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Diario di un polmonauta. Appunti di viaggio alla scoperta della fragilità
Diario di un polmonauta. Appunti di viaggio alla scoperta della fragilità
Diario di un polmonauta. Appunti di viaggio alla scoperta della fragilità
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Diario di un polmonauta. Appunti di viaggio alla scoperta della fragilità

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About this ebook

La vita è un percorso che alterna gioie a dolori e riuscire a trovare una stabilità "in movimento", un po' come in canoa, aiuta a procedere con una certa sicurezza sulle acque turbinose. Arriva un momento in cui gli sforzi sono ripagati e le soddisfazioni aumentano. Ma come reagire di fronte a un evento inatteso che ti sbilancia, facendoti perdere l'equilibrio? Questo racconto ci permetterà di prendere coscienza della nostra fragilità, spronandoci a guardarla come fattore di crescita che può fare la differenza anche nelle situazioni più difficili.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateMar 4, 2022
ISBN9791220392556
Diario di un polmonauta. Appunti di viaggio alla scoperta della fragilità

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    Diario di un polmonauta. Appunti di viaggio alla scoperta della fragilità - Daniele Durante

    CAPITOLO 1

    L’imprevisto (poco imprevisto)

    Un essere che si abitua a tutto:

    ecco, penso sia la migliore definizione

    che si possa dare dell’uomo.

    Fëdor Dostoevskij

    L’abitudine diventa

    come una seconda natura.

    Το είθισμένον ώσπερ

    πεφυκòς ήδη γίγνεται

    Aristotele, Retorica, 1, 11

    Marzo 2020

    «Non ce la faccio, non so se riuscirò a reggere questo dolore» scoppiò in lacrime all’altro capo del telefono.

    «Irma, che succede?» domandai sconcertato.

    «Non ce l’ha fatta. Qualche giorno fa hanno portato Lucio in ospedale e stamattina mi hanno chiamata per dirmi … »

    «Per dirti cosa?»

    «Non ci credo. Non può essere vero. Mi sembra un incubo, sto impazzendo. Non posso credere che sarebbe finita così. Eravamo lì seduti a festeggiare coi nostri amici e poi… »

    Ancora una volta smise di parlare. Le corde vocali le si chiusero di colpo e il respiro le si fermò in gola. Solo le lacrime ebbero modo di fluire.

    Trattenni anch’io respiro e pensieri. Come mi era già successo di fronte alla sofferenza inaspettata di qualcuno, mi trovai all’improvviso di fronte a un muro di nebbia. Non volli assumere alcuna iniziativa, in alcuna direzione, né tantomeno fuggire da me stesso. I miei battiti rallentarono; ero in stop-(e)motion ¹¹.

    D’altronde, per quanto il mare burrascoso possa mettere in difficoltà numerose imbarcazioni non mi è ancora capitato di vedere un faro correre ansiosamente per tutta la costa in cerca di barche da salvare; come un faro, quindi, rimasi immobile avvolto in quella nebbia gelida, mentre Irma piangeva per lo tsunami di paure che la stava trascinando via.

    Irma, ex-collega che mai avrei immaginato di ritrovare in quello stato, annichilita da un dolore così improvviso, così aberrante.

    Ci eravamo persi un po’ di vista, ma quattro anni prima mi fece una bella sorpresa quando una sera si presentò senza preavviso ad uno dei miei corsi sulla comunicazione, accompagnata anche dalla figlia Maura.

    Assieme ad altri membri del gruppo ci incontrammo nel dopocena in un clima di piacevole e reciproco arricchimento; l’esperienza ebbe successo, tanto che fui incoraggiato ad organizzare una seconda edizione.

    «Ho bisogno che mi ascolti! Voglio chiederti se puoi darmi supporto, voglio essere sicura che ci sarai nei momenti più bui, e so che saranno tanti.»

    «Ma certo Irma, sono qui, non sei sola. Conta pure su di me» risposi in tono rassicurante.

    «Il pensiero che tu possa sostenermi e darmi ascolto mi aiuta a sentire ancora un minimo di contatto con la vita, perché attorno a me vedo il nulla, la perdita di qualsiasi voglia di esistere e di fare… »

    Si interruppe per qualche secondo e a quel punto mi inserii nel suo silenzio.

    «Mi racconti che cos’è successo? Ti va?»

    Riprese singhiozzando.

    «Lucio, Maura ed io una settimana fa abbiamo partecipato a una cena tra amici con le rispettive famiglie. Lucio si è seduto accanto al suo amico che, tra l’altro, è anche il suo medico curante, senza neanche immaginare che avesse il virus.

    Finito di cenare siamo rimasti a chiacchierare, molto semplicemente; avevamo proprio voglia di rilassarci, senza fretta e senza l’assillo che il giorno dopo saremmo andati a lavorare. Lucio, tra l’altro, si alzava sempre molto presto, vista la distanza che lo separava dal lavoro. Dopo qualche giorno ha iniziato a star male, diceva di avere mal di testa, poi è arrivata la febbre. Faceva così fatica a respirare che hanno dovuto ricoverarlo in ospedale. Non l’ho più visto da allora…» disse tra i singhiozzi, ma si ricompose subito.

    «Stava bene, capisci? Il suo amico medico glielo ha attaccato ed è morto lui!»

    Immaginavo Irma mentre reggeva il telefono con una mano e con l’altra stretta a pugno, che tremava per lo sconquasso subito.

    «Ora Maura e io abbiamo la febbre e sono terrorizzata, una febbre che non passa da giorni. 38 °C, 38,2 °C, 37,8 °C. Sono al piano di sotto e Maura rintanata nella sua stanza, di sopra. Ho paura di non farcela e ho paura per lei. Poi mi ha chiamato il medico di Lucio, chiedendomi se avessi bisogno di qualcosa. In questo momento sai di cosa ho bisogno? Di vedere onestà, di un’ammis-sione di responsabilità da parte sua per non aver detto o fatto nulla che avrebbe potuto salvarlo.»

    «Quindi senti di non poterti fidare di lui e pensi di non voler ricevere la sua vicinanza professionale?» domandai.

    «Lo sento che è imbarazzato, che tiene le distanze; non sa cosa dire, e quindi mi chiede se dal punto di vista medico ho bisogno di qualcosa. Io, però, non voglio la pietà di nessuno.

    In questo momento tutti mi chiedono se ho bisogno di qualcosa e soprattutto mi dicono di non abbattermi e di tenermi su. Come faccio a tenermi su? Chi mi tiene su? Sai qual è la cosa più sconvolgente per me in questo momento?»

    «Cosa?»

    «Tutti ti cercano, ti mandano messaggi, vogliono incoraggiarti con un consiglio dopo l’altro: Adesso vedrai che ti riprenderai, Forza e coraggio, Non ti abbattere, Ce la farai! e poi Cerca di fare questo, Cerca di non fare quest’altro.

    Tutti bravi a dare consigli. Io, invece, ho la nausea. Ho la sensazione che la gente abbia paura e che non voglia essere disturbata dai problemi degli altri.

    Ti tiene a distanza con pacche sulle spalle e consigli, ma non t’ascolta; non riesce a stare col tuo dolore.

    Non ho voglia di stare a sentire chiacchiere non richieste, voglio solo un po’ di comprensione per quello che è successo e per tutto ciò che vedrò accadere nei prossimi mesi. Chiedo troppo?»

    «Ti costa davvero tanto provare a far spazio dentro di te per accogliere il disagio, il dispiacere degli altri, quando sai che di spazio te ne rimane ben poco, perché il tuo dolore se l’è preso tutto. È così?»

    «Sì… ho bisogno di concentrarmi su di me, di starmene per conto mio, non voglio vedere nessuno, non voglio sentire nessuno.

    Ogni tanto da amici e parenti mi arrivano messaggi, ma non ho voglia di rispondere. Vedo tutto con fastidio.

    Ora ci siamo solo Maura ed io, con la nostra febbre, isolate pur abitando assieme, e lui lì in attesa che lo portino via. Chissà se lo potrò più rivedere. Mi hanno detto che probabilmente non sarà possibile.»

    Restai in silenzio a riflettere per alcuni istanti; ebbi l’impressione che niente avrebbe fatto provare a Irma più amarezza e più sconforto dell’idea di urlare un disperato bisogno di ascolto dietro a un muro da cui nessuno avrebbe potuto udirne la voce.

    Il supporto degli altri, le raccomandazioni, i consigli, l’incoraggiamento senza l’ascolto avrebbero amplificato il senso di separazione e di solitudine.

    D’altra parte, mi sforzavo di ricordare, tra tutte le persone conosciute, qualcuno in grado di ascoltarmi veramente e profondamente, senza dispensare rassicurazioni o consigli non richiesti, senza moralismi o prediche.

    Avevo incontrato, invece, tanti soggetti caritatevoli, capaci solo di negare il problema, di minimizzarlo, di cambiare argomento, di simpatizzare, di paragonarmi a qualcun altro.

    Di fronte alla mia sofferenza, tutti si sentivano in dovere di farmi sentir bene a tutti i costi e, di fronte al mio dolore, di esprimersi come tanti presentatori del telegiornale. In fondo siamo tutti comunicatori, no?

    Mi sono sempre domandato: ma se soffri e tutti parlano, chi ti ascolta? Era stato Zenone di Cizio¹², non a caso, ad affermare che la natura ci ha dotati di due orecchie e di una bocca sola, affinché possiamo ascoltare il doppio di quanto parliamo.

    Più spesso di quanto mi piacerebbe vedo confondere il parlare con l’ascoltare.

    A scuola, ad esempio, ti insegnano a parlare e a risolvere problemi, e l’unica forma di ascolto è quella rivolta a chi ne sa più di te, ma è un ascolto didattico finalizzato all’apprendimento, che nulla ha a che vedere con lo stare con gli altri in un rapporto arricchente e profondo.

    La scuola insegna a essere solutori di problemi, e ciò, oltreché utile, piace a tanti. Ma non sarebbe servito a Irma.

    Sapevo che chiunque si fosse trovato nella sua condizione non avrebbe voluto che qualcun altro si prendesse la responsabilità di mettere le cose a posto.

    Per essere in grado di ascoltare, in effetti, non è necessario possedere tutte le risposte.

    La cosa più triste di questo evo della comunicazione è che i consigli non richiesti, in realtà, impediscono a chi li elargisce di restare davvero in contatto con i bisogni di chi soffre; sarebbero bastate alcune domande aperte con cui invitare Irma a parlare e molti meno avresti dovuto, dovresti, ecc.

    I migliori consigli Irma li aveva già dentro di sé, e se anche avesse fatto fatica a reperirne, li avrebbe autogenerati col tempo, grazie a un più profondo contatto con se stessa che solo un ascolto rispettoso le avrebbe dischiuso.

    Certo, apprendere della perdita di un famigliare o di una persona cara da parte di conoscenti o amici può portare anche nella nostra vita molta sofferenza e dispiacere; allo stesso tempo, confondere la sofferenza dell’altro con la nostra conduce istintivamente a prendere le distanze e a proteggersi, innescando paradossalmente, con lo stesso automatismo di un riflesso rotuleo, l’abitudine di dare consigli non richiesti, a mo’ di punti di sutura, oppure di far sì che gli altri seguano il nostro esempio.

    A suo tempo, in qualità di professionista della salute e della relazione d’aiuto, ero stato anch’io un prolifico dispensatore di pareri, sempre pronto a consigliare perlopiù su esperienze vissute da altri o su strategie preconfezionate.

    Tutto ciò non aveva fatto altro che aumentare la mia frustrazione e, soprattutto, quella di coloro che si rivolgevano a me.

    Più aumentava il livello delle mie conoscenze più si accresceva la distanza tra me e gli altri.

    Poi lessi un’affermazione di 2.500 anni fa, attribuita a Siddharta Gautama, meglio conosciuto come il Buddha e che ricordo più o meno così: Coloro che fondano la conoscenza e che accrescono il loro sapere sui libri, diventano insopportabili chiacchieroni e se ne vanno in giro a importunare tutti; tuttavia, non incarneranno mai il cambiamento che desiderano vedere, né saranno all’altezza d’ispirarlo.

    Si racconta che una madre condusse il proprio figlioletto diabetico e a rischio salute da Gandhi, perché fosse lui a dirgli di smettere di mangiare zucchero.

    Il Mahatma guardò la donna, poi il bambino e si limitò a dire di riportarlo dopo tre settimane.

    Così fece quella madre, che puntualmente si ripresentò da lui. Lo zucchero ti farà male. Non mangiarne più disse Gandhi al bambino, dopo essersi inginocchiato alla sua altezza per guardarlo meglio negli occhi. La donna rimase un po’ perplessa e dopo averlo preso in disparte domandò: Gandhi-ji, mi scusi, mi ha chiesto di riportarlo dopo tre settimane per dirgli solo questo? Perché non gliel’ha detto tre settimane fa?

    Gandhi rispose: Perché tre settimane fa non avevo ancora smesso di mangiare caramelle. Come avrei potuto dire a suo figlio di non mangiarne più?.

    Per affinare le capacità di ascolto di un essere umano verso un altro essere umano sofferente, mostrarsi superiori sfoggiando il proprio sapere finisce per diventare un fardello e non più un valido aiuto.

    Perciò, e ne ero del tutto sicuro, l’unico modo che mi avrebbe messo in condizione di essere vicino a Irma, così come lei avrebbe desiderato, sarebbe stato non desiderare nulla per lei, ma lasciar fluire la vita dentro di lei e dentro di me come in una danza, qualsiasi forma questa avesse assunto, perché è proprio della vita non essere in alcun modo predeterminata, né compressa o costretta.

    Non avrei voluto per nessuna ragione al mondo che, pur nella sofferenza, Irma fosse diversa da com’era o che dovesse procurare di darmi retta, estorcendole fiducia.

    Accettare tutto senza condizioni, senza ricondurlo a schemi precostituiti e stare semplicemente con l’altro, richiede molto più coraggio che consigliare; richiede di essere in contatto con la forza generativa di stare al mondo.

    Un mio collega di Honolulu, praticante di surf, tanto tempo fa mi illuminò in proposito: è come cavalcare un’onda, non puoi fermarla, ma solo assecondarne il movimento, limitandoti a mantenere il contatto; allo stesso tempo, non puoi pensare al passato o al futuro perché sei in contatto col presente e nient’altro ha senso quando sei sulla tavola da surf.

    Alla fine, diventi tutt’uno con l’onda e lo sforzo, il dolore e le preoccupazioni si dissolvono perché non c’è più un Io separato dall’onda in grado di sforzarsi di far cambiare le cose, di provare preoccupazione o dolore.

    Nella vita faccio il docente scolastico, il formatore e l’orientatore, ma non mi piace dire di essere docente scolastico, formatore e orientatore. Sono stato incalzato, a volte, con: Non attaccarti alle parole! Sei un docente e basta, Non essere così ossessivo nella scelta dei termini, finirai per confonderti e per confondere le idee agli altri. Anche il tuo pensiero non sarà più fluido e perderai di credibilità, ma non ho mai dato peso a queste raccomandazioni animate da tante buone intenzioni.

    In me risuonano ancora vivide le parole del regista Nanni Moretti: Chi parla male, pensa male e vive male. Le parole sono importanti!; quasi che tra il retto parlare, il retto pensare e il retto agire ci sia sempre un imprescindibile rapporto di causa ed effetto.

    Perché, poi, questa distinzione tra fare ed essere? Semplice. Ho sempre dubitato del fatto di volermi identificare con un qualsiasi ruolo per non rimanere imprigionato in un giudizio. Me ne resi conto dopo aver perso il lavoro qualche anno fa; aver costruito attorno a quel mansionario una narrazione, uno schema a cui attaccarmi e con cui identificarmi mi procurò più tormento di quanto la perdita stessa del lavoro ne creò. L’adesione e il voler essere quel ruolo mi impedirono di prendere in considerazione altre dimensioni lavorative, di sviluppare nuovi interessi e di organizzare meglio conoscenze ed energie a servizio dei reali bisogni della gente.

    Quindi, sulla base di questo genere di consapevolezza, scelsi di procedere in un’altra direzione e pensai che il mio fare sarebbe consistito nel dedicare gran parte delle giornate all’incontro con classi, aule di formazione e cittadini in cerca di lavoro.

    Posso dire che il filo conduttore di tutto sia stato proprio il lavoro, soprattutto per coloro a cui era venuto a mancare; poi, sempre nell’ottica della riqualificazione al lavoro, mi interessai alla sicurezza e alla salute, all’igiene sui luoghi di lavoro, alla prevenzione e alla percezione dei rischi; tutti temi che sarebbero diventati altrettante stelle polari di cui avrei instancabilmente e scrupolosamente seguito la rotta.

    A furia di lavorare occupandomi di lavoro, gli impegni raddoppiarono e le giornate diventarono sempre più smart.¹³ Avevo adottato lo smart-working ¹⁴ molto prima che si iniziasse a parlare del fenomeno e diversi anni prima dell’arrivo di un altro smart: lo smartphone. Senza accorgermene, questo dispositivo era diventato una protesi del mio cervello e mi ci vollero anni per imparare a concentrarmi senza esserne suggestionato; dovetti disintossicarmi lentamente dal condizionamento di quella macchinetta sempre in mano, in tasca o sulla scrivania. Provai di tutto. Mancava solo l’agopuntura. Tra le tecniche per rieducare l’attenzione ero ricorso a quella detta del pomodoro: un timer da cucina a forma di pomodoro che caricavo per 25 minuti, allo scadere dei quali facevo una pausa di cinque minuti. Scopo della tecnica era accumularne più possibile nel corso della giornata.

    A fine giornata potevo ritenermi soddisfatto di come attenzione e concentrazione ne avessero giovato e di quanti impegni fossi riuscito a portare a termine; divenni sempre più capace di concentrarmi per periodi sempre più lunghi.¹⁵ Ma fu veramente dura. Avevo persino incorniciato in studio un detto tibetano di fronte al quale ogni tanto mi soffermavo a riflettere, per non desistere dallo sforzo di affrancarmi da quella sudditanza tecnologica.

    Oggi più che mai. Per avere la nostra attenzione e per distrarci con lo smartphone i gruppi commerciali investono miliardi di dollari.

    Ogni anno questa continua diversione genera decine di migliaia di incidenti¹⁶; l’uso dello smartphone durante la guida è un fattore di massimo rischio, perché mentre si parla non si frena.

    Chi messaggia si distrae in media per 10 secondi, che a 100 km/h è come percorrere al buio 280 metri (due campi e mezzo da calcio); anche alla metà della velocità mi farebbe impressione già l’estensione di un campo solo. Il rischio, tuttavia, non si riduce col vivavoce e con la tendenza delle auto di ultima generazione a dotarsi di tante distrazioni tecnologiche di serie.

    Per non parlare, poi, dei ben documentati effetti di interferenza delle notifiche sui processi di memoria e sull’apprendimento. Disattivai tutte le notifiche push del dispositivo perché non volevo rinforzare la dipendenza da esso per effetto della logica racchiusa nella frase di Forrest Gump: La vita è come una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita.

    Col tempo, pensieri quali: Ma avrò fatto bene a inviare il messaggio?, Quando mi risponderà?, L’avrà letta l’e-mail? smisero di tormentarmi come le zanzare in una serata di canicola estiva.

    Un’altra abitudine, però, mi stava dando pensiero: svolgendo tre ruoli diversi, nell’arco della giornata era facile ritrovarmi a saltare da un’attività all’altra; non finivo mai quanto iniziato, col risultato che impiegavo più tempo a completare gli impegni e, a volte, neanche ci riuscivo.

    Tra l’altro, studi accreditati sugli effetti del multitasking quotidiano rivelano che, in media, nel passare da un compito all’altro, buttiamo letteralmente via quasi un’ora della nostra giornata.

    Ci vogliono almeno venti minuti per tornare ai precedenti livelli di concentrazione e l’efficienza del processamento cognitivo crolla del 50% rispetto a quando affrontiamo un compito per volta.¹⁷

    Un proverbio anglosassone recita, più o meno, così: Se insegui due conigli, finirai per non acchiapparne neanche uno.

    Scoprii che l’ansia derivante da questo zompettare da una cosa all’altra era dovuta al cosiddetto effetto Zeigarnik¹⁸, in base al quale non terminare ciò che si è iniziato sviluppa uno stato di tensione in grado di risolversi solo a compito ultimato.

    Conoscendo tali rischi, avevo imparato a organizzarmi meglio e a produrre periodi sempre più lunghi di concentrazione e di rilassamento; pertanto, gli impegni scorrevano sotto i miei occhi come le linee della mezzeria che da bambino osservavo ipnotizzato negli interminabili e roventi viaggi verso le mete estive.

    Le giornate smart si andavano riempiendo di momenti costruttivi e di incontri con corsisti e alunni in un piacevole mix di formazione e intrattenimento.

    Più che salire in cattedra era come salire su un palco per teatralizzare la conoscenza e, che fossi stato a scuola o a un corso di formazione, mi piaceva – e tuttora mi piace - invitare i discenti a farlo, rendendoli attori e protagonisti delle loro storie e della loro vita.

    Quando lessi per la prima volta i versi del poeta americano Robert Frost a proposito della necessità di non separare il lavoro dal gioco rimasi molto scettico.

    Non passò molto tempo prima di rendermi conto di quanto fossi lontano dalla verità, dall’intrinseca bellezza di quei versi; ma soprattutto, dal comprendere quanto il lavoro creativo possa soddisfare il bisogno di conoscenza e di competenza.

    E così, giorno dopo giorno, anno dopo anno, le vite di tutti coloro che avevo incontrato di persona si intrecciarono formando l’ordito della mia.

    Col riproporsi quotidiano di una certa organizzazione del lavoro, nonostante gli immancabili alti e bassi, ero confortato dal senso di familiarità, dalla rassicurante ricorsività di giorni e settimane ricche di incontri e di appuntamenti.

    Se avessi mantenuto la barra dritta, senza farmi destabilizzare da distrazioni di qualsiasi genere, con la giusta dose d’impegno e di passione le cose avrebbero assunto un crescendo a spirale verso l’alto, verso il paradiso professionale.

    All’inizio dovetti imprimere molta forza per far girare quel volano che, una volta avviato, aveva iniziato a ruotare in autonomia, richiedendo sempre minor sforzo.

    Tutto procedeva, quindi, con una certa regolarità; una configurazione comoda per il cervello che non vedeva l’ora di mettersi in stand by, senza doversi sforzare di pensare a tutto e con notevole risparmio di energie.¹⁹

    Configurazione comoda, ma non esente da rischi.

    Cosa c’è scritto?

    Anche mentre ascoltiamo, non udiamo tutto e il cervello aggiunge ciò che ritiene mancante.²⁰

    Nella maggior parte dei casi comprendiamo molto bene, ma a volte fraintendiamo.

    Quando disponiamo di parti limitate dell’infor-mazione capiamo ciò che vogliamo capire. Le illusioni ottiche sono difficili da decifrare ed è necessaria una buona conoscenza di come gli occhi e il cervello funzionano in sintonia per farci percepire il mondo che ci circonda. L’esperienza di un’illusione dipende da processi di giudizio, di categorizzazione e di pensiero. So di essere di fronte a un’illusione solo quando opero misurazioni e confronti.

    Le misurazioni mi informano che caratteristiche percettive tra loro uguali o diverse, dovrebbero viceversa apparire tra loro rispettivamente diverse oppure uguali.

    Col passare degli anni e con l’aumentare dell’espe-rienza, si diventa molto più rapidi nell’operare deduzioni, limitandosi a poche informazioni. Io, per esempio, giorno dopo giorno, avevo inserito il pilota automatico scivolando nella sindrome out-of-the-loop ²¹ e perdendo progressivamente la visione globale di ciò che facevo e di dove stessi andando.

    E, come succede in questi casi, l’eccesso di fiducia e di sicurezza ti porta ad abbassare la guardia e a essere meno reattivo in caso di emergenza. Quanto fossi rimasto vittima di un miraggio lo constatai dopo che, a un certo punto, si palesò qualcosa che in pochi giorni fu in grado di mandare a gambe all’aria buona parte dei miei propositi e delle accurate previsioni:

    1° gennaio 2020

    Il mercato locale di animali esotici, pesci e frutti di mare Huanan Seafood Wholesale Market di Wuhan, viene chiuso mentre la polizia richiama dal servizio otto operatori sanitari che avrebbero diffuso allarmismo e dicerie.

    5 gennaio 2020

    L’OMS avverte l’intero pianeta: una polmonite di origine sconosciuta ha interessato 44 pazienti. 11 di loro sono in gravi condizioni.

    11 gennaio 2020

    Il Centro per il Controllo delle Malattie in Cina (l’equivalente del CDC statunitense con sede ad Atlanta) mette in relazione un nuovo Coronavirus alla Sindrome Acuta Respiratoria Grave (SARS).

    20 gennaio 2020

    L’epidemiologo e virologo cinese Zhong Nanshan, annuncia in diretta televisiva che il virus appena identificato può trasmettersi da uomo a uomo.

    22 gennaio 2020

    Il Ministero della Salute italiano crea una Task Force per studiare il fenomeno.

    23 gennaio 2020

    In Cina, milioni di persone vengono messe in quarantena. Ne usciranno dopo 76 giorni.

    30 gennaio 2020

    Dopo la denuncia di contagi da parte di 18 Paesi, l’OMS dichiara lo stato d’emergenza.

    2 febbraio 2020

    L’Istituto Spallanzani di Roma isola il nuovo Coronavirus.

    5 febbraio 2020

    Viene istituito in Italia il CTS (Comitato Tecnico Scientifico)

    20 febbraio 2020

    Il paziente uno italiano viene ricoverato nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale di Codogno (LO); prima, però, per farsi curare va in Pronto Soccorso e viene dimesso con la diagnosi di una leggera forma di polmonite. Sua moglie, cinque membri del personale ospedaliero, tre pazienti e diversi suoi contatti risulteranno tutti positivi.

    In poche settimane, se non giorni, l’epidemia si evolse in pandemia.

    Chi se l’aspettava?

    Non io, ma in tutto il mondo, prima del suo verificarsi, in tanti, già da anni, avevano lanciato allarmi.

    Dopo la sua comparsa, la pandemia da Coronavirus è stata erroneamente definita cigno nero, un’antica metafora usata per descrivere un evento raro dall’enorme impatto e in grado di coglierti di sorpresa; evento che, proprio per la sua imprevedibilità, razionalizzi solo dopo, a posteriori; com’era avvenuto, ad esempio, per l’attacco alle Torri Gemelle del 2001 o per la bolla finanziaria esplosa nel 2008. Il dato curioso è che una volta apparso il cigno nero ci si trasforma in infallibili previsori in retrospettiva: Te l’avevo detto che sarebbe andata a finire così!.

    È il cosiddetto errore del senno di poi, un giudizio che distorce o fa dimenticare la rappresentazione di probabilità o gravità di un evento, prima del suo manifestarsi. Del senno di poi son pien le fosse scriveva Manzoni ne I Promessi Sposi.

    Non è, poi, tanto vero che tutte le considerazioni furono fatte solo a posteriori; in molti avevano lanciato diversi allarmi negli anni precedenti; com’era accaduto con l’epidemia di Ebola che dal 2013 al 2016 fece serpeggiare la paura che si potesse diffondere su tutto il pianeta, ma che, grazie all’azione delle autorità sanitarie africane, fu circoscritta. Ancora prima dell’Ebola, si erano manifestati focolai di A/H1N1, SARS, di SARS-CoV-1, di MERS-CoV (Sindrome Respiratoria medio-orientale).

    È risaputo che per reagire in fase d’emergenza i segnali che ti indicano dove sono le uscite di sicurezza e le scale antincendio devono avere una certa salienza percettiva, altrimenti perdono la loro efficacia e non li vedi.

    Credo sia accaduto lo stesso con gli allarmi pandemici. Tra il 2011 e il 2018 l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva tracciato 1.483 eventi epidemici in 172 Paesi. A furia di lanciare allarmi si era creato un effetto al lupo al lupo tale da ridurne la rilevanza.

    Una mappa degli eventi epidemici fra il 2011 e il 2018 nel mondo. Fonte: Organizzazione Mondiale della Sanità.

    Non solo. Gli allarmi presi poco sul serio, unitamente alla scarsa preparazione, rendono molto meno reattivi di fronte all’emergenza vera.

    Dopo otto secoli di venerazione e di pellegrinaggi, per rendere sicura la Cattedrale di Notre-Dame ed evitare incendi, per la prima volta all’interno del telaio ligneo della copertura denominato foresta fu installato l’impianto elettrico del sistema antincendio e della videosorveglianza; inoltre, in quello sventurato 15 aprile del 2019, tra i ponteggi e il sottotetto erano già presenti luci e montacarichi per i lavori di ristrutturazione; l’eccesso di misure preventive e di sicurezza, paradossalmente, non ridusse ma, al contrario, elevò il rischio da cui ci si stava proteggendo.

    Scoppiato l’incendio, infatti, al disservizio tecnico dovuto all’impreparazione del personale sottodimen-sionato e alla imprecisa segnalazione della posizione del focolaio, si aggiunse anche il ritardo nell’intervento dei vigili del fuoco perché allertati mezz’ora dopo, ma anche perché questi ultimi considerano falsi allarmi il 50% delle segnalazioni e, di norma, non intervengono tempestivamente.

    Anche qui da noi, prima di accorgerci di essere nella fase di avvio della pandemia ci fu, diciamo, un momento d’esitazione, d’incredulità.

    Si vis pacem, para bellum, Se vuoi la pace, prepara la guerra scrisse il funzionario romano Publio Flavio Vegezio. La reazione di sorpresa è tanto più elevata, quanto maggiore il livello d’impreparazione e dopo un attacco a sorpresa ti riattivi più tardi del previsto, limitandoti ad agire seguendo l’esperienza nota, secondo automatismi e abitudini consolidate. Molto pericoloso.

    Come scrisse il critico letterario e poeta britannico Samuel Johnson: "Le abitudini funzionano come le catene: sono troppo leggere per essere avvertite, finché non diventano troppo

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