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Vite lavorate: Corpi, valore, resistenze al disamore
Vite lavorate: Corpi, valore, resistenze al disamore
Vite lavorate: Corpi, valore, resistenze al disamore
Ebook338 pages3 hours

Vite lavorate: Corpi, valore, resistenze al disamore

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About this ebook

Questo libro sviluppa una riflessione che ha preso le mosse nell’era precaria della femminilizzazione del lavoro. Dopo una pandemia che ha reso evidente l’incompatibilità tra il capitalismo e il vivente, è necessario un aggiornamento sulla situazione del lavoro contemporaneo delle donne. Da lavoro precario, lavoro “ombra” a lavoro involontario. Da riproduzione gratuita a produzione sociale gratuita. Da un’economia libidinale a un’economia dell’interiorità, attraverso forme di dipendenza e di rapina dell’attenzione. Mentre aumentano i profitti e la povertà cresce, che fine fanno le vite, le relazioni, l’amore? Possono i nostri corpi indicarci come resistere alla smaterializzazione imposta dalla digitalizzazione, dalla paura, dal narcisismo imperante?
LanguageItaliano
Release dateFeb 20, 2022
ISBN9791280124746
Vite lavorate: Corpi, valore, resistenze al disamore
Author

Cristina Morini

Cristina Morini, ricercatrice indipendente, giornalista, femminista. È autrice di molti saggi e lavori sulla femminilizzazione del lavoro, la condizione precaria, il rapporto tra soggettività e capitalismo contemporaneo Questo testo prosegue il discorso iniziato con Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, ombre corte, Verona 2010.

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    Vite lavorate - Cristina Morini

    parola di donna

    A Gianna, Sole, Valentina e Vittoria

    Cristina Morini

    Vite lavorate

    Corpi, valore, resistenze al disamore

    manifestolibri | parola di donna

    © 2022 manifestolibri La talpa srl

    Via della Torricella 46

    00030 – Castel S. Pietro RM

    ISBN 979-12-8012-474-6

    www.manifestolibri.it

    info: book@manifestolibri.it

    A

    www.manifestolibri.it

    https://www.facebook.com/manifestolibri.it

    https://www.instagram.com/manifestolibri/

    @manifestolibri

    https://www.youtube.com/user/ManifestoLibri

    Indice

    Introduzione

    Capitolo 1

    Il lavoro e le donne. Due fasi a trent’anni di distanza

    Sulle tracce dei problemi del presente

    1.1. Lo sguardo delle donne sul lavoro tra gli anni Settanta e gli anni Duemila: un tentativo di sintesi retrospettiva

    1.2. Definire l’indefinibile

    1.3. La situazione attuale delle donne italiane sul mercato del lavoro. Brevi quadri e problemi aperti

    Capitolo 2

    La produzione sociale contemporanea nella prima crisi

    riproduttiva della storia

    Il lavoro involontario dei corpi-mente

    2.1. Che cosa è la ri-produzione sociale?

    2.2. La ristrutturazione capitalista del 2020

    Capitolo 3

    Soggettività e capitale antropomorfo

    Economia libidinale, economia dell’interiorità, lavoro emozionale

    3.1. Precarietà sostantivo femminile

    3.2. Imprenditor@ di sé stess@

    3.3. Alienazione e capitalismo antropomorfo

    Capitolo 4

    Prendiamo corpo

    L’amore contro la repressione

    4.1. Sapere del corpo ed emarginazione dell’Altro

    4.2. Che fine ha fatto il piacere?

    4.3. L’ineludibile materialità dei corpi

    4.4. Esercizi di resistenza al disamore

    Capitolo 5

    Strategie di resistenza al disamore

    Un welfare erotico nella governance della distanza

    5.1. Estromissione per via di introiezione della femminilizzazione

    5.2. L’algoritmo e l’essere umano in-differente

    5.3. Lavoro di piattaforma o del tentativo di rivincita del maschile contro il ruolo illuminato dei subalterni

    5.4. Amiamoci meglio

    5.5. Distanza, mancanza, nemico

    5.6. Amore, cura, conflitto

    Post Scriptum

    Bibliografia

    Introduzione

    Amore della mia vita, sei

    perduto e io sono

    di nuovo giovane

    Louise Glück

    Il destino imprevisto del mondo

    sta nel ricominciare il cammino

    per percorrerlo

    con la donna come soggetto

    Carla Lonzi

    La vita viene prima, come bene le donne sanno. Questo libro presenta le riflessioni sul lavoro e soprattutto sul lavoro delle donne che ho condotto in questi anni, mentre la mia vita faceva il suo corso. Il tempo si dilegua veloce tra tanti rivoli di esistenze femminili ricolme di compiti da svolgere e del desiderio e del piacere di farlo, insieme alla stanchezza infinita che ciò implica.

    Viceversa, i processi sociali, economici, culturali sono lentissimi. Studiare la storia e ricordare il concetto di durata potrebbe facilitarne la comprensione. Nulla, inoltre, si ripropone mai sotto le stesse forme. Perciò, fare paragoni con percorsi che hanno connotato altri momenti di lotta sul lavoro o nei movimenti delle donne, risulta necessariamente improprio. Tanto più alla luce di questi anni pandemici che stanno sovvertendo seriamente ogni categoria del pensiero e certezza esistenziale, in un veloce precipitato che porta a compimento trent’anni di ristrutturazione capitalista contro il lavoro e contro una vita, divenuta progressivamente lavoro. Tuttavia, la distruzione può fare spazio, una volta superata la paura che implica. Essere all’altezza di un universo senza risposte¹, è ancora, più che mai, obiettivo comune.

    Tutto va costruito, si sta costruendo, in un orizzonte impreciso il cui tratto peculiare e interessante sta nella possibilità di un’invenzione. Il vuoto di questa fase potrebbe favorire un processo di disidentificazione risolutivo, utile a strapparci le maschere che ci siamo abituati a portare proprio mentre ne indossiamo una per proteggerci da un virus? Non siamo, fino a questo momento, riuscite e riusciti a oltrepassare la soglia e a rappresentare un modo davvero diverso di essere alternativo al regime di biopolitica nel quale siamo immerse e immersi: l’arrivo del virus e i suoi corallari evocano esplicitamente l’invivibilità del mondo capitalistico attuale. Non siamo ancora riuscite e riusciti (nonostante gli sforzi) a incarnare, concretamente, uno stile di vita politico ed etico sinceramente innovativo, capace di essere attraente perché capace di rendere operativa una pratica di libertà o, detto in altri termini, una pratica di completo rinnovamento sociale e un modo diverso, meno alienante e alienato, per l’essere umano e per la natura di cui è parte, oltre l’ordine costituito e le classificazioni del potere vigente. Oggi la politica risulta scadente e decadente, l’etica svalutata. Il rischio che si intravede è quello di una rinuncia pratica all’universalismo egualitario e di uno svuotamento totale dei saperi cosicché non esistano più argini a configurazioni di dispotismo populista, spinto dalle onde emotive dei social network – tra esaltazioni e paure; tra culto dell’uomo forte e ripiegamenti egoistici. Tali configurazioni finiscono per lasciare campo libero al controllo economico e politico del capitalismo di piattaforma e della grande finanza che sempre più si incuneano l’uno nell’altro. Tesla ed Elon Mask, ma anche Amazon e Jeff Besoz, si apprestano a dominare il futuro spaziale dell’America pagando di tasca propria progetti che, fino a pochissimi tempo fa, necessitavano del finanziamento decisivo dello Stato. D’altro lato, il potere politico non sembra svolgere solo le funzioni di servizio del grande capitale ma ne è diretta espressione: con sempre maggior frequenza, a capo dei governi si pongono figure che sono esse stesse capitale o estrinsecazione dei poteri forti della finanza, a prescindere dal vaglio elettorale. La politica della finanza sembra puntare a rendersi sempre più indipendente dal consenso, dalla volontà e, perfino, da azioni di forza manifeste, almeno a guardarlo dal mondo occidentale dove il conflitto è stato occultato. Viviamo il pericolo di una quotidiana contiguità con un potere che, apparentemente, come già perfettamente individuato da Deleuze e Guattari, non si mostra sovrastante e lontano. Si pensi alla mole di lavoro gratuito e involontario che svolgiamo per lui, eppure alla insufficiente consapevolezza che abbiamo di tali meccanismi da cui dipendiamo per sopravvivere nell’universo precario, affrontando maggiori rischi di connessione che di repressione. È questo il problema principale con il quale ci misuriamo nel presente: il nemico rischia di essere introiettato oppure viene incarnato in ciò che ostacola la relazione con esso, si frappone, concorre. La macchina del potere finisce per suscitare tutta la nostra attenzione e dunque generare attrazione mentre noi ne proviamo meno per il genere umano, vegetale e animale.

    Se il quadro, a grandi linee è questo, tanto più la ricerca delle modalità per rompere le macchine da guerra incombenti deve andare, ostinatamente, in senso inverso, vale a dire nel senso di individuare nuovi motori collettivi della critica e del sovvertimento dell’ordine del discorso imposto, riconoscendo e ripristinando i nessi tra politica e vita. Le donne e i subalterni hanno un ruolo determinante in questo passaggio mentre «l’uomo si avvia lentamente a considerare in crisi il suo ruolo da protagonista»².

    In linea con queste ispirazioni, il tema di questo libro, il lavoro delle donne nel presente in Italia e in Occidente, invita a una nuova discussione e a una completa ridefinizione di ciò che si intende per una politica radicale. Si tratta, innanzitutto, di riportare al centro la questione del rapporto, complesso e irrisolto, che esiste tra donne, sfera pubblica e mondo della produzione i quali, storicamente, si identificano con figure, ideologie, ordini, assetti e gerarchie maschili. Ma si tratta anche di confrontarci con una teoria del soggetto dove l’irriducibile scarto possa rendersi finalmente evidente. Se il soggetto, come sostiene Alain Badiou, si genera nella relazione indiretta e creatrice tra un evento e un mondo³, è importante ricordare che le donne e i soggetti oppressi hanno da sempre dato vita, nella pratica, a forme di invenzione e ribellione all’assoggettamento e all’oppressione. La violenza e la prevaricazione del sistema hanno, certamente, cambiato segno e modalità di presa. Ma la necessità di una modificazione completa dell’esistenza è ancor più urgente ed essa passa attraverso la politicizzazione di corpi, linguaggi, scritture, significati, simboli e desideri differenti dalla norma del maschile generico che non ama essere nominato. Tra innegabili difficoltà, il campo di applicazione più importante delle lotte attuali agite dai movimenti femministi e transfemministi di questi anni è soprattutto quello della vita e della riproduzione sociale poiché non casualmente esse si sono ritrovate a diventare il fulcro di processi di valorizzazione divenuti capaci di sfruttare il tempo e l’agire sociale, l’ambiente, ciò che vive e che consente di vivere. In effetti, l’eccedenza femminile e precaria nasce come esperienza di rottura e si è già fatta sentire nella storia. L’immanenza del reale è iscritta in quel divenire minore che vogliamo incarnare, nella lingua minore che vogliamo parlare, dove l’innesto dell’individuale sul politico è immediato, oltre le simbologie dell’identità del potere maschile⁴.

    Negli ultimi decenni, il capitalismo ha provato a includere e ad addomesticare le donne per poi tornare, oggi, a emarginarle. Ho parlato, descrivendo la fase del cosiddetto postfordismo dei primi anni Novanta⁵, di inclusione differenzialmente distribuita: con ciò intendevo sottolineare il modello del dispositivo di precarietà, frammentato e altalenante, sottoposto a momenti inserimento cui seguiva l’estromissione, in connessione con lo smantellamento progressivo del diritto del lavoro e la creazione di tipologie contrattuali, retributive, assicurative perfettamente individualizzate, così da ostacolare il conflitto. Il tratto saliente dell’esperienza del lavoro precario è la perdita. O meglio ancora, l’induzione del timore della perdita per sottomette il soggetto, nella mancanza di collegamenti con altri simili che rendano concrete battaglie collettive per ottenere tutele e diritti. In questo orizzonte, la differenziazione non sempre passa dal genere, o non solamente: dipende dai frangenti, oltre che dalla disponibilità a darsi del soggetto, sollecitata dalla singolarizzazione forzata la quale fa attrito rispetto alla dimensione collettiva – a proposito della materia viva processata dalla macchina del potere.

    Per tali ragioni è necessario analizzare i crinali scivolosi di processi di soggettivazione progressivamente indotti dal capitale in questi ultimi trent’anni, laddove la precarietà femminile è diventata modalità generale di organizzazione del lavoro. La precarietà è stata introdotta allo scopo di frantumare la collettività politica, facendo di ogni singolo/a individuo/a il datore di lavoro di sé stesso, con sollecitazione continua di capacità auto-regolative, auto-normative, auto-realizzative, auto-organizzative, autoimposte dagli stessi soggetti precari a sé stessi. Un sistema extragiuridico tutto orientato alle logiche indicate da un mercato del lavoro che vuole lavoratrici competenti e qualificate ma sempre più politicamente disarmate così da trasformare la solidarietà di classe in competizione. Ciò ha rafforzato i processi di governance neoliberali che oggi dirigono i soggetti, facendo loro assimilare l’aspettativa di un certo comportamento e una certa soggettività del/nel lavoro.

    La femminilizzazione del lavoro o la lavorizzazione di umani e non umani, processi resi manifesti dal capitalismo biocognitivo, hanno mostrato la natura duttile, estrattiva e onnivora del capitale. Esso ingloba atti che non sono condizioni oggettive del lavoro della forza-lavoro viva, quindi, marxianamente, non fanno parte dei mezzi di sussistenza e dei mezzi di produzione⁶. O, più semplicemente ancora, circoscrive tutto ciò che non può dirsi occupazione retribuita, considerata come mezzo di sostentamento e quindi esercizio di un mestiere, di un’arte o di una professione.

    Si tratta perciò della sfera ibrida delle azioni umane improduttive che hanno a che vedere con il relazionarsi con gli altri, con i legami sociali, con aspetti che impegnano le nostre vite e il loro mantenimento in una rete di rapporti molteplici con altri esseri viventi, al di fuori dal tempo del lavoro produttivo certificato come tale. Questi passaggi e queste trasformazioni cruciali – che approfondiscono la storica problematica della riproduzione delle forze garantita dal lavoro domestico e di cura gratuito delle donne – vengono trattati nel primo e nel secondo capitolo del testo.

    Il primo punto di cui questo libro si occupa è, perciò, quello dell’individuazione dei percorsi che hanno portato una gran massa di donne al lavoro negli anni Novanta, tra sogni di autonomia e contemporanea crescita di nuovi settori produttivi/riproduttivi – essenzialmente collegati alla crescita dei servizi e delle professioni connesse a informazioni e conoscenza – che hanno convissuto con quelli tradizionali ma si sono sviluppati anche in relazione a un’evoluzione delle capacità di sfruttamento delle facoltà umane, connessa alle nuove tecnologie e alla precarizzazione del lavoro. In Europa, la concentrazione della manodopera femminile in determinati settori e attività si è fortemente accentuata, a partire dalla fine degli anni Ottanta. Nel 1990, un terzo delle donne della Comunità europea esercitanti un mestiere o una professione, risultava distribuito in tre settori: sanità, commercio al minuto e istruzione; oltre la metà del personale femminile era in effetti concentrato in sei attività, tutte nel settore dei servizi⁷.

    C’è qui da sottolineare, ancora una volta, la preesistenza del sistema di potere al capitalismo e al sistema di fabbrica, che è il dominio maschile. Il problema delle donne e dei soggetti resi secondi nello spazio pubblico non è se non la complessa e storica, atavica, relazione con l’alterità che si traduce in dipendenza del soggetto da un fuori, che è dominio, e che lo precede, a partire dal dato differente della sessuazione, della genderizzazione, della razzializzazione. Questo elemento cela la coincidenza del paradigma dell’umano con la sua forma maschile, e perciò la subordinazione del femminile. Ciò ha reso, nei secoli, non visibili le donne e i loro lavori, la loro attività e il loro operare, svalutando il senso di un fare che è assolutamente, fatalmente, il più indispensabile. Questa consapevolezza è sfociata, negli anni Settanta, in una ricchissima fase di analisi e lotte femministe che hanno segnato un momento uguale/diverso del rapporto tra donne e disconoscimento del lavoro. Sfociato, tra l’altro, nella rivendicazione del salario di lavoro domestico.

    La fase che io ho vissuto è quella successiva, vale a dire quella dell’espansione dell’economia dei servizi e della trasformazione dei paradigmi della produzione fondati su relazione e saperi, sull’economia dell’interiorità. Soprattutto nel Centro Nord del Paese, vent’anni dopo l’operaia della casa, il capitalismo scopre che le donne sono utilizzabili come casalinghe del capitale anche al di fuori dalle mura domestiche e ciò ha trasformato, per un periodo, lo spazio del lavoro «in spazio di complice integrazione delle donne ai sistemi secolari del maschile, alla sua veste economica», pur continuando, scrivee Daniela Pellegrini, «a osannare la loro specifica differenza per continuare a sfruttare il femminile sotto l’egida di un maschile predatorio incarnato in un’ipocrita virtualizzazione del dio denaro e del suo potere di dare o togliere la vita e la sussistenza»⁸. Essa coincide con differenti visioni dei femminismi relativamente al fenomeno della femminilizzazione del lavoro e con le lotte agite dai collettivi delle precarie e dei precari.

    Si tratta, insomma, di notare gli elementi peculiari, pur nella continuità, che il capitalismo ha saputo sfruttare, alternando esclusione ed inclusione femminile. Il problema di rispondere e rigettare la reiterata tendenza del capitale a una cattura regolata e variabile (precaria) del soggetto donna diventa tanto più ingombrante quanto più la riproduzione sociale o la produzione sociale o ancora il lavoro involontario diventano elementi cruciali della produzione contemporanea, ribaltando dicotomie e gerarchie. Richiamerei allora il vecchio Marx che per primo, tra tante trasformazioni di contesto, ha colto il dramma immutabile di un rapporto tra lavoro e capitale per il quale l’essere umano è, sempre e comunque, solo uno strumento di lavoro vivente.

    Nonostante incredibili innovazioni tecnologiche, infatti, la società attuale non è una società liberata dal lavoro ma una società che succhia energie e qualità umane per far fronte a bisogni sociali da cui dipendono le risorse vitali per i soggetti che svolgono tali attività. In un circolo perverso, letteralmente letale. Non è, perciò, completamente necessario rivedere le caratteristiche delle attività, delle precedenze, del senso dell’azione per la collettività umana e non umana, dunque pensare a una riscrittura delle categorie che vincolano la partecipazione e l’ammissione al contratto sociale, ponendo, da sempre, limiti e vincoli alla cittadinanza degli individui e delle individue? Il lavoro produttivo esterno, per il mercato, ha assunto solo con il capitalismo il ruolo di criterio significativo, addirittura, della dignità umana. Oggi riveste il ruolo di selezionatore: chi ha lavoro ha diritto a reddito e sopravvivenza, mentre la massa dei poveri estromessi dal lavoro viene considerata un’inutile zavorra, segnata dallo stigma dell’inservibilità. La pandemia ha messo in luce la profondità delle diseguaglianze e accelerato inediti processi di espulsione, scoprendo i lati fragili: anziani e giovani; donne e migranti; le persone malate; la popolazione di colore. Tutto ciò che non era utile integrare oppure, da capo, era utile altrove.

    Il neoliberismo ne ha approfittato per ristrutturare le vite, selezionare gli abili dai disabili, l’invalido dal valido, chi veniva ritenuto inessenziale dall’essenziale. La vita non essenziale è l’apoteosi perversa dei meccanismi della valutazione della meritocrazia neoliberale⁹ solo centrata sul profitto e sul disvalore di vite o aspetti della vita che non possono essere resi produttivi e tradotti in denaro.

    D’altro lato, le donne, questo soggetto imprevisto dalle lotte della classe, hanno sempre cercato di fare di questo punto di debolezza una forza, rifiutando la dialettica servo/padrone e a loro volta rendendosi, volutamente, straniere, laddove ovviamente possibile, e arricchendo la propria vita proprio di quella inoperosità produttiva, che altro non è se non l’essenza più vera dell’esistenza. Facendo del margine il centro, del bordo uno spazio di apertura radicale là dove la profondità è assoluta ed è possibile costruire una comunità che fa resistenza¹⁰. Scartando di lato e, a volte, scegliendo di rifiutare un lavoro ingrato e poco remunerato, per fare spazio ad altri aspetti dove la misura non è il denaro ma il senso alla vita: non solo figlie e figli, ma interi mondi di cui avere cura in termini politici, da protagoniste. Oggi, diversamente da alcune interpretazioni anche da me calate nell’attualità di qualche tempo fa, penso che il divenire-donna se riferito al lavoro, dia conto non solo del negativo di un destino sempre precario ma sia sopra ogni cosa un’indicazione eversiva che si prefigge di tracimare gli obblighi del capitale, nel tentativo continuo di sottrarsi e illuminare la preferenza per l’altrove¹¹. Quel avrei preferenza di no che istituisce anche la potenza precaria, la quale ha cercato di svincolarsi dal lavoro inutile della fabbrica della paura, facendo leva sull’autonomia consentita dalle innovazioni tecnologiche. Oggi si ritrova piegata da trenta anni di frane dei diritti e delle tutele, volute da svariarti governi, a partire dal pacchetto Treu del 1993. Questo conferma, una volta di più, che i lineamenti della autonomia individuati dal soggetto donna, precaria, nomade, subalterna sono costantemente a rischio di essere dominati, comandati, controllati. Ma prova anche come l’alterità consenta chiavi di lettura che potrebbero tornare utili nel presente vuoto del pensiero, che si traduce in vuoto politico. Poiché essa si mobilita a partire dai corpi, come ci spiega Tiziana Villani¹², dunque dall’essenziale, dal senso di noi e della vita.

    Aggiungo, agganciandomi qui ma senza dilungarmi, che la critica più puntuale che, da femministe, può essere mossa al pensiero marxista tradizionale sta nella teoria del valore-lavoro, poiché essa non riesce a vedere e a spiegare tutto il valore, o altri valori, o oltre il valore generato da uno scambio capitale/lavoro che si è radicalmente modificato.

    Nel capitalismo contemporaneo il problema si è, in effetti, complicato. E sembra rendersi concreta una ulteriore torsione che rischia di favorire forme di alienazione del soggetto non più solo dal proprio lavoro ma addirittura dalla propria vita, come tratto nel terzo capitolo. Il capitale prova oggi a omologare e ad assorbire nella propria identità astratta qualunque differenza. Con processi di integrazione dell’umano e dunque di antropomorfizzazione del capitale che rischiano non solo di generare dissoluzioni del potenziale rivoluzionario delle differenze ma di sottometterle alla parola del potere sulla vita. Si tratta di dare conto di un tessuto che è potenzialmente più ampio del saccheggio dell’azione (nel senso inteso da Hannah Arendt¹³) o delle possibilità di appropriazione implicite nella tecnica contemporanea. Ovvero di guardare a meccanismi del capitale contemporaneo, attualmente in atto, che si nutrono proprio, esattamente delle interazioni, degli intrecci con i corpi-mente, con il sociale, con il politico, con l’ambiente, con lo spazio, con il tempo. Operazioni di denaro e capitale, mentre ambiti fino a ieri intoccati dalla merce diventano produttivi di plusvalore. La salute non è oggi più che mai, conclamatamene, un modo (oltre che un campo) della produzione¹⁴?

    In più punti di questo libro ho cercato di confrontarmi con le tendenze che ci mostrano l’inquietante futuro che potrebbe dischiudersi a causa della riduzione progressiva del Welfare State. La

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