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Com'è profondo il Male
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Com'è profondo il Male

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Racconti amari e drammatici scaturiscono dagli anfratti della memoria e della storia attraverso situazioni comiche e surreali, in un continuo gioco di specchi dove realtà e finzione sono mescolate tra loro come carte da gioco nel proprio mazzo.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateMar 8, 2022
ISBN9791220394727
Com'è profondo il Male

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    Com'è profondo il Male - Guido Rojetti

    PREAMBOLO

    «I libri umoristici vengono spesso sottovalutati, visti come qualcosa di superficiale, inferiore ai cosiddetti libri impegnati . Eppure, gli scrittori che hanno definito questo genere contano milioni di fan. Questo perché, chiuso un libro impegnato, non c’è niente di meglio che leggere qualcosa che ci fa ridere, a volte ci fa pensare, e ci restituisce un po’ di leggerezza d’animo», scriveva Valeria Giuffrida nel 2015 su Cultora , il portale italiano di informazione culturale.

    «Perché scrivere un testo comico o battute divertenti?» si chiedeva Lucia Donati il 20/05/2018 su SoloLibri.net: perché essere divertente fa bene a noi e agli altri.

    La risata è terapeutica. Ridere allenta la tensione, è luce e ci dà un senso di potenza: se possiamo ridere, nello stesso tempo non possiamo essere tristi. Chi smuove la risata ha un potere, quello di sconfiggere e in un certo senso esorcizzare la paura, la tristezza, la noia, almeno nel momento in cui la risata scoppia fragorosa o semplicemente apre il nostro viso e lo illumina di divertimento, in una gioia a volte bambina. Un gioco con le parole, la mimica, il senso o il nonsenso che ci fa davvero tornare piccoli, e in cui desideriamo leggerezza e spensieratezza, e le ritroviamo.

    Col riso, la nostra energia è risvegliata sia quando creiamo situazioni o battute divertenti che quando assistiamo a uno spettacolo comico.

    Il nonsense, a mio avviso, ha una gran forza in tal senso per due motivi: sdrammatizza, nel contempo facendo capire che tutto è relativo e non sempre le conseguenze di un qualcosa sono quelle che logicamente dovremmo aspettarci. Esso dunque spiazza ed è un po’ come lo zen per l’aspetto sorprendente. Il nonsense allena la mente alla miriade di possibilità inattese, diverse, anomale, assurde. La creatività qui è al massimo livello, ben più di altre forme di comicità: qui è possibile l’impossibile; torniamo bambini e abbiamo di nuovo in un certo senso i poteri magici: gli oggetti hanno di nuovo un’anima, come pensavamo quando eravamo piccoli (animismo infantile).

    Ridiamo, nel nonsense, per il nesso logico che non c’è, per le parole buffe o inventate, per gli errori voluti, per l’incongruenza delle situazioni o di un discorso e per le assurdità in generale.

    Qui il campo della libertà è il più ampio per un comico, i legami con la teoria si allentano e si può inventare di tutto a patto, è chiaro, che faccia ridere.

    Tornando all’argomento della comicità in senso più ampio, possiamo dire che essa ha una sua forma mentis; e ce l’ha chi la comicità la pratica. Il comico dà la sua personale impronta; non sempre egli dà retta alle regole su come scrivere una battuta o un testo comico seguite da altri mentre cerca la propria voce. Certo, le basi si devono conoscere, ma per oltrepassare il confine e creare in libertà. Nell’ironia il comico dice il contrario di quello che vuol fare intendere allo spettatore (o lettore); il pubblico lo sa; sa di essere complice di questo rovesciamento e ride per il rovesciamento stesso: un po’ come stare a testa in giù!

    Nella satira, politica o di costume, si prende di mira un personaggio o una situazione e la si estremizza, la si ingigantisce, la si esagera: questo crea divertimento. In generale, la mente comica trova spunti in ogni dove, in posti per altri impensabili. Possiamo creare divertimento per noi, come autori che poi andranno anche sul palco; quello che inventiamo per nostro spasso è il nostro marchio di fabbrica. Se invece scriviamo per un comico, dobbiamo entrare prima di tutto nel suo mondo affinché i nostri testi gli calzino a pennello: questi devono essere adatti al suo temperamento, alle sue idee, alla sua mimica.

    In casi fortunati, capita che autore e comico (se non sono la stessa persona) siano vicini per gli aspetti appena detti, allora si attua un feeling creativo, produttivo e soddisfacente per entrambi.

    Ci sono vari modi per costruire battute o pezzi comici seguendo le regole canoniche. Possiamo usare ad esempio il ridicolo, possiamo esagerare alcuni aspetti o avvalerci del paradosso, estremizzare o portarci su un altro piano (o punto di vista).

    Nello scrivere scenette possiamo utilizzare il classico terzo elemento¹ che spiazza lo spettatore, andando oltre i due elementi con cui egli si aspetta di aver a che fare. Nel discorso che riguarda la comicità rientra la parodia, che può essere di un film, di un libro, di una situazione storica o altro.

    Se scriviamo battute o scenette divertendoci, ci divertiremo sempre di più e ne creeremo probabilmente di migliori.

    Ci divertiremo in una spirale di risate e avremo accesso a uno spazio magico dove si trovano le parole, le frasi, i concetti: insomma la fonte forse inesauribile del nostro creare divertimento.

    In quel mondo magico prenderà corpo lo spirito della comicità e rideremo e faremo divertire chi ci ascolterà.

    Il nostro stile decreterà oppure no il successo dello scritto comico: facciamo che la nostra sia un’impronta unica, originale, indimenticabile.

    © Riproduzione riservata SoloLibri.net

    Gli autori più spiritosi

    producono il sorriso

    più impercettibile.

    Friedrich Nietzsche

    Umano, troppo Umano, 1878

    Due uomini sono a bordo di un’auto, il guidatore è in vena di scherzi e dice al passeggero: «Lo vedi quel vecchietto? Ora lo centro in pieno.» Accelera e si dirige sempre più veloce verso l’anziano, e solo all’ultimo momento sterza per evitarlo.

    Il passeggero esclama: «Guarda che se non aprivo la portiera, col cavolo che lo prendevi!».

    State ridendo? Andatene fieri. Uno studio da poco pubblicato sulla rivista scientifica Cognitive Processing afferma che una vignetta di umorismo nero vale come un test di intelligenza, ma anche di cultura, mitezza e buon umore. E chi ride li ha superati a pieni voti tutti quanti. Del resto non è la prima volta che si usa il senso dell’umorismo per valutare il carattere degli individui.

    Harvey Mindess (1928-2012), psicologo clinico della Antioch University di Los Angeles, diceva: Dimmi di che cosa ridi (o non ridi) e ti dirò chi sei.

    È stato lui a scoprire per primo la correlazione fra il tipo di battuta preferita e la personalità.

    Mindess ha suddiviso l’umorismo in dieci categorie; nonsenso filosofico, sessuale, degradante per gli uomini, degradante per le donne, nero (categorie in cui va buona parte di questo libro), satira sociale, etnico, scatologico (sugli escrementi) e ostile.

    Per capire con quali risultati, vi invito a consultare il n. 295 della rivista Focus del 22 aprile 2017.

    Volendo invece focalizzarci sul solo nonsense:

    «Che cosa dice l’uva quando la si pigia coi piedi?»

    «Niente, secerne solo una lacrima,» che implica la libertà di trovare il lato divertente di qualsiasi situazione e la flessibilità di percepire incongruenze di tipo assurdo (e un’infinità sono quelle che troverete leggendo quest’opera).

    In un’improvvisa rivelazione spirituale dei personaggi principali generata da un gesto, un oggetto, una situazione apparentemente banale, si svelerà qualcosa di più profondo, di più significativo e mistico: una sorta di funzione trascendente capace di generare uno stato di trance o rilassamento in grado di portare a galla stati d’animo, sensazioni e collegamenti profondi e inaspettati tra due cose apparentemente distanti, tra un elemento materiale e uno spirituale, che altro non è che lo stesso concetto catartico di epifania, l’espediente letterario che Joyce mette in atto nel suo Gente di Dublino.

    In altre parole, l’epifania di Joyce è il concetto più sensato di sempre, il senso di ogni senso, la base di quella che lui rese la moderna letteratura simbolica.

    Il senso di ogni senso che qui si confronta sperimentandosi tra le pieghe di racconti tradizionali, ma con improvvisi squarci di nonsense: il punto di non ritorno dopo il quale il soggetto non vede più le cose con gli occhi di prima.

    Perché l’epifania è il momento rivelatore.

    Il momento atteso da tutti noi, scrittori e lettori.

    La nostra catarsi e, in questo caso, il rito magico della purificazione dal Male.

    ___________________

    ¹ Moltissimi esempi di questo tipo si trovano nella mia opera umoristica: Giorni da beoni, Brè Edizioni [N.d.A.]

    INTRODUZIONE

    « L’ esistenza dell’uomo e il mondo sono immersi nel paradosso e nel nonsense» affermava il più grande teologo del XX secolo, Karl Barth.

    In inglese nonsense significa sciocchezza, assurdità, ma anche un prodotto della creatività di tipo particolare, basato appunto sull’assurdo, che ha trovato molti cultori, da Edward Lear ad Achille Campanile, da Eugènie Ionesco a Samuel Beckett e fino al contemporaneo Alessandro Bergonzoni, per non citare che alcuni dei nomi più noti.

    In versi o in prosa, in un testo teatrale o in una sceneggiatura cinematografica, il nonsense dà vita a un umorismo grottesco non privo di una sua dimensione drammatica (come quest’opera intende evidenziare).

    Alla base della scelta creativa del nonsense c’è il rifiuto di dare importanza soltanto a ciò che ha un senso, privilegiando bensì proprio ciò che, invece, apparentemente non ne ha (si veda ad esempio, un maestro del genere del nostro tempo: Alessandro Bergonzoni, che si è fatto conoscere vincendo la Palma d’Oro al Festival della Letteratura di Bordighera nel 1989, per il miglior libro comico dell’anno, dal titolo: Le balene restino sedute).

    Il preludio alla stesura di queste storie dalle atmosfere surreali, si è rivelata per l’autore un’opera oceanica, un’impresa ostrica.

    Tuttavia vi ha dato corso mettendo in piazza un cammino narrativo che si pregia di tenersi al largo dall’uso esclusivo della corrente letteraria tradizionale (mainstream). Proprio come in un esperimento, teso ad accostare due poli opposti connessi inestricabilmente tra loro, le due correnti si intrecciano in una scrittura che si appalesa sì tra il sacro mainstream, ma è – volutamente – amalgamata a quella del profano (il nonsense, il paradosso) per vedere l’effetto che fa e rifuggendo dai politi preziosismi stilistici (licenze a parte qua e là).

    Se siete quindi proclivi (ecco una parola polita) unicamente a letture di tipo tradizional-serioso e chiusi alle trasfusioni benefiche dell’humour più scanzonato (e, a volte, scombiccherato), il cui primo obiettivo è quello di strapparvi qualche risata, allora questo libro non fa per voi. Benché è assodato che la risata è fonte di benefici per ogni essere umano, come il medico statunitense Patch Adams ha da tempo sperimentato e dimostrato.

    Del resto (ma niente mancia), il titolo vorrà pur dire qualcosa. Difatti, se avrete la bontà di leggere questo libro, capirete che non sono racconti convenzionali di primo tipo, benché questo non vuol dire che troverete una scrittura di secondo o di terzo tipo, cioè una scrittura di tipo extraterrestre, anche perché gli extraterrestri ci sono alieni.

    D’altro canto (purché intonato), rendere più accattivanti le storie con punte di umorismo, è un espediente usato da sempre in letteratura; come nei romanzi splatter di Clive Barker e Dean R. Koontz, per tacere del fatto che sono quasi d’obbligo nei thriller d’azione. Perché il vero umorista sa ridere di tutto, anche delle proprie disgrazie. Questo proprio perché conscio che, sulla Terra, germogli più il seme della cupezza che quello dell’ilarità.

    Si tratta di spezzare la tensione con un invito a non prendere troppo sul serio ciò che si sta leggendo.

    In buona sostanza, l’umorismo come ingrediente che dà più sapore alla lettura.

    Una prosa priva di mutamenti di tono si dice giustamente monotona.

    La narrazione di una storia dovrebbe invece rispecchiare la volubilità dell’esistenza, l’imprevisto, gli sbalzi di umore e via dicendo.

    Anche la vicenda più tetra può consentire l’inserimento di parentesi umoristiche: basti per tutti l’esempio di Shakespeare, che di tanto in tanto illumina le sue tragedie con sprazzi di autentica comicità.

    Quando Chaplin, ne Il Grande Dittatore, sbeffeggia Hitler con la sua parodia, fa un’operazione di riconversione: prende una delle figure più emblematiche e rappresentative del Male assoluto e la rivolta, convertendola in una esilarante macchietta.

    L’umorismo sociologico di Chaplin è volto alla dissacrazione di ciò che, nella società, non merita rispetto.

    «Essere contemporanei di Hitler è una vergogna che non si riesce a lavare, perché quando il male è sceso a questo punto vuol dire che neanche il bene è rimasto a grandi altezze» diceva Vitaliano Brancati.

    Questa condanna dal peccato originale che è all’origine del Male, è vista da molti in un’ottica di non senso.

    Ed è nel nonsense che in questo libro il Male viene delineato. Molto tempo fa, cioè poco prima di molto tempo sol, e appena poco dopo tempo mi, l’autore maturò questo genere di scrittura dopo aver viaggiato in lungo e in Cayo Largo, scrivendo su Word e girando il mondo senza passworld. Deciso fermamente che mai e poi mai avrebbe scritto storie banali. A qualunque costo. Storie paradossali, grottesche, fantasiose, tragicomiche... ma banali, mai.

    Il suo passaggio dall’aforisma al più dilettevole dei suoi sottogeneri, avvenne quando cogitò questo calembour:

    MOSTRO ENTRA IN UNA MOSTRA E SE NE INNAMORA

    Questo ingegnoso sottogenere di umorismo – solo apparentemente più leggero – è appunto il calembour che, alla stregua della tela del pittore, l’autore pennella sulla carta coi colori più accesi della sua tavolozza di lemmi, stilemi e fonemi affrescandolo fra le trame della narrativa convenzionale (mainstream) dove ogni storia delinea la sua tesi, antitesi e sintesi.

    Come spiega il critico Amedeo Ansaldi sul sito ScriptandBooks. it: Il calembour è un faceto gioco di parole, divertente ma non fine a sé stesso, almeno nelle sue espressioni migliori; bisticcio, freddura basati sulla storpiatura di luoghi comuni e sulla rielaborazione, divertente e maliziosa, di detti proverbiali; su assonanze, doppi sensi, sinonimi e contrari, conio di improbabili neologismi, ecc., che presenta invero un grave, insuperabile limite: quello della intraducibilità, nella grande maggioranza dei casi, nelle lingue straniere – circostanza che non favorisce quel carattere di universalità al quale invece l’aforisma per sua natura tende.

    Il vincolo (un po’ come la rima nella poesia) costringe l’autore a un esercizio d’intelligenza, a virtuosistici tour de force nei quali, data l’estrema difficoltà dell’esercizio, pochissimi eccellono.

    Interprete inarrivabile di questo sottogenere fu il giornalista, sceneggiatore e umorista, nonché rimpianto autore di testi per varietà radiofonici e televisivi, l’indimenticato signore di mezza età Marcello Marchesi (1912-1978), ideatore di battute geniali:

    (Burocrazia: bolli, sempre bolli, fortissimamente bolli; Dio, dammi un assegno della tua presenza; Se ti assenti per quindici giorni succede un casino. Se muori non succede niente; Gli estremi si toccano. Gli estremisti si picchiano);

    e che, in particolare, nei 103 flores sententiarum di Sancta Publicitas ritoccò classici motti latini con perfidia a tratti strepitosa:

    Il caso Tortora – Quiz pro quo

    Sandra Milo – Svanitas Svanitatum

    Marito colto in fallo – Non plus altra

    Certo, anche l’autore di questo libro è conscio che parte del gotha letterario valuta questo genere di scrittura come leggera (benché qui troverete anche la classica), ma assicura:

    Se un testo scorre leggero, non è stato scritto con leggerezza.

    Una definizione dell’umorismo come humour, la dà Pirandello nella sua Poetica dell’umorismo, nel saggio L’umorismo (1908), che distingue tra il comico come avvertimento del contrario e l’umorismo come sentimento del contrario.

    In controtendenza a questa schiera di sofisticati letterati che non vede con benevolenza la scrittura umoristica, si sono schierati e si schierano molti altri fior di scrittori: il semiologo, filosofo e romanziere Umberto

    Eco (1932-2016), ad esempio con il suo saggio: Gli scritti teorici e i giochi linguistici, mentre ne Il secondo diario minimo conia curiosi ircocervi (i mostri mitologici metà capra e metà cervo), vocaboli che, nati dalla fusione di due nomi famosi, sbozzano un nuovo personaggio:

    Alessandro Smanzù – I promessi sbozzi

    Eduardo De Filippide – Filumena Maratona

    Silvio Pellusconi – Le mie televisioni

    In altri casi, concepisce la variante dei finneghismi (neologismo derivato dal Finnegans Wake di James Joyce), mantenendosi a mezza strada fra il dizionario di voci e il calembour:

    Apocalesse: carro scoperto usato dall’Angelo

    Sterminatore Artrittico: pala d’altare deformata dall’umidità

    Cazzandra: profetessa che non ne indovina una

    Da segnalare in aggiunta il libro di Stefano Bartezzaghi – in collaborazione con Umberto Eco e Lorenzo Benigni e della loro cerchia di amici e letterati – Sfiga all’OK Corral, dove i titoli dei film vengono trasformati in gustose battute che ne stravolgono il senso cambiando una sola lettera. Una sfilza di calembour, appunto: giochi di parole in una sorta di parodia cinematografica da loro definita Cinegioco, e da chi vi parla: Prossimamente su questo scherno (come sua opera di genere a seguire).

    Famoso è poi rimasto l’aforisma di Eco: Mentre il comico è la percezione dell’opposto, l’umorismo ne è il sentimento.

    Riusciti giochi di parole compone talvolta anche il

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