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Rifiorire: Il potere segreto delle piante e la ricerca della felicità
Rifiorire: Il potere segreto delle piante e la ricerca della felicità
Rifiorire: Il potere segreto delle piante e la ricerca della felicità
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Rifiorire: Il potere segreto delle piante e la ricerca della felicità

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Rifiorire è una toccante testimonianza della gioia che il giardinaggio porta nella vita delle persone, e ci ricorda che gli esseri umani, come le piante, possono guarire e crescere a loro piacimento.” - The Independent

Da bambina Alice Vincent adorava la libertà, la pace, la bellezza che si respiravano nel giardino del nonno. Vent’anni dopo, ripensando a quei momenti nel minuscolo appartamento nel sud di Londra dove vive, l’infanzia in quel giardino sembra un sogno lontano.

Quando, senza preavviso, si ritrova sradicata, con il cuore spezzato, costretta a vivere con la valigia in mano e il bisogno di un rifugio da chiamare casa, Alice inizia a piantare dei semi, a crescere piante in vaso, a coltivare rampicanti sui davanzali, a riempire ogni angolo della casa e del balcone di verde. E allo sbocciare di ogni petalo, al germogliare di ogni fogliolina, piano piano si sente rifiorire. In un suggestivo memoir in cui la storia della botanica si fonde con l’autobiografia, Alice Vincent racconta con uno stile immediato e coinvolgente come riscoprire una passione sopita per le piante e i fiori l’abbia aiutata a ritrovare se stessa.

Perché a volte fare spazio dentro di noi a ciò che sta fuori ci permette di mantenere l’equilibrio in un mondo che corre troppo in fretta.

LanguageItaliano
Release dateMar 10, 2022
ISBN9788830538948
Rifiorire: Il potere segreto delle piante e la ricerca della felicità

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    Book preview

    Rifiorire - Alice Vincent

    GIUGNO

    In città la prima vampa d’estate arriva con la stessa alta pressione che la provoca. I muri di mattoni assorbono il sole inaspettato, l’asfalto luccica nella calura. Cominciamo a sudare, inavvertitamente avvolti nei nostri collant, nei giacconi e negli stivali. È come se un’enorme palma si fosse distesa sopra di noi e tutti festeggiassimo riversandoci all’aperto, nei giardini e nei parchi, per aprire lattine in un milione di strappi sibilanti. Sappiamo che il caldo non durerà a lungo.

    Le persone tendono a dimenticare quanto può essere umido e piovoso il mese di giugno. Un weekend soleggiato all’inizio del mese, spesso definito un’ondata di calore da certi giornali, accompagna l’inizio della stagione, anche se il solstizio, il punto di svolta fra luce e buio, non arriverà prima di qualche settimana. Ma poi pioverà, succede sempre. È la combinazione della sorprendente bolla di calore e del gorgogliare continuo della pioggia che permette alle piante di crescere.

    Perché giugno è un mese fertile. C’è una pausa fra la delicata abbondanza della primavera e il peso dell’estate al suo culmine. In giugno le piante crescono in fretta, sono in procinto di subire cambiamenti rivoluzionari. La malvarosa sbuca dal terreno e si mostra ai lati dei marciapiedi. Le strade alberate sembrano restringersi sotto l’ingombro dei rami carichi di foglie. I fili d’erba cominciano a ondeggiare selvaggiamente, sferzando il retro delle gambe. E poi ci sono le esplosioni morbide e profumate delle rose, pronte a inturgidirsi con la pioggia. Ci sono così tanti boccioli che, dopo il vento e la pioggia, alcuni finiscono sul marciapiede e scrocchiano sotto le scarpe. Il verde è ovunque, si affolla impaziente di dare corso alla nuova vita. Il solstizio si avvicina, inclina il mondo sul suo asse. Cambia la forma delle giornate che riempiamo di attività ordinarie.

    La mia vita era stabile da un po’. Era l’inizio della terza estate nella medesima casa, il periodo più lungo che avessi trascorso nello stesso luogo durante i miei vent’anni. L’appartamento resisteva al peso delle stagioni con la sua vista sulla città dal quarto piano di un edificio in cima a una collina, da dove si potevano ammirare sia l’alba sia il tramonto seduti al tavolo da pranzo. In inverno dalle finestre colava un’abbondante condensa che si raccoglieva sui davanzali in piccole chiazze, alla fioca luce dell’alba. I temporali lo scuotevano. E quando arrivava la luce intensa e calda dell’estate spalancavamo e lasciavamo entrare il giorno, finché le ombre della sera non si dipingevano sulle pareti in fiamme. Il vento si infilava nel corridoio e sbatteva le porte alle estremità, spezzando la calma bianca della casa.

    Questa era la nave di cui io e Josh avevamo assunto il controllo. Una casa immacolata che a volte sembrava un po’ troppo adulta per gli oggetti che avevamo accumulato insieme, troppo raffinata per ciò che ci legava: l’avventura e il desiderio.

    Ci eravamo innamorati cinque anni prima, nel quartiere limitrofo, in un’estate di pranzi al sacco nel parco e passeggiate lungo il Tamigi. Erano passate intere, calde settimane prima che ci baciassimo, qualche minuto dopo mezzanotte, vicino ai leoni di Trafalgar Square. Josh era un altro elemento che stavo assaporando nella nuova e tentacolare solitudine di Londra: rinfrescante, amaro e invitante. Dopodiché non ci eravamo praticamente più lasciati, ci eravamo ritrovati in una relazione senza nemmeno sapere bene che cosa significasse. I suoi vent’anni si srotolarono nei miei. Silenzioso e attento dove io ero rumorosa e impulsiva, si prendeva cura di me come nessuno aveva mai fatto prima. Io, intanto, lo trascinavo fuori dai confini soffocanti della sua comfort zone.

    Eravamo cresciuti insieme, il nostro amore era di quelli che fioriscono ostinatamente nel terreno friabile, spingendo le radici nelle crepe della giovinezza, rifiutando di cedere alla stagione della sofferenza. Avevamo fatto tutto quello che ci si aspettava da una coppia di giovani adulti: ballare fino all’alba, andare lontano, lasciarci e riprenderci, vedere gli amici che si sposavano e parlare di farlo anche noi. Eravamo rimasti insieme nonostante la fatica e la malattia, avevamo imparato ad anteporre l’altro a noi stessi anche quando era doloroso. Ci avevamo lavorato con tanto impegno, per costruire quell’amore. Lo avevamo rattoppato a furia di sostegno incondizionato e comprensione, accontentandoci quando non potevamo ottenere di meglio. Le nostre vite si erano ripiegate l’una sull’altra, come spesso accade alle vite degli innamorati. Eravamo come origami umani, avevamo imparato molto bene la tecnica. Sembrava quasi che ci fossimo evoluti in qualcosa di nuovo, di diverso da ciò che eravamo stati in precedenza. Ci univano l’ambizione e la determinazione a creare la vita e la carriera che volevamo, ma anche le cose che avevamo costruito insieme: impenetrabili castelli di Escher fatti di scherzi e giochi di parole, storie labirintiche che si potevano condensare in frasi in codice da condividere e assaporare, un intero mondo segreto in una boccia di vetro con la neve, inaccessibile a chiunque altro. Prima di conoscere Josh non avevo mai trovato nessuno capace di preoccuparsi più di me. Mi faceva sentire semplice e libera, come non mi era mai successo. E non avevo mai incontrato nessuno che si fosse impegnato tanto a occuparsi di me, nessuno aveva dimostrato tanta rettitudine e incrollabile certezza nello stabilire cosa fosse giusto o sbagliato, né un’intelligenza così agile. Amavo il suo modo di rivelarsi a poco a poco, il fatto che conoscerlo fosse come scoprire un segreto prezioso. Perciò, quando eravamo diventati adulti prima di tutti gli altri, non mi era parso tanto grave perché lo stavo facendo con lui.

    L’appartamento era come una laurea, un impegno saldamente ancorato a documenti importanti scritti in gergo legale. Era un legame. Eravamo fra i pochissimi, fortunati millennial che potevano vantare un appartamento di proprietà, per di più a Londra. Quelli che avevano smentito i titoli catastrofisti, grazie a una combinazione di eredità, alla generosità altrui e a una maturità superiore alla media dei nostri coetanei. Era in muratura, eppure lo trattavo come un guscio d’uovo: un contenitore prezioso e spesso assurdo per le nostre vite nascenti. Lo vedevo più come un giocattolo nuovo che avevamo ricevuto in regalo, che come un posto dove abitare.

    Cercammo di creare una casa che sommergesse di comodità anche la nostra breve esperienza di vita, che imitasse le bacheche di Pinterest con trofei recuperati da Freecycle. Con il passare del tempo la novità di quel posto si era attenuata. Facevamo una vita normale: preparavamo panini, ci lavavamo i denti. Prendemmo un inquilino per aiutarci con le bollette e scivolammo in orari giornalieri diversi. Cominciai a valicarne i confini per addentrarmi nel mondo esterno, attraverso la porta del balcone.

    Il balcone era il punto dell’appartamento che amavo di più. Amavo il fatto che fosse così angusto, anche prima dell’arrivo delle piante: meno di quattro metri di lunghezza per uno abbondante di larghezza. Sui lati si aprivano due porte finestre con i bordi di metallo logorati dalle intemperie, talmente strette che le persone ci passavano di sbieco, con cautela, di solito ridendo nervosamente e commentando che temevano di rimanere incastrate. Io, invece, quando le superavo mi sentivo pervasa da un senso di libertà: guardare il cielo, sentirmi parte di esso, voleva dire respirare davvero. I miei polmoni si espandevano, c’era più spazio per mandare fuori l’aria.

    Esitante, cominciai a colonizzarlo. Mi ritrovai a trascorrere sempre più tempo su quella piccola piattaforma esposta al cielo. Era un luogo che ispirava coraggio e volevo dargli vita. Cominciai con le erbe aromatiche – menta, timo e salvia – ammassandole con le radici aggrovigliate in grandi lattine di passata di pomodoro recuperate fuori da una pizzeria. In poche settimane annegai i loro poveri corpi profumati. La domenica mattina presi l’abitudine di uscire presto per dirigermi verso est, al mercato dei fiori di Columbia Road, con una banconota da venti sterline. Compravo ciò che mi piaceva, lo infilavo in un sacchetto e lo portavo a casa in treno solo per torturarlo bonariamente, senza nemmeno rendermene conto. Le piante in offerta da Sainsbury e Lidl mi offrivano la possibilità di sperimentare. Molte morirono, ma altre mi stupirono. Impiegai un po’ per imparare che dovevo toccare il terreno prima di innaffiare, per capire se le piante avevano bisogno di acqua oppure no. In precedenza mi ero limitata a inondare di amore in forma liquida radici già fradice. Esponevo i più teneri germogli alla forza del vento. Quando le piante crescevano alte e spoglie lo consideravo un trionfo, mentre in realtà era una disperata ricerca di luce o nutrimento, e quando producevano un fiore con le ultime energie, per lasciare un seme prima di morire prematuramente, lo lasciavo sbocciare con un misto di orgoglio e meraviglia. Alcune erano veramente belle; ancora adesso mi piace lasciar fiorire la rucola: i suoi fiorellini bianchi e delicati a forma di ruota di mulino sono fra i miei preferiti. Poco prima che sfioriscano li taglio e li aggiungo all’insalata, per godermi la novità del loro lieve sapore nocciolato.

    Nonostante fossi nata in campagna, con due nonni che possedevano serre e orti e che si sfogavano nel trasgredire alle proprie rigide regole morali rubando esemplari vegetali dai parchi protetti dal National Trust, fino a quel momento non mi ero interessata al giardinaggio.

    Non che avessi qualcosa contro la natura: avevo trascorso l’infanzia a girare in bicicletta, esplorare boschi e costruire rifugi segreti. Ma al chiuso c’erano libri da leggere, disegni da colorare, fuggevoli infatuazioni per la creazione di braccialetti e coreografie di danza. A sette anni mi prescrissero gli occhiali e subito per me diventarono un’ossessione: ero una bambina talmente restia a giocare all’aperto che mia madre minacciava di trasferirci tutti in un appartamento senza giardino, finché io non lo feci davvero.

    Più o meno vent’anni dopo, quando quei semi cominciarono a germogliare, il giardinaggio non era particolarmente in voga. All’inizio sembrava la ribellione più patetica del mondo: nessuna conquista nel campo delle droghe o del sesso, soltanto del semplice terreno. Non reggeva il paragone con i locali notturni e i brunch, un weekend lungo a Copenaghen o una vacanza in gruppo a Koh Samui. Dalle persone della mia età ci si aspettavano parecchie cose, spesso in contemporanea – viaggi, lavori creativi, grandi feste, un bell’aspetto e un comportamento sessuale fluido – ma coltivare piante non figurava fra le attività prescritte a livello sociale.

    E perché? Il terreno sotto i nostri piedi era qualcosa di estraneo, al massimo un punto d’appoggio da cui spiccare il volo verso l’allegra stratosfera delle promesse post-millennio. C’erano ben due generazioni a separare noi, nati negli ultimi decenni del Ventesimo secolo e allevati da persone che avevano assistito all’ascesa dei supermercati, da chi aveva coltivato le piante per ottenere nutrimento e svago. Negli anni Novanta i prati davanti alle case non venivano tagliati ma lastricati, e all’interno le piante in vaso venivano sostituite con fiori artificiali e pot pourri. Verande, depositi per le biciclette e infiniti metri di pavimenti in legno per esterni avevano preso il posto delle serre.

    Avevamo imparato le basi dell’economia domestica – cucinare, fare le pulizie e scovare pezzi d’arredamento vintage abbandonati sui marciapiedi – ma quelle della cura della vita vegetale all’aperto avevano perso importanza. Le piante erano diventate superflue: in campagna erano ridotte a sfondo per un ambiente che metteva distanza fra le persone, e quindi ansia. Io anelavo al cemento, al rumore e alla libertà garantita dalla presenza di un negozio aperto ventiquattr’ore su ventiquattro raggiungibile a piedi, e fu quello che andai a cercare. Lo trovai prima a Newcastle, poi per un breve periodo a New York, e infine a Londra, dove immagino mi tratterrò ancora parecchio.

    Comunque, a poco a poco, qualcosa cresceva. A giugno un gelsomino cominciava cautamente ad arrampicarsi su per un tubo di scarico e le foglie del basilico viola spuntavano nonostante lo avessi relegato in un angolino all’ombra. Una pianta di zucchine, ancora nel vasetto da trapianto, era fiorita, anche se quasi subito le muffe impalpabili del mal bianco avrebbero ghermito le sue foglie denutrite (come la maggior parte degli ortaggi, le zucchine hanno bisogno di tutto lo spazio e il nutrimento possibili, e io non avevo dato loro nessuna delle due cose). I piselli odorosi germogliati dai semi comprati a pochi centesimi avevano ricevuto il loro graticcio di canne. Non avrebbero mai prodotto fiori, ma ripensandoci non è un risultato malvagio per una pianta così guardinga. Nell’ultimo periodo mi ero sentita distante dalla vita che stavo conducendo, come se andassi avanti soltanto perché era quello che ci si aspettava da me. Il divertimento, il lavoro, l’amore: era tutto attutito, in un certo senso. E invece avevo trovato qualcosa di autentico nell’entusiasmo per ogni nuova fogliolina che si dispiegava, ogni germoglio che si faceva strada per venire in superficie.

    Mi dedicavo al giardinaggio con un abbandono alimentato da curiosità, piccoli successi e fallimenti disastrosi. Non avevo soldi da investire nei miei esperimenti, perciò mi arrangiavo con ciò che trovavo. Interravo batterie di piante annuali (quelle che spuntano, fioriscono e producono semi nel giro di un anno) in un’accozzaglia di contenitori di recupero: casse di legno, lattine d’olio raccolte sui marciapiedi fuori dai ristoranti indiani, oppure vasi di plastica avanzati rubati nei vivai. La seconda estate feci salire i piselli odorosi lungo un’orrida costruzione a piramide che avevo realizzato legando con lo spago alcuni rami secchi e contorti che avevo trovato nel parco. La terza primavera usai lo stesso spago per fissare una rete metallica al muro di mattoni dell’appartamento e far arrampicare le piante di quell’anno.

    E in effetti si arrampicarono come avevo previsto, anche se spesso con fatica. Non avevo ancora imparato a distinguere fra i vari fertilizzanti, a comprendere la fame delle piante cresciute in vaso o a riconoscere i vantaggi di un nutrimento adeguato. Avevo appena cominciato ad apprendere, per prove ed errori, nonché attraverso una serie di ricerche online dai risultati contraddittori, i primi rudimenti sulla luce, il riparo e lo spazio. Volevo coltivare di tutto e mi imbattei nei limiti gentili della natura solo sbattendoci contro: le bietole non crescono in vaso, ma se spargete un’intera confezione di semi di senape fra le piante, vi armate di ottimismo e riutilizzate la terra, dopo due stagioni, voilà, vedrete comparire le foglie.

    Accumulavo conoscenze come polvere, senza accorgermene e senza tenerne conto, ma ogni giorno sapevo qualcosa di più. Era una condizione fluida ma costante, mutava con le stagioni, si accresceva con i successi e si arrestava con i fallimenti, però non svaniva. E il mio entusiasmo aumentava di pari passo. Ero sempre più attratta dal balcone e da ciò che vi cresceva. Sarebbe rimasto più grigio che verde per anni, eppure in quella collezione raccogliticcia di vasi, vaschette e lattine c’erano esseri viventi che esistevano nello spazio imprecisato fra la biologia e il mio controllo. Indugiavo sulla soglia del balcone, con la fronte appoggiata al vetro, e restavo ferma finché, se faceva freddo, la condensa del mio fiato mi appannava la visuale. Josh mi chiedeva che cosa stessi facendo e io rispondevo sempre nello stesso modo: «Niente, guardo».

    Il balcone per me era diventato una continua fonte di meraviglia, ma rimase uno spazio personale. Gli altri, compreso Josh, a volte uscivano senza scarpe (io tenevo vicino alla porta un paio di orrende ciabatte che mi rifiuto ancora oggi di buttare via), però non sapevano dove mettersi. Mi stavo coltivando una specie di rifugio, senza nemmeno chiedermi perché.

    Nel frattempo, dentro casa Josh prendeva sempre più il sopravvento. A volte venivo colta dall’inquietudine, le pulizie divennero un rituale quotidiano nel tentativo di imporre il mio senso dell’ordine a uno spazio condiviso da due persone. Nei fine settimana dedicavo intere mattinate a ripulire angolini nascosti, nel disperato tentativo di mantenere un ambiente piacevole.

    Fra noi c’erano sempre improvvisi momenti di gioia, nati da anni di consuetudine, in cui arrivavamo a scatenarci in preda a un’allegria infantile, ma le stanze potevano anche trasformarsi in un silenzioso campo di battaglia con opposte strategie fondate su banalità: scarpe nei posti sbagliati o quotidiani vecchi di tre giorni che non raggiungevano mai il cestino. In quei casi, quando l’atmosfera era pesante e litigiosa, l’appartamento sembrava un nido d’aquila in bilico su quella collina che abbracciava tutta Londra dalle finestre. Una specie di gabbia. Guardavo verso il fiume, a est, dove vivevamo prima e dove vivevano ancora i miei amici, e mi chiedevo che cosa mi stavo perdendo.

    Non riuscivo a capire quel senso di delusione. La strana solitudine di abitare così vicino ad altre persone, di osservare le loro vite che scorrevano sugli schermi. Avevo fatto tutto quello che dovevo. Avevo lavorato con il tenace fervore instillato nella nostra generazione per cui contava soltanto l’istruzione, l’istruzione, l’istruzione. Eravamo stati cresciuti in un sistema educativo che trasformava il successo in abitudine e avevamo ottenuto medie quasi perfette e ottime lauree. Ci aspettava però un mercato del lavoro che pretendeva mesi di impegno non retribuito in cambio del vago sentore di una promessa di un impiego più stabile. Io mi ci ero buttata, lavorando, scrivendo e scoprendo rimedi per il doposbronza, tutto nella speranza di una carriera fatta di firme su quotidiani e riviste che nessuno comprava più. Di realizzare il sogno quasi ridicolo di guadagnarmi da vivere con le parole.

    I lavori erano arrivati, alla fine. Ero diventata assistente editoriale in una nuova start-up dalle prospettive eccitanti che mi aveva elargito un portatile e un BlackBerry, strumenti che creavano strani, invisibili tentacoli fra me e l’ufficio. A ventiquattro anni avevo un lavoro che faceva bella figura alle feste – scrivere di cultura e spettacolo per un giornale – e che sotto molti aspetti costituiva la realizzazione di speranze concepite dieci anni prima. Nei periodi buoni mi sembrava di volare: andare ai concerti e ai festival di musica, poi scriverne ed essere pagata per le mie opinioni dettate dalla sindrome dell’impostore. Ma erano le ricompense per la continua fatica di dimostrare che valevo abbastanza e di mandar giù il rifiuto se non mi dimostravo all’altezza. Agli occhi dei miei amici, ce l’avevo fatta. Per i miei colleghi, ero soltanto la nuova arrivata che non si era ancora stufata.

    Tutti quegli spostamenti – dall’adolescenza all’università, alle prime esperienze di lavoro precario – mi avevano portato a trascorrere le giornate dietro una scrivania. Tazze di tè e pranzi alla tastiera e leggeri aumenti di stipendio che mi consentivano di abitare in una città nella quale soltanto chi era veramente ricco poteva permettersi di vivere. La fame che mi aveva spinto fin lì mutò e fu saziata: o sentivo di aver ottenuto i traguardi che desideravo, la firma o l’articolo da prima pagina, o mi sembrava che non ce l’avrei mai fatta. Il lavoro divenne qualcosa che serviva a pagare le sempre più frequenti vacanze per riprenderci, una battaglia quotidiana contro le caselle e-mail strabordanti. Da qualche parte fra la mensa e la tastiera le mie ambizioni si erano ridimensionate. La carriera smise di importarmi così tanto.

    Londra non era più il Santo Graal, bensì un luogo in cui ero dovuta andare per poter lavorare: correvo fra il lavoro e il pub o fra un evento e casa, e mi accorgevo delle sue dimensioni soltanto quando attraversavo il Tamigi e battevo le palpebre davanti a tutte quelle luci. Mi ritrovavo incollata al divano per ore, a guardare programmi spazzatura su Netflix lasciando che si ingoiassero la serata, l’episodio successivo che partiva prima che trovassi la forza di fermarlo. La solitudine mi pulsava dentro come un secondo cuore, sembrava l’unica cosa che non avrei mai potuto confidare a nessuno. Mentre i miei amici andavano alle feste, o a un nuovo appuntamento, o guardavano Netflix come me ma dentro altri computer su altri divani in altri quartieri della città, io affondavo nelle vite fittizie che scorrevano sullo schermo, digitando infiniti messaggi su Twitter, WhatsApp e Instagram, finché le uniche ore che passavo lontana dalla luce di uno schermo divennero quelle in cui dormivo.

    Forse era inevitabile. La mia generazione, cresciuta a magliette Global Hypercolor (quelle che cambiavano tinta con il calore) e puntate di Gladiators, era stata strenuamente incoraggiata a evolversi online piuttosto che all’aperto. Game Boy, PlayStation, Nokia 2210 e un’adolescenza passata a navigare su MSN: erano queste le trappole di plastica per i primi adolescenti inglesi a popolare il cyberspazio, gli ultimi a non esserci cresciuti. Fra quattro mura avevamo imparato da autodidatti a digitare senza guardare la tastiera e a scaricare musica piratata, espandendo le nostre pretese di soddisfazione immediata a ogni allargamento della banda. Le note intermittenti del modem, ripetute ogni volta che suonava il telefono, si erano spente via via che la banda larga raggiungeva le province più remote. Io scoprii di essere stata accettata all’università grazie a un’e-mail dell’UCAS, prima ancora di ritirare i risultati degli esami finali al liceo.

    Il tempo digitale è qualcosa di strano e distorto. Su Twitter le notizie girano in pochi minuti, su Instagram può sembrare che le persone saltino da un paese all’altro. Al lavoro partecipavo a una gara silenziosa con i dipendenti di altre aziende di comunicazione per essere la prima ad annunciare online la stessa informazione nell’area dell’intrattenimento. Si doveva fare tutto per primi, e in fretta. Aver frequentato l’università senza smartphone o wi-fi divenne una specie di scherzo antiquato, come se fossimo stati teletrasportati direttamente dal Medioevo ai nostri device retroilluminati. Quella rapidità aveva accelerato anche altre cose: ero riuscita ad arrivare a metà dei vent’anni in una specie di idillio (un bel fidanzato, una casa piacevole, vacanze degne di Instagram) senza neanche sapere come, a parte il fatto che avevo avuto una fortuna sfacciata.

    Era come se galleggiassimo in uno strano torpore accidentale, che però era gioioso. Si stava bene nella mia vita. Io e Josh seguivamo i rispettivi interessi separatamente, ma senza farne un dramma. Io mi buttai sulle piante, accompagnata dalle sue bonarie prese in giro di sottofondo, però dimostravo altrettanto sdegno per i suoi atteggiamenti da seduttore. La soddisfazione mi soffocava, cancellando i segnali d’allarme, ottundendo il grido delle sirene. Ero sicura del nostro futuro insieme, certa che le nostre vite sarebbero proseguite intrecciate. Josh era sempre lì, semplicemente, e lì sarebbe sempre rimasto. Ci impegnammo in cose che di solito facevano coppie molto più vecchie e stabili: abbonamenti a quotidiani, voli a lunga distanza, pezzi d’arredamento per i quali risparmiavamo ogni centesimo e che poi trattavamo con venerazione. Scherzavamo su come saremmo stati da anziani. In quella vita, con lui, mi sentivo al sicuro. Nella mia testa eravamo una certezza incrollabile.

    Le giornate e le settimane di lavoro possono stagnare o correre come treni. Io mi trovai ad affidarmi al cielo per segnare il passaggio del tempo. La vista dall’appartamento spaziava da Battersea a Canary Wharf, tutto ciò che c’era in mezzo era rimpicciolito dalla mole lucente dello Shard. Anche quello però si ridimensionava sotto i colori dell’aria che lo sovrastava e si trasformava di continuo. Le nuvole si addensavano e le tinte mutavano in uno spettacolo silenzioso che si svolgeva a prescindere da chi lo stesse ammirando. Fu così che imparai a conoscere il percorso del sole sull’orizzonte, giorno dopo giorno, nei fuggevoli momenti dell’alba e del tramonto. Osservare il cielo dal balcone mi permetteva di individuare una versione ancora più minuscola di me stessa in un sistema incredibilmente grande, che funzionava al di fuori del mio controllo.

    La mattina in cui crollò tutto, il cielo era terso, di un azzurro spietato che stagliava le ombre a terra. Lo stavo guardando distrattamente mentre mangiavo i miei cereali quando Josh entrò nella stanza e mi disse che voleva fare una pausa, che avevamo bisogno di staccare. Pochi minuti prima dormivo fra le sue braccia. Era una concatenazione di eventi surreale, inconcepibile. Non riuscivo a metabolizzarla, non volevo farlo. Forse provò a spiegarsi, ma io non lo ricordo. Le sue parole mi arrivavano distorte, come se parlasse sott’acqua. I cereali si ammosciarono, collassarono lentamente sotto le ondate di latte. All’improvviso mi sentii annegare. Quando riemersi per respirare, restò un’unica frase: «Sento che mi sto disinnamorando di te».

    Le ore successive si srotolarono come carta igienica. Il mio corpo avrebbe voluto accasciarsi al suolo e lasciare che la giornata andasse per conto suo e così la successiva, finché quell’orrendo purgatorio si fosse esaurito, ma restai in piedi sostenuta dalla determinazione a funzionare come se nulla fosse accaduto. La difesa da parte della mia generazione dell’apertura, della condivisione delle nostre ansie e della nostra salute mentale era reale soprattutto online. Era molto più radicato il bisogno propulsivo di arrivare, svolgere il lavoro richiesto e uscire tardi con un sorriso. C’erano cose pratiche lavorative da sbrigare e quindi mi accinsi al tremendo compito di portarle a termine – mi rifugiai nella doccia a singhiozzare in preda alla rabbia e alla confusione per concedermi un crollo di pochi minuti – prima di racimolare il coraggio e sforzarmi di fare buon viso a cattivo gioco, come ho continuato a fare, con alterni risultati, per tutto l’anno successivo.

    Non osavo ammettere ciò che stava succedendo. Avrebbe aperto una crepa che non avrei saputo come richiudere. Non era una giornata lavorativa normale, dovevamo girare un filmato nell’appartamento, e quindi dovetti mettere su una faccia da telecamera con la sollecita imperturbabilità della padrona di casa. Ogni volta che un collega mi chiedeva del fidanzato con cui convivevo fingevo, con il sangue che mi pulsava nelle orecchie, che non mi avesse appena lasciato. In pausa pranzo andammo al pub dall’altra parte della strada e mentre gli altri si preoccupavano della maionese e delle forchette sentii che mi si riempivano gli occhi di lacrime. Le ingoiai, sperando che non se ne fosse accorto nessuno. Dentro, ero nel panico. Mi sentivo come se la mia vita fosse caduta in un precipizio e fosse atterrata in una poltiglia sul terreno mentre la guardavo, sapendo che chiedere aiuto sarebbe stato inutile. L’idea di esistere senza di lui che entrava dalla porta e mi salutava era terrificante.

    Fuori c’era ancora luce quando Josh tornò per preparare una piccola valigia e andarsene. Scoprii che non ero amata quanto avevo creduto. E che in realtà andava avanti da un pezzo. Alla fine, faticosamente, ci orientammo verso la decisione di non avere contatti, di concederci un po’ di spazio per capire se volevamo – o potevamo – impegnarci per far funzionare le cose.

    Quando non mi abbandonavo alla paura, derubricavo l’episodio a semplice contrattempo, considerandolo una crisi momentanea, uno strappo necessario nella ricca tessitura che le nostre vite insieme avrebbero formato. Forse dopo qualche anno ci avremmo ripensato, scherzandoci sopra alle cene fra amici e scambiandoci occhiate divertite. Sarebbe stato proprio da noi. Era senza dubbio una prospettiva più logica rispetto alla semplice implosione delle nostre vite. Era una breve interruzione, una pausa, un intervallo dopo il quale ci saremmo ripresi e saremmo diventati una coppia più forte e felice.

    Ma era esattamente quel tipo di negazione che mi aveva portato a stupirmi tanto della sua partenza. Nella mia determinazione a essere tutte le cose contemporaneamente – una giornalista di grido, una ultraventenne brava in tutto e di buona compagnia per una serata, migliore amica adorata, fidanzata di livello avanzato – avevo cominciato a negare che alcune di queste non stavano funzionando, che era impossibile incarnarle tutte allo stesso tempo. Ciò che avevamo sembrava bello sulla carta, sembrava quello che ci avevano insegnato a volere fin da piccoli. Perciò, quando alla fine era arrivato e si era rivelato sbagliato, io avevo silenziosamente deciso di accettare che doveva essere giusto. Mentre Josh si dibatteva dentro i confini della nostra relazione e nella forma sempre più rigida del futuro che credevo avremmo avuto, io mi stavo piano piano staccando dalla realtà.

    L’indomani il cielo era in preda alla confusione. Nuvole scure spinte dal vento sbattevano la pioggia contro le finestre. Mi svegliai nel letto da sola, con la sensazione dell’assenza. Il telefono non suonò. Avrei voluto trovarci qualcosa, un suo messaggio che diceva che era stato tutto un terribile sbaglio. Avevamo sempre comunicato molto via cellulare, svegliarmi per inviare messaggi era un’abitudine che mi portavo fin dall’adolescenza. Con il tempo si era trasformata nell’abitudine a svegliarmi accanto a un altro corpo e poi solo accanto a un lenzuolo tiepido, perché quella persona se ne era andata nell’altra stanza, dove prendeva meglio il wi-fi. Il silenzio era pesante.

    Giugno era diventato freddo e umido e le ore divennero lente e cupe. L’incertezza – non sapere se mi avrebbe ripreso con sé, se sarei andata alla deriva – era insopportabile, nonostante la frequenza con cui cercavo di scacciarla, costruendo infiniti scenari alternativi nella mia mente, fra i quali l’unico soddisfacente era un illusorio annullamento di ciò che era già successo. Iniziai a progettare di lasciare il paese; non riuscivo a pensare di poter vivere a Londra senza di lui. Volevo soltanto sapere che cosa sarebbe accaduto, anche se stavo sul ciglio del baratro a osservare l’abisso di una separazione a tempo indeterminato, e immaginavo un prevedibile futuro fatto di stanze degli ospiti e divani, condivisioni di appartamenti umidi, notti senza senso finite in lacrime, rimpianti e ancora tanta solitudine, la stessa che mi stava devastando il cervello.

    Perché nessuno mi conosceva come Josh. Per mia fortuna avevo amici meravigliosi, ma da tempo avevo imparato a tenerli un po’ a distanza, soprattutto per quanto riguardava la mia relazione. Ero dotata di un orgoglio ostinato ed ero inutilmente votata a salvare le apparenze. Se io e Josh litigavamo – e accadeva sempre più spesso, con sempre più rabbia – non lo dicevo a nessuno. Non era il genere di cosa che faceva bella figura online, non si poteva sintetizzare in una conversazione su WhatsApp.

    Negli anni avevo imparato a sviluppare piani diversi su cui collocare le cose, fra cui la verità e ciò che appariva in pubblico. E in un certo modo la versione che lui preferiva di me era diversa da quella che mostravo ai miei amici: più tranquilla, ragionevole, meno disordinata e meno imbarazzante. Lui mi faceva sentire una persona migliore, anche se quella persona non ero sempre davvero io. Senza di lui, era come se mancasse un intero blocco della mia personalità e il resto di me fosse peggiore.

    Pensai di dovermi punire per aver lasciato che accadesse. Ero convinta di averlo allontanato io, perché mi ero dedicata troppo ad altre cose, alle pulizie o al giardinaggio o alla scrittura, invece che a lui. Non gli avevo dato ciò di cui aveva bisogno. Mi ero lasciata andare. Pensai a tutti i modi possibili per migliorarmi affinché lui mi rivolesse: comprai tacchi assurdamente alti per superare la nostra differenza di altezza e bei vestiti perché di solito mi vedeva soltanto con i pantaloncini da ciclista. Sentivo di poter cambiare per tornare a essere ciò che lui desiderava. In quel periodo così confuso e difficile mi concentrai con tutte le forze sulle questioni pratiche, come se quello fosse un problema che potevo risolvere semplicemente affrontandolo con decisione.

    Nel frattempo le conoscenze di botanica che stavo accumulando da autodidatta finirono nel dimenticatoio. Il giardinaggio mi sembrava ormai un’occupazione futile. Il futuro della nostra

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