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Le memorie di Linda Murri
Le memorie di Linda Murri
Le memorie di Linda Murri
Ebook404 pages6 hours

Le memorie di Linda Murri

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About this ebook

Nel 1902, l'Italia si tinge di rosso. È il sangue del conte Francesco Bonmartini, morto per mano della moglie Linda Murri e di suo fratello Tullio Murri. Il matrimonio tra Murri e Bonmartini aveva preso una piega fallimentare sin da poco dopo le nozze, e come conseguenza Linda aveva lasciato spazio alla sua relazione extraconiugale con Carlo Secchi. L'epilogo di questa tragica vicenda è narrato con maestria nella presente opera, che ripercorre il processo di Linda Murri.-
LanguageItaliano
PublisherSAGA Egmont
Release dateMar 14, 2022
ISBN9788728000182
Le memorie di Linda Murri

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    Le memorie di Linda Murri - Luisa Macina Gervasio

    Le memorie di Linda Murri

    Translated by

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1905, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728000182

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    I.

    Perchè?

    Perchè scrivo? Perchè mi ostino a ricordare? Perchè frugo in questa dolorosa anima mia, facendo sempre più sanguinare l’orribile piaga, mentre sarebbe così buono non sapere più, non sentire più? Dimenticare, mio Dio, dimenticare!

    Ma, come il mutilato, con animo pieno di disperazione e di orrore, torna pur sempre a rimirare la tremenda ferita, onde sgorga tutto il sangue delle sue vene, quasi vinto da un fascino di terrore, così faccio io, e torno a contemplare incessantemente la mia miseria senza fine!

    Forse anche, il fatto quasi materialè di ricordare con ordine le cose passate, e guardare a quelle presenti… (nel futuro non oso; esso mi sfugge, impalpabile, nero, terrificante!) forse, dico, questo lavoro della mia mente costringerà il mio cervello a non smarrirsi; rizzerà su la fiaccata anima mia; perchè io sento spesso le tenebre occuparmi l’anima, e ogni cosa confondersi nella mia memoria; perchè talvolta mi pare che i passati miei casi e i presenti non siano miei, ma di un’altra donna, che io forse ho conosciuto in tempi lontani; di cui ho forse sentita narrare una storia, che mi fa fremere di spavento… Io sono quella Linda? io sono? Quale? Colei che aveva una sua casa, dove risonavano le risate dei bambini: colei che piegava il capo tra le braccia paterne e ascoltava così buone parole; colei che piangeva sul seno di sua madre?… piangeva, sì, ma erano altre lagrime, altre lagrime!… Che prendeva i suoi bimbi, uno per mano, e usciva con essi fuori per la città, e la gente guardava e diceva: oh, che bei bambini! (e il maschio era vestito di bianco, e la fanciulletta di azzurro). O andavano tutti e tre alla campagna, per fioriti sentieri, guardando il cielo, e Linda diceva ai suoi figli: Vedete come è bello! È Dio che ha fatto tutto ciò! come è buono Dio!…

    (Ah, che voce è ora questa? che satanica voce che mi grida: no, no, Dio non è buono? È forse un maligno spirito, che vuol far disperare l’anima mia)…

    Dite, dite dunque; son io quella Linda? Ma allora chi è questa che è chiusa qui dentro, chiusa come una povera bestiuola spaurita; questa che non ha più i suoi bambini, che non ha più nessuno che l’ami; che non può più piangere, tanto è impietrato il suo cuore; questa che udì scendere su di lei le più sanguinose ingiurie, e si vide esposta allo scherno e al disprezzo del pubblico, chiusa in una gabbia, come una belva feroce?… Non è più suo il cielo ampio, che Dio ha creato per tutti; non è più suo il libero sole; non può più ella muovere per la campagna, tra i sentieri fioriti, e sentire nelle sue mani le mani dei suoi bambini! Perchè? perchè non può? Perchè uomini crudeli non vogliono, e le hanno rapito tutto questo; i figliuoli nati dalle sue viscere, l’aria data da Dio, il sole, il cielo… Come è possibile ciò? Ah, ecco che la mia mente si perde, e la mia ragione si urta contro il terribile assurdo!… Eppure non bisogna, non bisogna ch’io diventi pazza!

    No, no; lasciatemi ricordare. Chi leggerà quello che ho scritto? Chi vedrà mai le traccie delle mie lagrime su questi fogli? Non so; pochi certo. Eppure io scriverò per quei pochi. Che sarà di me? Mi coglierà la morte qua dentro? È ben possibile. E non è già un miracolo ch’io sia ancora viva? Come avrei potuto pensare di restare viva, se avessi saputo, prima, ciò che mi aspettava? Sono viva! Oh, che strane profonde energie sono pure in un debole corpo, così distrutto come il mio, da malattie e sofferenze anteriori!

    Sono più di tre anni che soffro ciò che nessuna mente umana potrebbe misurare senza impazzire; eppure sono viva. È questo un segno, che Dio vuole ch’io non passi sulla terra con questa infamia adosso; che egli vuole ch’io abbia il tempo di riscattarmi da questa schiavitù, e lavarmi dal nero di delitti non commessi? È presunzione, certo, pensare così; ma come potrei io spiegare diversamente a me stessa perchè non sono ancora morta?

    Ma potrei morire. Potrei soccombere a questo insopportabile peso, se Dio togliesse la sua mano da me; e allora la memoria di Linda Murri resterebbe per tanti come simbolo di atrocità, di perversità, di delitto! E io non posso reggere a questo pensiero! Esso mi è più insopportabile ancora che i miei presenti dolori… Quando io non sarò più, il mio nome sarà pronunciato con ribrezzo, come quello di una fredda e feroce assassina? No, no, non posso, non posso sopportarlo! E tu lo sai, o Signore, non è solo perchè io tremi d’un postumo vano orgoglio per il mio nome e la mia memoria, che non voglio permettere siano infamati per sempre; e anche (tu lo sai, che mi leggi nel cuore), perchè questo mio nome e questa mia memoria appartengono ai miei poveri figli. È su di essi che ricade l’onta materna… Puoi tu permettere che essi soffrano con me l’infamia di un delitto non commesso? Non mi darai tu la forza di difenderli dal vituperio, che l’iniquità ha versato su di me, nel nome della giustizia?

    Oh, Dio degli oppressi! dammi tu la forza, dà alla mia penna l’efficacia necessaria a persuadere anche i cuori più ostinati contro di me!

    Quando io ero là, in quella orribile gabbia, altri parlarono in mia difesa… Dissero belle e buone parole; eppure non spetrarono il cuore dei miei giudici… Potranno ora le mie disadorne parole più degli elaborati discorsi dei miei avvocati? Tu puoi fare per me questo miracolo, mio Dio! Tu che metti talora sulle labbra degli umili tanta forza di eloquenza; tu che esalti gli avviliti, gli oppressi, che ti chiamano dal profondo dell’abisso!

    II.

    La famiglia murri

    Poichè l’ingiuria e l’infamia, onde siamo stati coperti, il mio povero fratello ed io, è risalita a tutta la mia sventurata famiglia, persino al mio nonno paterno, anche di lui voglio dire una parola, di lui, la cui buona e cara imagine mi rivive oggi nel cuore, con tenera e dolorosa insistenza. Cara e buona imagine! Venerati capelli bianchi, che furono come luce nella mia fanciullezza! E si è tentato d’insozzare pur quei capelli bianchi.

    Personalmente di lui so poche cose; ma parenti e amici, e quanti lo conobbero li udii sempre parlare di lui con massimo rispetto, con riverenza profonda. Era uomo onoratissimo, di eletto ingegno; e ardentemente amava la sua patria, alla quale aveva sacrificato con gioia ricchezza e libertà.

    Io non era che una bambina, e lo amavo solo perchè era il mio caro nonno, perchè era buono con noi, perchè ci incuteva naturalmente un senso di affettuoso rispetto… nulla sapevo allora della sua vita politica, dei fatti che udii più tardi narrare, glorificandolo. Oggi che so, mi sento l’anima piena di amarezza e d’indignazione, ripensando al fango che si volle pur gettare su lui… E perchè mai, mio Dio? Non eravamo noi vittime bastanti a saziare ogni ferocia?

    Noi nipoti lo amavamo molto, il nonno. Che festa unica, suprema era per noi andare dai nonni a Fermo! Qualche volta essi venivano a trovarci a Bologna; e quelle apparizioni dei due cari vecchi nella nostra casa sono ancora come solchi caldi e luminosi nella mia fredda fanciullezza. Eravamo noi, il mio povero Nino e io, che pagavamo, coi denari nostri, il gelato e il tram ai nonni… Erano denari datici dal papà nostro, come premio di una lezione saputa, della nostra buona condotta… e noi non sapevamo spenderli meglio, che nel fare un piacere ai nonni! E come era amaro il distacco! Quanto piangevamo noi due il giorno della partenza! Oh, memorie puerili; quanto mi è amaro rievocarvi! Sono io, proprio io, quella bimba d’allora?

    Quando fummo più grandi, Nino preferì il nonno, che incarnava per lui la bontà e la forza; io ebbi sempre più cara la nonna, poveretta, che mi piaceva tanto per la sua solerzia di buona massaia, per la sua dolce pazienza, che la faceva essere così premurosa per tutta la sua numerosissima famiglia, la quale volentieri si riuniva intorno a lei. Ricordo ancora il suo viso di buona, il suo sorriso…

    Era tanto indulgente con noi! Secondo lei, papà era troppo severo; e tante volte piangeva, vedendoci sgridati o puniti! Il carattere nervoso di mamma, che spesso la faceva essere con me aspra e impaziente, angustiava la povera vecchia. Ho presenti tante sue parole, tante carezze, tante affettuose premure,… e benchè anche il nonno mi volesse molto bene, con lei stavo più volentieri, a lei ripenso ancora con tenerezza.

    Chi sa? Forse il portare lo stesso suo nome, (nome di sventura, Teodolinda!), forse il sapere che era stata sempre poco felice, e lo stesso immenso amore di mio padre per lei, me la rendevano infinitamente cara.

    Il nonno aveva un carattere eroico, bizzarro, impetuoso, generoso, amante del piacere… Nino lo prediligeva forse per una certa somiglianza delle anime; così divenne anche lui, povero Nino, e fu la nostra sventura!

    Il nonno era tanto buono, e aveva un così nobile cuore! Eppure non aveva saputo rendere felice sua moglie, così virtuosa e amorosa!

    Perchè mai? Non è doloroso il vedere che la bontà non basta? che le virtù eroiche sono meno utili, nella pratica della vita, delle virtù modeste? che spesso un semplice cuore e una mediocre intelligenza bastano alla propria e all’altrui felicità, mentre tutto ciò che è impetuoso, violento, disordinato, è funesto?

    La nonna fu, negli ultimi suoi anni, oggetto di pietà e di dolore per noi tutti. Colpita da paralisi, avendo perduta la memoria e la lucidità della mente, ella era condannata immobile nella sua poltrona… Solo quando rivedeva alcuno di noi, i tanto amati! ella ricuperava un lampo della coscienza antica, e sorrideva, e piangeva insieme… Rivedo ancora le lagrime che scorrevano sul suo smunto viso; mi rivedo là in piedi, presso la sua poltrona, a imboccarla col cucchiaino, come si fa ai bambini… E lei, che non mangiava quasi nulla più, allora si sforzava d’inghiottire, per farmi piacere…

    Povera nonna! Da noi si susurrava, con fare afflitto e misterioso, che erano stati i dolori provati nella sua vita coniugale, quelli che le avevano affrettato quel miserevole stato; e il cuore di noi, fanciulli, si gonfiava di rammarico, e anche di indignazione verso il nonno, che non era stato sempre paziente e amoroso con la vecchia compagna dei suoi giorni… E lui, poveretto, soffriva forse più di noi; con quell’impetuoso pentimento che è proprio delle anime generose. Tutti i figliuoli della mia nonna la amavano molto; ma mio padre più di tutti, con tenerezza, con passione! E lei, se non lo prediligeva agli altri (è troppo difficile far misura d’affetto in così tenera madre), certo era di lui orgogliosa e felice.

    Mio padre (oh, con quanta dolorosa tenerezza, con che struggimento d’amore scrivo sempre questa parola: mio padre…), aveva ereditato da sua madre le più belle doti della mente e del cuore; e quella malinconia che è, a me sembra, così facile compagna dei caratteri riflessivi. (O era in lui il presentimento dell’onda di dolore che si avanzava, fatalmente, e che lo avrebbe presto inghiottito e sommerso?).

    No, mio padre non fu lieto mai, benchè fosse spesso sereno. Sempre i suoi grandi occhi pensosi hanno riflesso la malinconia della vita; come se il dolore universale, che irradia dalle anime e dalle cose, avesse ritrovato uno specchio fedele in quel suo immenso cuore…

    Ed egli non sapeva allora; non sapeva!

    Mio padre fu serio e triste pur nella fanciullezza. Il nonno era stato esiliato undici anni per ragioni politiche; i suoi beni erano stati confiscati; egli si era rifugiato a Corfù, dove non riusciva nemmeno a guadagnarsi da vivere. La mia santa nonna dovette allora, colla magra rendita di un terreno lasciato da uno zio canonico, mantenere i suoi cinque piccoli figli, e mandare qualche soccorso anche al marito lontano… Quante volte ascoltai mio padre raccontarmi tristi episodi di stento, di miseria, che avevano immalinconito la sua fanciullezza! Padre mio! e forse tu, ora, ripensi con desiderio a quei tempi, tanto meno tristi dei presenti!

    Quando si trattò dell’educazione dei due figliuoli maggiori, cioè dello zio Guglielmo e di mio padre, la nonna si trasferì con i suoi figliuoli a Firenze, perchè potessero frequentare colà le scuole. A Fermo, allora, non esistevano scuole secondarie. Chi sa quali miracoli di sacrificio e di economia avrà dovuto compiere allora la povera nonna! Papà mi raccontava che ella era così strutta dagli stenti, così indebolita dal soffrire, che fu presa da una forma di convulsioni epilettoidi, per cui cadeva in deliqui profondi, e restava come morta. Era uno strazio per lui, e per gli altri. Le era anche sopravvenuta una anemia così forte, che un medico le prescrisse i bagni di mare; ed ella ci andò, per non morire, e lasciare soli i suoi figli! ci andò con zia Giulia, che era la maggiore, e a Firenze restarono i quattro maschi: zio Guglielmo, che aveva forse diciott’anni allora; papà, di sedici anni; zio Riccardo di tredici! zio Alfredo, bambino addirittura… Restarono soli e con pochi denari; così pochi che spesso non sapevano come mangiare…

    Mi raccontava papà che un giorno erano sprovvisti affatto… Non un soldo in casa! nemmeno più un pezzo di pane. Il capo di casa era lui, benchè non fosse il maggiore; zio Guglielmo aveva poco giudizio; era uno scapato, allora, del quale non ci si poteva fidare… Come fare?

    La mamma lontana doveva mandare un poco di denaro, è vero; ma intanto? patire la fame? Gli doleva specialmente per i fratelli più piccoli, povero papà! E allora pensò di andare a vendere un cucchiaino d’argento, ultima ricchezza della casa! col ricavo della vendita almeno per quel giorno avrebbero mangiato… E papà uscì col prezioso cucchiaino in tasca, accompagnato da zio Riccardo, per farsi coraggio… e arrivò fin sulla porta della bottega di un orefice. Quando fu là, si sentì mancare il cuore; gli pareva di svenire per vergogna ed angoscia… e zio Riccardo, che era un fanciullo, andò lui a vendere il cucchiaino, perchè papà non avrebbe potuto entrare…

    Quante, quante volte ho ripensato a quei tristi episodi della sua gioventù, povero mio papà! Felice non fu mai, nemmeno lui! era un destino. Di lui penso che si potrebbe dire, quello che di sè dice il poeta inglese Gray:

    La Malinconia lo segnò come suo!

    Papà, a sedici anni, era alto di statura, quasi come ora. (Sono i dolori che cominciano a curvare la sua cara, imponente persona; non gli anni). E doveva andare al ginnasio, insieme a bambini che erano la metà di lui; perchè egli non aveva mai potuto seguire regolarmente gli studi, per le sventure toccate alla sua famiglia; egli era umiliato di avere dei compagni così piccini; e il desiderio di aiutare presto la sua povera mamma metteva ali alla sua volontà. Così riuscì a fare in due anni il ginnasio, e in un solo anno il liceo! Miracolo di perseveranza e di ingegno; caro buon papà mio.

    Il nonno tornò poco dopo dall’esilio; e a Genova si incontrò con la moglie e con i suoi cinque figliuoli… Nè egli li riconobbe; nè essi riconobbero il padre! Tanto tempo era passato!… E dopo… nacque alla nonna ancora un figliuolo, lo zio Alceste…

    Papà (mi indugio a parlare di lui! perdonatemi! Se sapeste quale consolazione è nella mia sciagura di avere un padre come lui!), papà avrebbe voluto darsi alla letteratura; egli sentiva fortemente l’arte, e tutto ciò che è bello. Ma lo studio della medicina dava più pronto guadagno; fu perciò che scelse questa carriera, dove riuscì eccellente. Ma il suo mirabile ingegno sarebbe riuscito, credo, eccellente in ogni cosa.

    — Oh papà, come sei intelligente! ma tu sai tutto! — esclamavamo noi talvolta, noi bambini, pieni di ammirazione. Egli rideva.

    — Credete?— diceva. — Eppure, prima ch’io andassi al ginnasio mi credevano stupido. Sì, tutti; anche la mia mamma. Ero timido, impacciato e silenzioso… Io stesso non avevo grande opinione di me! Ricordo che, un giorno, ero un piccolo e povero ragazzo, comprai per pochi soldi l’Orlando furioso, lo lessi tutto d’un fiato, in un giorno e una notte! Ne fui così ammirato, così colpito, che mi parve la mia anima si destasse per la prima volta! Mi credetti destinato a diventare un letterato, allora!

    Ridevamo anche noi, di commozione.

    — Già. E la prima volta che a Firenze sentii l’Otello, di Shakespeare, ne provai tale impressione, che per tre notti non potei assolutamente prendere sonno, e andavo girando per le vie come un insensato!

    Quanta sensibilità, quanta vivezza di sentimento artistico è nel mio caro papà! Oh, nobile anima, calda di entusiasmi, e di slanci! Eppure studiò con amore e serietà la medicina, e i suoi professori lo amarono molto. Quando fu laureato, vinse una borsa di studi, per andare a perfezionarsi all’estero, e fu a Parigi, a Berlino, a Vienna… L’assegno non era lauto, ma egli era così sobrio e pensoso dei suoi, che riuscì a portare ancora un avanzo della somma avuta alla cara sua mamma, che intanto, con la famiglia ricomposta, era di nuovo domiciliata a Fermo.

    Quando fu di ritorno dall’estero, papà andò per un mese a Cupramarittima, per un interinato; e fu là che egli conobbe colei che doveva poi essere la moglie sua, la sventurata madre di questi due infelici, che ella parve mettere al mondo solo per dimostrare fino a che punto il destino può accanirsi… Madre mia! oh, quale triste dono facevi a mio fratello e a me il giorno in cui, non nati ancora, pur già ci pensavi nell’amore tuo; il giorno in cui sognavi i bimbi futuri!…

    Mia madre era figlia di un mercante di grano, assai ricco una volta, poi quasi caduto in miseria. Dei nonni, e dei due fratelli di mamma nulla ricordo; so che ella era affezionatissima alla propria madre; del padre suo e dei fratelli diceva che erano buoni sì, ma molto impetuosi e collerici. È come se un soffio di violenza, di vitalità esagerata, fosse corso e sceso per i rami delle nostre due famiglie. Buoni tutti, ma irriflessivi i più, impulsivi, fatti piuttosto per ascoltare la passione che la ragione! In questa fatale tendenza io vedo oggi la sorgente d’ogni sventura nostra!

    Anche la mamma mia era una Murri. Parenti di papà? Forse; abitavano, le due famiglie, in paesi vicini, e si conoscevano e si stimavano; quando… Ecco come il Destino avvicinò gli infelici genitori miei.

    Durante il tempo che papà fu a Cupramarittima, egli fu chiamato al letto della madre di mia madre, che da tempo soffriva di mal di cuore, ed era stata presa da un grave accesso. Papà aveva allora già fama di valente, e curò con tanta abilità la povera donna, che per parecchi anni parve guarita…

    Mia madre aveva allora ventidue anni. Una piccola, magra, pallida creatura… così era allora, come poi sempre noi figliuoli la vedemmo. Non era bella, non era ricca… pure mio padre la amò. Che cosa fu che lo vinse? La bontà, l’affezione illimitata per la madre? La forza d’amore che già in lei intuiva, e che lo attirava potentemente verso quella pallida giovinetta, dagli occhi timidi e dalla voce dolcissima?

    Certo mia madre s’innamorò perdutamente del bello, giovane, buono e sapiente dottore, del salvatore della madre sua! E quell’amore, quella passione ardentissima durò, dura oggi ancora; devota, umile, profonda, come e più del primo giorno! Io penso talvolta che se mia madre non avesse amato suo marito come lo ama, non avrebbe avuto la forza di vivere, quando i suoi due figliuoli le furono strappati in così tragico modo! Ella pianse e si disperò, ma avviticchiata a quel gran cuore; ma consolata dalla forza di quella intrepida virtù, che le fu egida e sostegno contro tutti i dolori, come il piccolo arbusto rannicchiato all’ombra della grande quercia, non riceve tutti gli urti della tempesta, e vive ancora, nel vento e nel gelo!

    Eppure, ella non riuscì a farlo sempre felice, povera mamma, nonostante il suo grande amore! Povera mamma! ella era un umile cuore e un’umile intelligenza… Ella sentiva quella del marito; non sempre le era dato capirlo… Ed anche, ahimè! una crudele e lunga malattia inasprì il suo carattere; la rese nervosa, insofferente, impaziente, inquieta… e lui Avrebbe pur avuto tanto bisogno di calma, di pace, di serenita… Di nessuno dei due fu la colpa se non furono sempre felici insieme; erano tutti e due buoni, e si amavano… Una troppo profonda comunione d’anime è necessaria nei due che si legano per sempre! Ed, oh! quanto raramente ha luogo!

    Tanto, tanto lo amava, lo ama, povera madre mia, che mi commuovo sempre al pensarlo. Ella, anche quando Nino e io eravamo grandi, ci diceva ingenuamente che voleva più bene a papà che a noi… Allora io provavo una punta di gelosia… Oggi comprendo che aveva ragione… Del resto, se anche ella gli era inferiore d’animo (e certo sarebbe stato difficile a lui trovare una donna perfettamente degna di quell’alta sua intelligenza, di quella austera moralità e semplicità di costumi), ella avrebbe potuto farlo felice, perchè papà si contentava così facilmente, ed era tanto indulgente e generoso! Solo che fosse stata un po’ più tranquilla, un po’ più serena, povera mamma! Ma questo non dipendeva da lei! Si fidanzarono, e si aspettarono due anni.

    Papà aveva una condotta di montagna, e guadagnava pochissimo. Con quel poco aiutava pure la famiglia sua… Mamma non aveva nulla. Non avevano dunque abbastanza da mettere su casa insieme; erano come due rondini cui mancano le pagliuzze del nido. Eppure io penso che quel tempo di speranza e di aspettazione fu il più felice per essi!… Non sapevano ciò che aveva a venir poi…

    Quando papà ebbe un posto a Civitavecchia, allora finalmente si sposarono; ma egli non dimenticò mai la propria mamma, e sempre seguitò a soccorrerla, come fino allora aveva fatto.

    Il primo frutto di questa unione fu un bimbo, a cui posero nome Tullio… Fu il più fortunato di noi, perchè morì a soli quattro anni, e non ebbe tempo a gustare l’amarezza della vita… Ma, appena tre mesi dopo che questo bambino era nato, mamma si accorse di essere nuovamente incinta… Ed era questa sventurata che ella portava nel suo grembo; questa condannata a ogni tortura…. Oh se le madri sapessero il destino di coloro cui dànno la vita, come implorerebbero per essi il dono della morte, talvolta, invece di rallegrarsi di quella nuova speranza!

    Ma mia madre non si rallegrò di me.

    Aveva già un altro figlio piccolo e malaticcio, bisognoso di ogni sua cura. Me, non mi desiderava, non mi voleva così presto. Ero un peso per la famigliuola ancora povera; ero un fastidio per la madre, occupata dell’altro figliuolo… Così io fui portata a malincuore nel grembo di mia madre, come se ella avesse presentito che con me portava la Sventura! Fu forse il primo germe di malinconia che entrava nella informe mia anima, e che non mi lascierà più finchè avrò vita…

    Saranno esagerazioni e sciocchezze… Pure, nel seguito dei tristi anni miei, quando nell’animo sentivo tutta l’amarezza di essere destinata a sbalzare da un dolore ad un altro, più grave, pensavo che già la prima, primissima, indistinta vita mia mi era stata avvelenata nel seno materno. Sono nata per dispetto, cresciuta per dispetto; ho seminato involontariamente il dolore, e ho avuto il dolore come cibo… Ecco qual fu, qual è la mia vita!

    Mia madre, poveretta, nella sua semplicità, mi raccontava più volte questi suoi sentimenti, prima della mia nascita e dopo, e non capiva di darmi dispiacere.

    — Tullio era così piccolo, e mal tenuto dalla balia, che lo trascurava… Ci costava denaro e cure, e ci dava da pensare… Le condizioni nostre erano poco floride, papà non guadagnava abbastanza… E sei venuta tu… senza tua colpa, si capisce; ma proprio sei capitata in un momento importuno.

    Sorrideva dicendolo, e non comprendeva che era pur uno scherzo crudele per me, bimba sensibile, impressionabile, che soffrivo così facilmente di tutto ciò che mi pareva mancanza d’amore… E più tardi (io ero già una malinconica giovinetta, con gli occhi facili al pianto, la fronte segnata dall’affanno), mia madre, che non comprendeva la causa del mio soffrire, mi diceva ancora, scotendo il capo:

    — Già, tu sembri impastata di dolore! Si direbbe che i cinque mesi che ti ho portato in seno, senza potermi rassegnare alla tua venuta, ti abbiano dato un fardello di dolore per tutta la vita!

    Ah, povera mamma! io non so se ella aveva ragione; non so se le condizioni d’animo della madre abbiano influenza sul nascituro, ma so bene che la facoltà di soffrire fu data a me con sproporzione su tutti gli altri sentimenti e percezioni…

    Impastata di dolore!… Oh, madre! tu non sapevi allora di dire così vero!

    III.

    Fratello e sorella

    Io nacqui il. 12 settembre del 1871, in buone condizioni di salute, e senza aver dato troppi dolori a mia madre… Di questo almeno ella mi fu grata, ed io feci il mio ingresso nel mondo accolta con abbastanza benevolenza… Mio padre volle mettermi il nome a lui tanto caro della nonna; fu come un pegno dell’amore che egli mi dedicò da quel momento, caro, adorato papà!

    Il mio fratellino Tullio fu tolto da balia e ripreso in casa; io venni affidata a una contadina più vicina a Fermo, perchè potessi essere più facilmente sorvegliata dai parenti nostri. Mio nonno, infatti, mi raccontò che egli andava ogni giorno a vedermi; era divenuta anzi per lui una passeggiata quotidiana, una cara consuetudine… Ma la balia, che sapeva l’ora della sua venuta, mi faceva trovare pulita nella mia culla… Il brav’uomo, che non s’intendeva di bimbi piccoli, era persuaso ch’io fossi tenuta bene, e ne riferiva tutto sodisfatto ai miei genitori…

    Quando, quasi improvvisamente, cominciai a deperire, a divenire magra e brutta; cosicchè il nonno, spaventato, scrisse a mio padre! e fui riportata a casa, e slattata, di dieci mesi appena… Ma ero già affetta da un catarro intestinale, che mi tenne per tre anni ammalatissima, e che poi sempre mi fece più o meno soffrire.

    Non era che il primo anello di un ininterrotta catena di dolori fisici, che mi resero ancora più acerbi i dolori morali, ai quali la mia anima parve aprirsi come un fiore funesto… Uno dei più acuti e dolorosi ricordi della mia infanzia fu la morte del mio fratellino Tullio. La mamma era nel settimo mese della gravidanza di Nino, e io avevo tre anni quando il piccino morì. Era, mi dissero, il più bello, il più caro bambino che si possa imaginare. Biondo, bianco, ricciuto, con grandi occhi neri; un angioletto! E intelligentissimo anche, ma, strana cosa! pur così piccolo era triste e pensieroso. Mi dissero che noi due giocavamo insieme e ci amavamo tanto… Eppure io non lo ricordo affatto quel caro mio piccolo amico, che forse sarà stata l’unica gioia dei miei tre primi anni di vita. Ricordo solo la sua morte…

    Egli pareva stare benissimo, quando una sera a Fermo, tornando dalla passeggiata, si lagnò di essere stanco e di non poter camminare. Papà e mamma, che erano pur con lui severissimi, non gli badarono, credendo a un capriccio infantile; e il povero piccino tornò a casa piangendo, Il domani mattina fu preso da febbre, poi da convulsioni terribili… Papà parve impazzire di dolore, perchè subito vide il male disperato… E per due giorni ogni cura fu vana, e durò la straziante agonia; finalmente quell’angioletto ebbe la fortuna di lasciare questa amarissima terra…

    Chi potrà ridire la disperazione dei genitori? Papà era come pazzo, e la mamma soffrì tanto che il parto di Nino le fu poi infinitamente penoso, e gliene rimase una malattia, che fu la tribolazione di tutta la sua vita, e della nostra… Ma se avessero potuto leggere nel futuro, come avrebbero benedetto e ringraziato Iddio i genitori, che vedevano sottratto uno almeno dei loro tre figliuoli alla sventura!

    Invece, papà specialmente, non si consolò mai della perdita di quel suo bambino. Ricordo che, assai più tardi, io avevo già forse diciott’anni, un pomeriggio che papà si era coricato, per riposare dopo colazione, mentre io gli andavo chiudendo le finestre, mi chiamò e mi disse improvvisamente:

    — Mamma deve avere un ritratto grande del povero Tullio. Dille che lo voglio vedere!

    E parlando piangeva, poveretto! Quante volte più tardi, quando egli ha dovuto piangere così amare lagrime su di noi, ho ripensato a quel pianto per il suo morto figliuolo! Solo allora, io penso, si sarà consolato di averlo perduto; solo quando ebbe a piangere i suoi due figli vivi, ben più infelici di quello che dormiva cheto nella piccola tomba!

    Non è vero, papà, non è vero? Veder sparire coloro che amiamo, rapiti dalla morte, è certo grandissimo dolore. Ma per coloro che credono, questo dolore è mitigato dal pensiero di una migliore esistenza al di là, e, per chi non crede, dal pensiero della cessazione assoluta di questa esistenza e quindi del dolore… Ma piangere i vivi! Vederli dibattersi nel dolore, quelli per cui daremmo con gioia la vita! e non poter nulla, nulla per essi. Vedere inghiottiti in un abisso profondo, spaventoso, i due figliuoli, tutti due, e restare soli, e tendere invano le mani a salvarli, a proteggerli….. Ah, come è possibile imaginare un cosi atroce affanno!

    L’8 dicembre del 1874 nacque il mio sventurato fratello, al quale fu imposto il nome di Tullio, quasi a colmare il vuoto lasciato dal piccolo morto. Ma quel nome era troppo doloroso a pronunciarsi dai genitori desolati, e allora lo cambiarono in Nino, dolce, caro vezzeggiativo, che mi suonò per tanti anni come conforto e speranza… Ora pur esso, quel dolce nome, mi è simbolo di disperazione e di lutto…

    Dalla nascita di Nino comincia nella mia mente una folla di vaghi, incerti ricordi… Saranno inutili per tutti; ma per me hanno un sapore di così amara dolcezza, che qualcuno almeno voglio notarlo; così!… solo per rituffarmi un momento in quel tempo così lontano, irrevocabilmente passato; quel tempo nel quale, se non fui felice (non lo sono mai stata!), godevo almeno anch’io, come godono tutti, anche i più miseri bimbi, dell’alito divino dell’infanzia… Oggi che so, penso che i genitori dovrebbero fare che sempre l’infanzia dei loro figliuoli sia felice… È così breve e leggiadra, e così fragile! Quella parte della vita, almeno, dovrebbe essere inaccessibile al dolore… Ma i genitori hanno la preoccupazione del dovere che incombe loro di educare i figliuoli, di formarli alla vita; ed ecco, ahimè! dove spesso comincia l’affanno, il dolore, per quei poveri piccoli esseri, ai quali la natura ha dato l’innocenza e l’ignoranza, solo perchè siano felici!

    L’educazione dei fanciulli! Grave parola, certo, e di alto significato. Ma perchè educare deve essere per tanti sinonimo di correggere sgridando, di punire, di comprimere, di far soffrire? Perchè taluni credono che il fanciullo sia cattivo di natura, e che sia necessario tormentarlo per indurlo al bene? La severità, la durezza, l’inflessibilità sono mezzi di educazione più sicuri della dolcezza, della persuasione dell’amore?

    Non so. So che io fui educata severamente, e ne ho sofferto tanto, ne ho sofferto sempre! Sarei diventata migliore, se mi avessero trattata con indulgenza? Ripeto, non lo so. Ma io, verso i miei figliuoli, nel breve tempo che ebbi la suprema gioia di averli vicino, usai solo i modi e le parole che l’immenso mio affetto mi suggeriva… Ebbi per loro assai più carezze che sgridate, assai più baci che sguardi severi… E oggi, oggi che mi struggo invano di stringere al mio petto quei piccoli petti adorati, penso, e m’è unica gioia!, che almeno io non li tormentai, non li resi infelici col pretesto di educarli… E sono buoni, il mio Ninetto, la mia Maria, sono pur tanto buoni! Mia madre (non suonino biasimo per essa, povera donna, queste mie parole), mia madre era educatrice severa, e credeva di far bene. Sì, davvero ella non ebbe altro scopo che la nostra, la mia felicità; e pensò d’arrivarci misurandomi

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