La risata del Joker: Metamorfosi dello storytelling nel cinema americano
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Paola Dalla Torre è Professore Associato di Storia e Critica del cinema presso l’Università Lumsa di Roma. Con la Studium ha pubblicato, fra gli altri, Cinema contemporaneo e questioni bioetiche (a cura di), e L’ultima ondata (insieme a Claudio Siniscalchi).
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La risata del Joker - Paola Dalla Torre
Paola Dalla Torre
La risata del Joker
Metamorfosi dello storytelling nel cinema americano
Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium Cultura
ed Universale
sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.
Il volume è stato pubblicato grazie al contributo
della Libera Università Maria SS. Assunta
Copyright © 2021 by Edizioni Studium - Roma
ISSN della collana Cultura 2612-2774
prima edizione digitale 2022
www.edizionistudium.it
UUID: 247d6e66-0247-41c2-b02f-159f48f31067
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
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Indice dei contenuti
INTRODUZIONE
I. IL CINEMA DELLE ORIGINI
1. In principio fu un pompiere
2. Non di sola epica vive l’eroe
II. IL CINEMA CLASSICO
1. La nascita dell’eroe classico: il western
2. Le sfaccettature dell’eroe: il gangster movie e l’anti-eroe
3. E la donna? L’eroina nella commedia
4. La differenziazione del modello: Orson Welles e i suoi eroi moderni
III. IL CINEMA DELLA TRANSIZIONE: GLI ANNI SESSANTA E SETTANTA
1. Dal disagio alla psicosi: il male si appropria degli eroi del cinema americano
2. Arriva l’uomo nuovo: il Super-Uomo
3. E alla fine rimane soltanto l’orrore
IV. LA POST-CLASSICITÀ
1. In principio fu sempre Kubrick
2. Uno, nessuno, centomila: le identità dissociate degli anti-eroi del cinema contemporaneo
3. E alla fine arriva Joker
CONCLUSIONI
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
INDICE DEI NOMI
CULTURA STUDIUM
CULTURA
Studium
258.
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PAOLA DALLA TORRE
LA RISATA DEL JOKER
Metamorfosi dello storytelling
nel cinema americano
A mio padre.
INTRODUZIONE
Il cinema americano, fin dalle sue origini, è stato quello che ha compreso e utilizzato al meglio una delle facoltà proprie dell’essere umano: lo storytelling, termine oggi molto in voga e che di fatto designa l’arte del raccontare, che da sempre fa parte dell’umanità.
Il cinema di Hollywood, infatti, non si è quasi mai fatto attrarre da esperimenti estremistici che immaginavano il cinema come un’arte slegata dalla narratività (a differenza delle avanguardie europee, ad esempio) e ha sempre scelto la via della narrazione. Fin dal periodo del muto, nonostante si trattasse di un sistema in cui le attrazioni mostrative a volte sovrastavano l’integrazione narrativa [1] , attraverso l’esplosione narrativa classica [2] , che ha creato un modello perfetto (a cui conformarsi o verso il quale ribellarsi), percorrendo il tentativo di frammentazione del linguaggio della New Hollywood, fino agli esperimenti dei racconti destrutturati
della contemporaneità [3] , il cinema americano ha sempre voluto raccontare una storia, incentrata su uno o più protagonisti forti (nel bene o nel male) che seguono un arco narrativo preciso e portano a compimento un cammino, esteriore ed interiore.
Questa struttura è stata definita «il viaggio dell’eroe», un’impalcatura narrativa, che non solo nel cinema ma fin dalle origini della storia dell’uomo, ha caratterizzato i suoi modi di raccontare e raccontarsi, ed è stato Christian Vogler, story analyst di più di seimila sceneggiature per le più importanti Major, a riscontrare come tutte le pellicole americane di successo non fossero altro che una messa in forma o una variazione di questa struttura [4] .
Vogler l’ha desunta dai testi di importanti studiosi che, in campi diversi, avevano messo in evidenza come, dall’antichità fino ai tempi moderni, fiabe, miti, racconti di tutto il mondo condividono la stessa ossatura narrativa. E questa configurazione è uguale sempre e dovunque perché risponde ad un bisogno esistenziale insito nella natura stessa dell’uomo.
In particolar modo, Vogler cita gli studi di Joseph Campbell, storico delle religioni, e il suo testo L’eroe dai mille volti, in cui l’autore
ha capito che tutte le narrazioni, consapevolmente o no, ricalcano gli antichi modelli del mito e che tutte le storie, dalle barzellette più triviali ai più alti esempi letterari, possono essere interpretate da punto di vista del viaggio dell’Eroe, cioè del monomito
di cui L’eroe dai mille voltiespone i principi. Il modello del viaggio dell’Eroe è universale, esiste in tutte le culture e in tutti i periodi storici. È infinitamente vario, proprio come l’umanità, ma immutabile nella sua struttura di base. È fondamentalmente lo stesso insieme - differente solo nei dettagli da cultura a cultura – di elementi costanti, che continuano a scaturire dagli angoli più profondi della mente umana [5] .
E questo perché le riflessioni di Campbell [6] si allacciano idealmente al pensiero di Carl Jung e alla sua teoria degli Archetipi secondo cui ci sono personaggi o forze ricorrenti nei sogni di ogni persona e nei miti di ogni cultura, che fanno parte di quello che viene definito l’inconscio collettivo dell’umanità [7] . Per Jung gli Archetipi «riflettono i numerosi lati della mente umana e le personalità si dividono in questi personaggi per vivere il dramma delle proprie vite» [8] e per questo motivo dare vita a narrazioni che li riecheggiano esercitano un’attrazione universale, riflettendo le verità interiori di ognuno di noi [9] .
Basandoci su questa analisi, possiamo affermare che il cinema nel Novecento, ed in particolar modo il cinema americano, ha preso in eredità il testimone dell’innata necessità dell’essere umano di raccontarsi attraverso storie esemplari in grado di dare significato alla sua esistenza, di chiarirla, di tramandarla, di nobilitarla.
I disegni nelle rocce rupestri, i più antichi segni di presenza dell’uomo sulla terra, altro non sono che una forma primordiale di storytelling, con cui gli antichi si sono raccontati e hanno lasciato memoria di sé. L’uomo, unico fra gli esseri viventi, ha bisogno di mettere in narrativa la sua vita, per farsi domande, cercare risposte, riempire di senso la sua esistenza. È dal «Cogito ergo sum» di Cartesio che la filosofia, ancora prima della psicologia, riflette sulla soggettività dell’uomo come soggettività che si narrativizza e, in tempi più recenti, è stato Paul Ricoeur ad affermare che «noi identifichiamo la vita alla storia o alle storie che noi raccontiamo a suo proposito» [10] .
Dunque, l’identità narrativa costituisce il senso dell’identità personale e il racconto rappresenta la forma privilegiata della creatività umana, che ogni persona ed ogni collettività può mettere in atto, tramandando, inventando, identificando e confrontando [11] . L’identità dell’uomo è un’identità narrata
, che si coglie riflessivamente in una relazione costitutiva con altro che è, al tempo stesso, impossibilitato a coglierlo nella sua totalità ma ne è necessariamente bisognoso [12] . E questo rivela la dialettica della duplice dimensione del sé: come un insieme di proprietà permanenti nel tempo e allo stesso tempo come una costruzione continua attraverso il tempo [13] .
Questa facoltà di narrare storie, dunque, che per Ricoeur è una facoltà spirituale, ha trovato, nei nostri tempi, un’altra caverna su cui disegnare
le sue storie: quella buia della sala cinematografica, che nel secolo scorso, come in quello attuale, si è fatta la migliore interprete di questo innato desiderio dell’individuo.
Naturalmente, come ben si evince dal libro di Vogler, diventato fin dalla sua uscita negli anni Ottanta una Bibbia
per gli sceneggiatori hollywoodiani e non solo, la struttura del viaggio dell’eroe si presta ad essere più calzante per determinati generi (come il fantasy, il mitologico, l’epico più in generale), ma in realtà, con piccole o grandi variazioni, è riscontrabile in ogni embrione di vicenda che vogliamo narrare, è il filo rosso che permette di far sì che si strutturi una storia: cioè un cammino di cambiamento/trasformazione di uno o più personaggi nel corso di un tempo preso in considerazione.
Scopriremo che tutto il cinema americano, dalle sue origini fino ad oggi, non ha fatto altro che tessere i suoi racconti secondo questa tela, modificandoli certamente, ma mantenendo ben saldo questo modello narrativo.
È questo che, a nostro avviso, gli ha permesso e gli permette di ottenere sempre, a livello globale, il grande successo di cui gode: il cinema hollywoodiano, oltre naturalmente ad essersi strutturato da subito come industria ben solida, ha sempre scelto di affidarsi a storie universalmente comprensibili e attrattive perché rispondenti a quel modello che potremmo definire ontologico
della natura umano. Un modello, cioè, che esprime un bisogno innato dell’uomo.
A questo proposito, Claudio Siniscalchi ha scritto che «il cinema americano, rispetto a quello europeo, a parere dello storico Ernesto Galli della Loggia è stato capace di parlare all’uomo comune non ponendosi da nessun punto di vista particolare, settoriale, ma solo dal punto di vista dei valori universalmente umani» [14] . Il cinema americano ha sempre parlato, dunque, agli uomini di tutto il mondo con storie universali, in cui ognuno potesse ritrovarsi, a prescindere da ogni differenza. Questo non significa che non sia stato e sia tutt’oggi portatore di una ideologia
precisa. Laddove con il termine ideologia
, che troppo spesso è legato al termine negativo di propaganda, si intende invece «il complesso di credenze, opinioni, rappresentazioni, valori che orientano un determinato gruppo sociale» [15] .
Nel Novecento, che è stato definito il secolo americano
, è stato proprio il cinema che ha permesso agli Stati Uniti di emergere come guida non soltanto economica ma anche morale e spirituale del mondo, perché è attraverso le sue storie cinematografiche che è stata in grado di esportare
una certa idea di sé stessa e della sua way of life.
Ancora oggi, un’epoca in cui la situazione geopolitica mostra come il Grande Paese
non sia più l’unico a dominare la scena globale e anzi tra poco sarà forse sovrastato da altre potenze come la Cina, in realtà l’immaginario globale è sempre dominato dalla rappresentazione cinematografica americana. Sono le loro storie ad essere viste e amate (o a volte odiate) dappertutto, nessun’altra cinematografia è stata ancora in grado di scalfire questa forza e l’americanizzazione del mondo deve moltissimo a questa capacità di Hollywood di parlare a tutti e di essere in grado di farlo ancora.
A nostro avviso, questa capacità le deriva dalla scelta che ha fatto fin dalle sue origini: raccontare vicende che seguono sempre una tela precisa, quella del viaggio dell’eroe. Questo non significa che le altre cinematografie (per esempio quella italiana) non condividano con lei questa struttura, ma l’America, come si è detto, non si è mai fatta distrarre dalla convinzione che il cinema dovesse essere un mezzo per raccontare storie comprensibili, appassionanti e potenzialmente universali. Ha seguito con costanza questo modello, raffinando di volta in volta la sua capacità di raccontare, e, nonostante alcune derive (anche in America ci sono stati e ci sono esempi di cinema d’avanguardia non narrativa, naturalmente) non lo ha mai perso di vista.
Certo, rispetto al cinema delle origini, lo storytelling dell’eroe americano è mutato, ha subito anche grandi variazioni, derive, sconfinamenti, ma bisogna dire che, grossomodo, la sua struttura in atti, di cui parleremo dettagliatamente nei prossimi capitoli, il crescendo fino ad un momento topico, le varie soglie che lo caratterizzano, così come i vari incontri di cui il cammino è costellato, sono rimasti quasi invariati. La grammatica della narrativa del cinema americano, dunque, è sempre la stessa, più o meno. Ciò che è cambiato radicalmente è il senso di quella grammatica, l’idea di eroe e di mondo ad esso connesso, che ogni viaggio dell’eroe porta con sé.
Ed è logico capire perché questo aspetto sia cambiato: nel corso degli anni è cambiata la società americana e occidentale tutta, sono cambiati i suoi valori, i suoi modelli di riferimento, il suo modo di pensare, e i film altro non sono che uno specchio di questi cambiamenti. Sono testi dentro un contesto preciso di cui si fanno interpreti.
Quello a cui abbiamo assistito in questi poco più di cento anni di storia del cinema americano è la radicalizzazione in senso negativo, pessimista, nichilista delle sue storie e degli eroi che ne sono protagonisti. Semplificando al massimo: da un eroe positivo, incarnazione del buono, del giusto, della morale, siamo oggi giunti ad un eroe negativo, portatore di un’etica individualista, violenta, nichilista.
Gli schermi, grandi e piccoli, della società americana sono oggi popolati da anti-eroi: psicopatici, serial killer, uomini corrotti e senza scrupoli. Sono lontani anni luce le storie di personaggi come John Wayne o James Stewart: simboli dell’uomo retto che segue la coscienza, la legge e la Fede. Che lotta per la famiglia e la comunità. Che incarna i valori di libertà, democrazia, giustizia. Il costruttore.
Oggi l’eroe di un film di grandissimo successo, Joker (2019), è un distruttore, un violento psicopatico in cerca di riscatto, che vuole sterminare chiunque non presti attenzione alle sue richieste.
Naturalmente la nostra è una semplificazione, vedremo che ci sono tantissime sfumature, che ci porteranno a notare come anche nel passato possiamo trovare eroi non convenzionali e negativi e, di contro, come nel presente ce ne siano di positivi. Ma questa semplificazione chiarisce bene l’arco percorso dal viaggio dell’eroe del cinema americano. Che, come abbiamo detto, è l’arco che compie la società americana e occidentale tutta nel passaggio di paradigma da un’epoca ad un’altra.
È stato il Sessantotto, a nostro avviso e non solo, a creare una frattura culturale, filosofica, spirituale che ha distrutto una certa visione del mondo e i valori ad essa connessi, portandone ad un’altra diametralmente opposta. Più libera, forse, ma anche molto più incerta, contraddittoria, cupa, in cui vige quella che il Papa Emerito Benedetto XVI ha definito «una dittatura del relativismo» [16] .
Il cinema americano ha registrato tutto questo e le sue pellicole sono una testimonianza del cambiamento avvenuto: l’eroe è diventato un anti-eroe, un distruttore e non un costruttore, ne seguiamo sempre il cammino, ma il suo viaggio è cambiato completamente di senso.
Nei prossimi capitoli, dunque, cercheremo di definire lo sviluppo dello storytelling del cinema americano sotto il punto di vista della struttura che lo caratterizza e del senso etico che veicola. Prenderemo ad esempio alcune pellicole paradigmatiche dei diversi momenti della storia del cinema hollywoodiano (le origini, la classicità e la post-classicità) e definiremo gli snodi più importanti della affermazione e poi della continua riscrittura del viaggio dell’eroe.
L’ipotesi è che lo storytelling americano sia caratterizzato da sempre da una matrice
, il viaggio dell’eroe, e il nostro discorso punta a metterne in risalto le caratteristiche ricorrenti. Siamo, però, ben consapevoli che stiamo operando una semplificazione e che esistono sempre eccezioni al nostro discorso, capaci di scostarsi dalla convenzionalità del modello che proporremo. Come per la scelta delle date che segnano l’inizio di un certo evento storico o di grandi cambiamenti culturali, sappiamo che tutto è più sfumato e le date o i modelli sono semplificazioni che servono a dare, sinteticamente, uno sguardo chiaro e comprensibile, il più possibile veritiero, rispetto al quale, poi, fare di volta in volta i dovuti approfondimenti.
Questo libro nasce dalle lezioni del corso di Storytelling audiovisivo
tenute alla LUMSA. È anche grazie alle sollecitazioni dei miei alunni, ai loro interventi e alle loro domande che ha preso forma. A loro, dunque, va il mio primo ringraziamento: l’insegnamento è un processo continuo e bidirezionale in cui il sapere si costruisce insieme.
Naturalmente il libro è tutto attraversato dalle idee e dalle visioni del mio Professore, amico e padre cinematografico
, Claudio Siniscalchi, che non potrò mai ringraziare abbastanza.
Inoltre, il testo nasce anche grazie alle conversazioni sempre proficue con il mio collega, oltre che sceneggiatore e regista, Massimo Nardin, alle sue analisi dei testi filmici e alle sue citazioni di Ricoeur.
Infine, dedico questo mio libro a mio padre, che è venuto a mancare lo scorso dicembre, e ha lasciato un vuoto incolmabile nella mia vita. È stato sempre il mio esempio, la mia guida, la mia roccia e d’ora in poi spero di sapere navigare nel mare della vita seguendo i suoi insegnamenti.
P. D. T.
[1] Facciamo riferimento alla ben nota distinzione operata da André Gaudreault nel suo studio sul cinema delle origini fra pellicole che prediligono una struttura narrativa e quelle pellicole che invece puntano sulla mostrazione
di una spettacolarità, Cfr. A. Gaudreault, Cinema delle origini o della «cinematografia-attrazione», Il Castoro, Milano 2002.
[2] Sul concetto di cinema classico ci rifaremo alla ormai consolidata analisi di David Bordwell, Janet Steiger e Kristin Thompson, con cui hanno definito il cinema hollywoodiano un cinema essenzialmente narrativo, del montaggio, dello star system e dello studio system. Cfr. D. Bordwell, J. Steiger, K. Thompson, The Classical Hollywood Cinema. Film Style & Mode of Production to 1960, Routledge, Londra 1988.
[3] Sul cinema contemporaneo utilizzeremo differenti modelli interpretativi: il concetto di cinema post-classico come cinema classico «intensificato» di Bordwell, quello di cinema postmoderno immersivo di Jullier e Gianni Canova, l’analisi di Thomas Elsaesser e Warren Buckland sui puzzle films, le nuove vie interpretative sulla modularità
narrativa, l’interpretazione etica
di Claudio Siniscalchi. Cfr. D. Bordwell, The Way Hollywood Tells It: Story And Style In Modern Movies, University of California Press 2006; L. Jullier, Il cinema postmoderno, Kaplan, Torino 2006; G. Canova, L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Bompiani, Milano 2000; T. Elsaesser, W. Buckland, Studying Contemporary American Film. A Guide to Movie Analysis, Arnold, London 2000; W. Buckland (a cura di), Puzzle Films. Complex Storytelling in Contemporary Cinema, Wiley-Blackwell, Chichester, West Sussex 2009; W. Buckland (a cura di), Hollywood Puzzle Films, Routledge, New York 2014; A. Cameron, Modular Narratives in Contemporary Cinema, Palgrave Macmillan, London 2008; E. Thanouli, Post-classical Cinema. An International Poetics of Film Narration, Wallflower, London 2009; C. Siniscalchi, Immagini della desocializzazione. Il cinema americano dall’etica del classicismo all’etica postmoderna (1960-2000), Studium, Roma 2013.
[4] C. Vogler, Il viaggio dell’eroe. La struttura del mito ad uso di scrittori di narrativa e cinema, Dino Audino, Roma 2020.
[5] Ibidem, pp. 27-28.
[6] Cfr. J. Campbell, L’eroe dai mille volti, Lindau, Torino 2012; J. Campbell, Il potere del mito. Intervista di Bill Moyers, Neri Pozza, Milano 2012; J. Campbell, Mitologia creativa. Le maschere di Dio, Mondadori, Milano 1992.
[7] Cfr. C. J. Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo, Bollati Boringhieri, Torino 1982.
[8] C. Vogler, op. cit., p. 28.
[9] Altri importanti studi che si sono occupati di questi aspetti sono quelli di Vladimir Propp e di Algirdas J. Gremas, che hanno poi permesso lo sviluppo del settore degli studi narratologici. Cfr. V. Propp, Morfologia della fiaba, Einaudi, Torino 1966; A. J. Greimas, Del senso 2. Narratività, modalità, passioni, Bompiani, Milano 1984 e A. J. Greimas, J. Courtés, Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Mondadori, Milano 2007.
[10] P. Ricoeur, Il tempo raccontato, Jaca Book, Milano 1998, p. 376.
[11] Ibidem, p. 379.
[12] Cfr. P. Ricoeur, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 2016.
[13] È il concetto essenziale espresso dal pensatore in P. Ricoeur, Tempo e racconto. Volume 1, Jaca Book, Milano 2016.
[14] C. Sinscalchi, La Hollywood classica. L’impero costruito sull’etica americana (1915-1945), Studium, Roma 2009, p. 19.
[15] Enciclopedia Treccani Online, https://www.treccani.it/enciclopedia/ideologia.
[16] Il Papa Emerito Benedetto XVI ha parlato molto spesso del problema del relativismo e del nichilismo, sia durante il suo Magistero, sia prima. La definizione di «dittatura del relativismo» viene pronunciata in un’Omelia del 18 Aprile 2005, quando era ancora Cardinale, durante la Missa Pro Eligendo Romano Pontefice. In quell’occasione, affermò che: «Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare qua e là da qualsiasi vento di dottrina
, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie». Cfr. https://www.vatican.va/gpII/documents/homily-pro-eligendo-pontifice_20050418_it.html.
I. IL CINEMA DELLE ORIGINI
1. In principio fu un pompiere
Dopo la sua nascita, convenzionalmente avvenuta il 28 dicembre del 1895 a Parigi, il cinema si afferma con successo in tutto il mondo e naturalmente anche in America, dove trova un terreno fertile di sviluppo. È intorno agli anni Dieci che avviene, però, una svolta che permette la vera crescita e affermazione del cinema americano [1] . I motivi sono differenti. Il primo e più importante è che i produttori cinematografici decidono di spostarsi da New York, primo centro produttivo del neonato mezzo di comunicazione, verso Ovest e precipuamente a Los Angeles, in California, presso una zona allora ancora poco abitata e sovrastata dalla scritta Hollywoodland (si chiamava così, allora). La costa Ovest, infatti, offre numerosi vantaggi ai nuovi imprenditori del cinema: i costi sono più bassi, il clima migliore, gli spazi sono immensi e si possono comprare giganteschi appezzamenti di terreno su cui costruire nuove città
del cinema, dove immaginare il lavoro cinematografico al pari di un’enorme catena di montaggio, in cui i vari scompartimenti lavorano insieme, nello stesso posto, minimizzando i costi. Nascono così gli studios , una delle colonne portanti del sistema del cinema americano, che mostrano da subito come Hollywood abbia compreso la natura industriale del neonato mezzo cinematografico e si si sia subito attivata per dare vita ad un’industria forte e stabile (caratteristica che, con fortune alterne, ha portato avanti fino ad oggi, permettendogli di mantenere il suo predominio a livello mondiale).
Un altro motivo di crescita per il cinema americano negli anni Dieci è dato dalla nascita dei così detti nickelodeon, le prime sale cinematografiche, in cui si poteva entrare a vedere lo spettacolo pagando un solo nichelino. Sappiamo che nei suoi primi anni di vita il cinema non poteva contare su un luogo deputato in cui proiettare i suoi film. Le prime pellicole venivano mostrate in luoghi di fortuna o luoghi adattati (circhi, fiere, un bar come nel caso della prima proiezione pubblica dei Lumiérè). Con la nascita di un luogo specifico dove vedere i film, il cinema diviene riconoscibile
come spettacolo a sé stante e soprattutto diventa centrale nelle forme dell’intrattenimento della società che si va modernizzando, all’interno delle metropoli che rappresentano, appunto, la spinta della novità moderna.
Altro elemento di crescita è il raffinamento del linguaggio primitivo [2] delle primissime opere cinematografiche (che duravano pochi secondi o al massimo minuti). I registi iniziano a capire sempre meglio le modalità linguistiche del nuovo mezzo e cercano di utilizzarle per creare uno spettacolo emozionante e, a suo modo, spettacolare. E gli americani capiscono da subito che per fare questo bisogna raccontare una storia, mettere al centro delle immagini un protagonista e gettarlo nel mezzo dell’azione. Il cinema americano sceglie la narratività, la spettacolarità, l’azione. E possiamo ben comprendere come quella scelta sia ancora quella che domina le pellicole statunitensi e soprattutto è quella che è divenuta dominante a livello globale.
C’è un film che nel 1903 ha già in nuce queste tre caratteristiche e soprattutto che definisce già la struttura del viaggio dell’eroe, il filo rosso con cui analizzeremo tutte le pellicole che andremo a raccontare. Si tratta di Life of an American Fireman, diretto da Edwin S. Porter, uno dei registi più importanti del cinema delle origini americano.
La pellicola, considerata il «primo film narrativo» [3] americano, dura solo sette minuti (abbiamo già detto che in questo periodo la lunghezza delle opere fosse questa), naturalmente è in bianco e nero e muta (anche se a quei tempi era previsto un accompagnamento con uno o più strumenti dal vivo). Nel primo quadro vediamo, ad una distanza teatrale
, un vigile del fuoco addormentato su una sedia, in un ufficio. Ad un certo punto nella parte destra dell’inquadratura, attraverso un iris (un trucco molto utilizzato ai tempi del muto per rompere la staticità
dei quadri cinematografici primitivi), compare una donna che sta mettendo a letto una bambina. Capiamo che è un sogno, magari la famiglia del vigile, che ora invece è al lavoro, o forse (ma lo comprenderemo dopo) una premonizione.
Il protagonista si sveglia d’improvviso, come turbato, cammina per la stanza e indossa il suo cappello. Stacchiamo al quadro successivo in cui vediamo il dettaglio di una centralina dei vigili del fuoco all’incrocio di una strada che viene azionata da una mano. Nell’immagine successiva