali dell’universo sempre nuove, e sempre più discoste dal mondo dell’esperienza quotidiana: in direzione del macrocosmo e del microcosmo per quanto riguarda le scale spaziali; in direzione del passato e anche in direzione del futuro per quanto riguarda le scale temporali. Ma queste esplorazioni erano rese possibili, e risultavano dotate di senso, da una sorta di pedagogia del senso comune che riusciva a risolvere con successo il problema della costruzione di un nuovo senso comune, di un nuovo mondo integrato tra cielo e terra, tra passato e futuro. Questo successo, niente affatto scontato, anzi a prima vista del tutto imprevedibile, è stato ottenuto con il ricorso sistematico a strategie di estrapolazione dal qui ed ora al lontano da noi, dalla capacità di mostrare che i nuovi mondi non erano del tutto discontinui rispetto al mondo di origine, ma erano connessi ad esso con legami ben saldi.

    Queste estrapolazioni costituirono anche una risposta immediata, e a prima vista molto convincente, alla confusione e allo spiazzamento che la rivoluzione astronomica aveva suscitato in molti contemporanei, timorosi che l’esplosione degli spazi siderali distruggesse anche quella rete di ordinamenti che governava la Terra e le vite umane [40] . Sì, i cieli erano profondamente mutati, ma le osservazioni con il telescopio vi avevano scoperto mondi non così diversi da quelli a noi già familiari: di nuovo si poteva guardare il cosmo mantenendo ancora come guida il nostro mondo. Anzi, i corpi del sistema solare erano altre Terre, quasi letteralmente. Per Galileo l’alternanza di parti scure e parti chiare sulla superficie lunare non poteva essere che un’alternanza fra i mari e le terre emerse (e la terminologia astronomica a tutt’oggi ne risente); per Keplero era del tutto plausibile che la Luna fosse abitata, come pure lo stesso Giove [41] . E il pastore anglicano Robert Burton, nel 1621, dalla constatazione che la Terra si muoveva nello stesso modo degli altri pianeti, così come ora era mostrato dall’astronomia copernicana, ne traeva la conclusione che anche gli altri pianeti del sistema solare non potevano che essere abitati, proprio come lo era la Terra [42] .

    Nella storia della modernità occidentale, l’esplosione delle scale temporali tradizionali, già sospettata da vari naturalisti nel corso del settecento, raggiungerà il grande pubblico nei primi decenni dell’ottocento: allora una serie di fossili perturbanti – mammuth, dinosauri, giganteschi rettili marini – mostrerà la necessità di una ricostruzione della storia naturale altrettanto radicale dell’antecedente ricostruzione dei cieli. Ma il pubblico colto non ne sarà troppo turbato, perché la fiducia nelle spiegazioni e nelle strategie scientifiche si era enormemente consolidata: questa tradizione scientifica non era più nell’incertezza degli inizi, ed anzi pretendeva di aver avuto accesso a una sua fase matura. Proprio per questo la ricerca della continuità entro la dilatazione temporale esercitava una funzione pedagogicamente rassicurante. Il grande successo di Charles Lyell, dai contemporanei proclamato unanimemente il fondatore della geologia moderna, enunciò il principio attualista per disciplinare l’esplorazione del tempo profondo che la sua nuova disciplina aveva intrapreso: la conoscenza dei fenomeni geologici, e anche delle loro rispettive intensità, che hanno luogo nella Terra del presente sarebbe una condizione necessaria e sufficiente per la conoscenza dei fenomeni geologici, e delle loro rispettive intensità nell’intera storia della Terra.

    Tutte queste estrapolazioni sono state indispensabili, produttive, inevitabili, ma fino ad un certo punto. Da questo punto in poi, quella catena di decentrazioni che allargano le scale spaziali, temporali, spazio-temporali che sono oggetto della conoscenza scientifica diventano altrettante occasioni per mettere in discussione la generalità delle procedure di estrapolazione con cui si era correntemente proceduto. Sempre di più, l’universo esercitava una resistenza all’applicazione scontata di un principio di continuità; sempre di più emergevano soglie (in genere, non anticipate) che indicavano i limiti delle estrapolazioni e la presenza di confini nell’universo che impongono confini anche alla nostra conoscenza dell’universo. Le notissime rivoluzioni scaturite dalla faticosa comprensione che il microcosmo atomico non era un sistema planetario in miniatura e che gli effetti fisici a velocità prossime a quelle della luce non potevano essere descritti mantenendo inalterate le modalità di ricorso alla fisica newtoniana sono solo il risultato più evidente di questa scoperta di confini e di soglie.

    Forse meno spettacolari e radicali, ma altrettanto feconde per gli sviluppi scientifici da cui sono stati prodotte e che hanno a loro volta prodotto, sono le decentrazioni che hanno interessato gli sviluppi delle scienze del vivente negli ultimi due secoli, in un periodo di tempo più compresso rispetto alle decentrazioni delle scale spaziali e temporali esplorate dall’astronomia, dalla fisica e dalla cosmologia.

    Alle origini e alla base delle odierne scienze del vivente, abbiamo anzitutto quell’impetuosa decentrazione delle scale temporali della storia del nostro pianeta, che quasi in un attimo ha condotto dall’universo chiuso e ristretto della storia biblica all’universo aperto e sconfinato delle scale dei miliardi di anni, ove hanno luogo le origini e i primi sviluppi formativi del sistema solare, del pianeta Terra, della vita. Oggi abbiamo sicuramente compreso che la Terra delle origini, per un interminabile periodo di tempo esposta a entrambi i rischi del fuoco e del gelo, non può essere certo studiata adeguatamente proiettandovi la Terra del presente. Parallelamente, è stata altrettanto incalzante una decentrazione di ordine spaziale degli oggetti di studio: da una sorta di macromondo biologico, cioè di un mondo alla sola scala dell’esperienza quotidiana, fatto di organismi e di specie, di animali e di vegetali, e dei loro rispettivi contesti ambientali e geografici, abbiamo proceduto verso una sorta di micromondo biologico, esplorato prima dalla genetica, poi dalla biologia molecolare e oggi, infine, anche dalla genomica e da tante altre nuove discipline ad essa connesse.

    E anche quello che abbiamo definito il macromondo delle esperienze biologiche su scala umana ha subito una sua particolare decentrazione, che possiamo definire una decentrazione tassonomica: questa ha rivoluzionato più volte la nostra visione della varietà delle specie e degli organismi viventi e delle relazioni che essi intrattengono nel contesto complessivo della biosfera. Lo studio tassonomico della varietà dei viventi nasce nel corso del settecento per opera di un botanico, Carlo Linneo, il quale presta una notevole attenzione soprattutto al mondo vegetale e considera invece il mondo animale quasi esclusivamente dal punto di vista delle specie e degli organismi a noi prossimi, quello dei vertebrati, inserendo tutti gli altri organismi e specie animali nella classe residuale degli invertebrati. Agli inizi dell’ottocento, però, Jean-Baptiste de Lamarck dissolverà questa classe fittizia, scoprendo la varietà e l’eterogeneità estreme delle tante forme animali che emergono una volta che il mondo degli invertebrati venga esplorato più da vicino. Charles Darwin, in effetti, fu geniale anche nel comprendere come la sua teoria dell’evoluzione dovesse basarsi sulla conoscenza e sull’esperienza dell’intero mondo biologico a lui noto: fossili e organismi viventi, piante e animali, vertebrati e invertebrati. Successivamente, poi, abbiamo scoperto che oltre agli animali e alle piante esistevano tanti altri organismi e specie multicellulari e alla fine, negli ultimi decenni, ci siamo immersi nell’esplorazione della varietà e dell’eterogeneità dei microrganismi monocellulari (batteri e archei): sono questi a risultare i tipi di organismi assolutamente prevalenti nell’intera biosfera terrestre, come numerosità, come diversità ecologica, come varietà biochimica. L’ulteriore scoperta degli estremofili, cioè di microrganismi che fioriscono in ambienti invivibili – ad esempio, perché troppo freddi o troppo caldi – per tutti gli altri organismi terrestri è stato un passo ancora più recente, e altrettanto rilevante, in un processo di decentrazione che oggi attende con ansia di procedere su una scala non più soltanto terrestre. Va da sé che tutte queste direzioni di sviluppo delle scienze del vivente non sono isolate, ma si supportano e si interpellano a vicenda nella ricostruzione degli scenari della biosfera passati e presenti, nello studio delle relazioni tassonomiche fra le specie viventi, nell’esplorazione dei processi, dei ritmi, e dei fattori rilevanti dell’evoluzione biologica.

    In ogni caso, sul piano dello studio del vivente come su quello dello studio dell’universo, la scoperta di confini e di soglie non frammenta necessariamente l’unità del sapere, ma innesca a sua volta una ricerca di integrazioni a livello più elevato, delle connessioni profonde fra teorie e modelli che indagano diverse regioni (spazio-temporali) del cosmo. E queste ricerche ci hanno condotto a un approccio storico ampliato, in cui la storia naturale del nostro pianeta, oggi indagata così brillantemente dalla tradizione evoluzionistica darwiniana e dall’estesa federazione di discipline ad essa connessa, è anticipata, accompagnata e intrecciata da una storia cosmica, anche se ovviamente con caratteristiche particolari non omologabili.

    La rivoluzione astronomica, togliendo al nostro pianeta la sua centralità nell’universo, gli ha negato con ciò stesso il ruolo di osservatorio privilegiato dello stesso universo. Questo dato di fatto è stato interpretato quale affermazione di un principio copernicano, secondo il quale nell’universo non esistono luoghi di osservazione privilegiati, e che l’universo su grandissima scala è omogeneo. Questo principio è senz’altro plausibile, ma a tutt’oggi resta discusso e controverso. Ma ciò che crea problemi è che questa enunciazione cosmologica abbastanza tecnica sia stata interpretata come un’asserzione, molto diversa, che riguarda il nostro pianeta: che la Terra sia un luogo dell’universo del tutto comune, che non presenti alcunché di speciale. Letteralmente intesa, questa asserzione è sbrigativa, anzi clamorosamente falsa. Allo stato attuale delle nostre conoscenze, la Terra è l’unico posto dove abbiamo trovato la vita. Secondo alcune opinioni, oggi a dire il vero sempre meno frequenti, la Terra sarebbe un posto molto speciale, perché sarebbe uno dei rarissimi luoghi nell’universo, o persino l’unico, dove fiorisce la vita. Uno dei fili conduttori dell’intero libro è di mostrare come le scienze contemporanee, con l’astrobiologia in avanscoperta, rifiutino entrambe i corni di questa alternativa mal posta, e si chiedano insistentemente quali insiemi di pianeti possano ospitare la vita, e in quale misura: la vita nell’universo non è più questione di tutto o niente. I pianeti non sono mai interscambiabili, e anzi ci appaiono sempre più diversificati. Taluni caratteristiche dei pianeti extrasolari che già abbiamo iniziato ad intravedere – ad esempio le loro rispettive masse, composizioni chimiche, composizioni atmosferiche – ci indicano come le nostre conoscenze nel campo stiano affrontando una decentrazione ancora più spinta rispetto alle conoscenze che avevamo tratto, fino a tempi molto recenti, dalle nostre esperienze entro il solo sistema solare [43] .

    Non esiste nessun pianeta, nessun corpo celeste privilegiato, tantomeno la Terra, non perché tutti siano omologabili, ma perché tutti sono in certo senso speciali, nel senso di singolari, unici, irripetibili. E questo vuol dire che, prima e al di là della storia del vivente ove assistiamo all’emergenza spinta delle individualità – individualità delle specie e individualità degli organismi viventi – si dà una storia cosmica nella quale sono poste le radici prime dell’emergenza delle individualità.

    Nella condensazione delle nubi molecolari in cui si formano i pianeti [44] , le forze di attrazione gravitazionale svolgono un ruolo preponderante, o addirittura esclusivo. Noi, a dire il vero, siamo in grado di esprimere queste forze di attrazione gravitazionale in forma di leggi semplici, (forse) universali, (probabilmente) invarianti. Ma il numero dei corpi in interazione reciproca, alle origini le particelle di polvere cosmica, in seguito i protoplanetoidi in via di formazione e anche le protostelle, è così incomparabilmente elevato, e il numero delle reciproche interazioni ancora più incomparabilmente elevato, che non è possibile concepire alcun approccio predittivo, nemmeno in linea di principio [45] . Per di più, in ogni fase dell’esistenza dei pianeti e delle stelle, è anche impossibile considerare un particolare sistema planetario schermato dalle influenze esterne: esiste anche un’influente ecologia galattica, nella quale persino la polvere cosmica che popola gli spazi interstellari gioca un ruolo rilevante [46] . E questo rende le vicende del sistema solare, da cui la Terra è generata e di cui fa parte integrante, vicende storiche in senso proprio. Esse possono venir ricostruite, e possono essere anche indagate le relazioni delle cause e degli effetti alla base degli scenari presenti, ma soltanto a posteriori, come avviene per ogni altro processo storico: non possono essere dedotte da alcunché. Di fatto, si sta sviluppando quella che è definibile come archeologia cosmica (innanzitutto del sistema solare), che presenta una storia delle origini planetarie particolarmente turbolenta, fatta di frequenti collisioni e di migrazioni planetarie di gigantesca portata. Questo campo di ricerca è molto promettente: le caratteristiche dei sistemi extrasolari scoperti fino ad oggi ci mostrano che essi, in genere, non sono per nulla simili al nostro sistema solare. Siamo di fronte a una varietà estrema, per molti versi enigmatica, del tutto inimmaginabile ancora pochi anni or sono. La diversità e l’individualità caratterizzano in modo radicale gli innumerevoli sistemi planetari, della nostra e delle altre galassie.

    Dopo Darwin, si era diffusa l’idea che l’evoluzionismo rendesse legittimo una sorta di principio darwiniano analogo al principio copernicano. Sul piano letterale, questa analogia è vaga: tecnicamente il principio copernicano significa che la Terra non è un punto privilegiato di osservazione dell’universo, mentre sicuramente non si può dire lo stesso dell’osservazione della biosfera da parte degli umani (o di qualunque altra specie), giacché la percezione dell’ambiente circostante cambia notevolmente di specie in specie, perché condizionata dalle singole caratteristiche biologiche. Tuttavia, il riferimento alle decentrazioni operate dalle scienze del vivente negli ultimi due secoli è stato usato soprattutto per significare che, come la Terra aveva perso il suo posto privilegiato nel cosmo, così la specie umana ha perso il suo posto privilegiato nella natura. La specie umana non appare più l’apice dell’evoluzione; è soltanto un prodotto delle tante traiettorie che si sono fatte strada nella biosfera.

    In un certo senso, gli sviluppi recenti della tradizione evoluzionistica darwiniana hanno rafforzato questa idea: l’emergenza della specie umana nella biosfera è anche il prodotto di fortunate contingenze che hanno impedito l’estinzione del nostro ramo evolutivo e hanno favorito, nel corso di un tempo profondo incredibilmente esteso, tutte quelle innovazioni biologiche, cognitive e comportamentali che hanno reso la nostra specie un attore importante nella biosfera dei nostri giorni. Ma, d’altronde, tutte le specie che hanno successo sono in parte il prodotto di fortunate contingenze. E la storia di ogni specie è diversa, proprio per un groviglio inestricabile, ma sempre diverso, di caso e di necessità. La storia di ogni specie è interessante in sé e per sé, perché ogni specie possiede caratteristiche singolari che definiscono il suo ruolo sempre mutevole in quella immensa rete della vita che da miliardi di anni trasforma persino le caratteristiche geofisiche del nostro pianeta.

    La specie umana (insieme, a dir la verità, agli animali nostri parenti prossimi) resta una specie del tutto marginale in una biosfera che per molti aspetti è sempre, e sempre sarà, dominata dai microrganismi: per la loro diffusione, per la varietà dei loro habitat, per la diversità dei loro meccanismi biochimici. Ma proprio per questo la storia della specie umana è molto interessante: perché è anomala e divergente rispetto a tante altre storie della biosfera, non perché le riassume, le assorbe, le supera. Così, le fiorenti ricerche sulla storia dei nostri antenati prossimi (le scimmie antropomorfe africane) ci fanno comprendere come una ragione basilare del nostro attuale successo su scala planetaria sia la nostra fragilità ancestrale, il nostro spaesamento in ecosistemi originariamente molto ostili. Di più: la nostra specie ha introdotto nel mondo del vivente una nuova dimensione, che potremmo definire noologica. La singola specie Homo sapiens, localizzata perfettamente in spazi e tempi particolari della storia naturale, oggi ha accesso anche a regioni situate in tempi storici molto lontani nell’evoluzione della biosfera, che in qualche modo – nella mente degli umani e nei prodotti della conoscenza che ne scaturiscono – assumono nuove modalità di esistenza (virtuali).

    Certo, la creatività umana rimane sempre una creazione della biosfera e dell’evoluzione, eccellente per molti versi e distruttiva per altri. E il fatto che la specie umana abbia spostato molti vincoli e abbia aperto nuove possibilità del tutto inedite è proprio ciò che inserisce gli umani nella storia naturale, una storia intessuta da tante emergenze e transizioni. Tuttavia l’intensità delle innovazioni umane, e anche le loro ricadute sulla biosfera tutta, sono enormi. Forse per comprendere il ruolo della nostra specie nella natura vivente è indispensabile adottare affermazioni solo apparentemente paradossali, e in realtà più adeguate a descrivere il posto umano nella rete della vita. Così Edgar Morin, nella sua elaborazione di un’antropologia generale situata alla cerniera fra umani e natura [47] , ha coniato la felice prospettiva dell’uomo peninsulare: la prospettiva di un’umanità bifronte, con le radici saldamente piantate nei terreni naturali che la hanno alimentata e ancora la alimentano, ma trasfigurata in tutti i suoi aspetti da un turbine di invenzioni biologiche e culturali.

    In definitiva, l’integrazione fra le decentrazioni copernicane e le decentrazioni darwiniane in una prospettiva relativamente unitaria merita di essere perseguita, ma nel senso esattamente opposto a una lettura superficiale ancora diffusa. In verità, i due ordini di decentrazioni aprono la strada a una visione della storia cosmica - di cui la storia naturale del nostro pianeta è un capitolo molto signficativo - dell’individualità, delle diversità, delle interazioni fra queste diversità, dell’integrazione di queste diversità entro reti di relazioni sistemiche. È in questa storia cosmica e naturale, in cui le singole discontinuità (transizioni, emergenze) non sono incompatibili con talune continuità di fondo, che consiste il nucleo di una nuova alleanza fra scienze fisico-chimiche, scienze del vivente, scienze umane, tutte quante impegnate e cooperanti nello studio di aspetti differenti di questa storia.

    5. Nel corso dell’ottocento, i primi sviluppi della storia naturale e l’esplorazione del tempo profondo avevano depotenziato l’incombenza della fine ultima, proiettando molto in là nel futuro le prospettiva dell’escatologia scientifica. Essa fu tradotta nella prospettiva di una morte termica dell’universo, apparentemente ineluttabile in virtù dell’azione incessante del secondo principio della termodinamica. E tuttavia, in maniera più sottile, il millenarismo della civiltà europea medioevale e moderna, trasfigurato e laicizzato, continuava a impregnare di sé una particolare visione alla storia umana, e della storia delle conoscenze umane. Sotto il segno del progresso, prospettava una discontinuità ormai in pieno divenire, al di là della quale la conoscenza umana ormai trasparente ed esauriente – guidata dalla scienza e dalla tecnologia – avrebbe consentito l’approdo a una sorta di paradiso in terra, stabile e irreversibile. Per questo molti scienziati di punta della tradizione moderna tendevano a collocarsi – e a collocare l’età in cui vivevano – nel decisivo punto di svolta delle conoscenze, allorché l’umanità avuto il primo accesso al punto fondamentale dal quale osservare e controllare il mondo. Questa retorica sfociava in una strana mescolanza di presunzione e di depressione, con sfumature di vecchiaia incombente: forse le età future avrebbero arrecato nuove mirabilie tecnologiche, ma non avrebbero trasformato il senso e il contenuto delle conoscenze scientifiche fondamentali.

    Esaltando, in questa forma cripto-millenaristica, la rottura fondatrice dell’età presente, la scienza moderna si è parzialmente avvitata in un’ideologia che svuotava in uno stesso colpo il futuro e il passato delle esperienze umane. L’etnocentrismo endemico nella modernità occidentale, che ha teso a sottovalutare, a ignorare, e spesso a dissolvere con la violenza le sfide culturali e antropologiche provenienti dall’incontro con le culture altre, ha impregnato di sé anche le narrazioni dominanti degli sviluppi scientifici. Le attività e le forme di conoscenza praticate nelle società occidentali dell’età moderna venivano concepite come il culmine e il compimento di quanto tutt’al più le molteplici attività, pratiche ed esperienze umane avevano vagamente prefigurato nel corso di una storia ormai molto lunga.

    Gli sviluppi scientifici venivano dunque considerati il prodotto di una ragione umana giunta all’età della maturità. La crescente necessità di riorganizzare le modalità di produzione del sapere scientifico, che l’estensione dei fronti di ricerca aperti e il numero stesso delle persone in essi coinvolte rendeva indispensabile, si rivelava un’occasione per sottrarre ai singoli specialisti l’autorità e la capacità stessa di inquadrare, di affrontare e di sviluppare le grandi questioni del mondo e della conoscenza, e le loro implicazioni sul senso della vita, perché erano tutte questioni considerate in via di risoluzione. Dopo una grande rottura fondatrice, le scienze erano in grado di costruire una macchina ben oliata, che invitava i ricercatori a far propria una quasi iniziatica scuola del lutto, che Edgar Morin ha definito e analizzato in maniera folgorante [48] . I singoli ricercatori erano invitati a concentrarsi su una piccola parte, perdendo la visione e il senso del tutto, giacché le loro relazioni vicendevoli erano ormai garantite, se non proprio meccanizzate, dalle strutture burocratiche delle istituzioni accademiche e, insieme, dall’omologazione a poche idee e a pochi metodi di fondo. Solo con grande lentezza, e molto faticosamente, abbiamo capito che questa scuola del lutto non era né necessaria, né legittima, e che le grandi questioni non erano per nulla risolte, che il futuro era ancora più gravido di problemi e di enigmi del passato, che il singolo individuo aveva non solo il diritto, ma anche il dovere, di scorgere e di pensare il tutto per operare con sensatezza e creatività sulle sue singole parti. Se oggi scopriamo i limiti, e spesso la dannosità, di questa miopia programmata lo dobbiamo alla ribellione di tante persone, scienziati e non scienziati, che hanno sentito sui loro stessi corpi la necessità di continuare ad interrogarsi sui sensi e sulle direzioni del loro agire .

    L’età della scuola del lutto, dalla quale a tutt’oggi stiamo cercando faticosamente di uscire, ha rischiato di degradare la scienza in un tribunale ambizioso, volto a giudicare le altre pratiche, esperienze e conoscenze umane (nello spazio come nel tempo) sulla base dell’adeguatezza o della non adeguatezza ai messaggi dei portatori della rottura fondatrice. Nella linearizzazione e nella semplificazione della storia delle idee di matrice positivistica – ingenua, ma quanto mai influente – il mito sarebbe venuto prima della filosofia; la religione prima della secolarizzazione; la metafisica prima della scienza. La mente collettiva dell’umanità avrebbe vissuto una lunga fase acerba infantile, prima che la ragione adulta potesse costituirsi e costituire il migliore strumento per accostarsi alla realtà. E così i miti, i riti, le diverse forme di spiritualità, persino le narrazione artistiche e letterarie dovevano sottoporsi a una sorta di purificazione davanti a questo tribunale supremo, che si autoistituiva per decidere unilateralmente ciò che poteva essere integrato e ciò che doveva essere lasciato andare.

    L’idea di scienza giovane, quale fuoriuscita benvenuta e indispensabile dai danni prodotti dallo specialismo unilaterale, non è solo la riconquista di un futuro aperto per le conoscenze umane; è anche la riconquista di un passato altrettanto aperto. Anche il passato cambia, per rifarsi a una pregnante espressione di Aldo Giorgio Gargani. Se abbandonano la presunzione di guardare dall’alto in basso la varietà delle esperienze umane, le scienze contemporanee sono in grado di scoprire e di indagare consonanze (e, naturalmente, anche di scoprire e di indagare dissonanze), con le filosofie, le narrazioni letterarie e artistiche, i miti, le religioni, le forme di spiritualità che hanno accompagnato le menti e le società umane nei loro molteplici spazi e nei loro molteplici tempi, in una storia globale ormai lunga. Probabilmente la nostra specie, quando si è originata, circa 150.000 anni or sono, era già dotata di uno sviluppo cerebrale comparabile a quello dei nostri giorni. E ciò vuol dire che, nelle innumerevoli interazioni con gli ambienti in cui le popolazioni umane si sono trovate a vivere, sono emerse culture e menti collettive molto ricche e molto diversificate. E noi siamo eredi di tutte queste culture e di queste menti collettive, e anche purtroppo, delle loro degradazioni e dei loro irrigidimenti.

    Non sempre l’ultimo arrivato ha ragione. Certo, le scienze contemporanee si sono mostrate e si mostrano meravigliosamente adatte alla condizione planetaria (e sulle soglie di nuove avventure cosmiche) in cui l’umanità si trova oggi a vivere.

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