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Primi passi: Perché la posizione eretta è stata la chiave dell'evoluzione umana
Primi passi: Perché la posizione eretta è stata la chiave dell'evoluzione umana
Primi passi: Perché la posizione eretta è stata la chiave dell'evoluzione umana
Ebook441 pages6 hours

Primi passi: Perché la posizione eretta è stata la chiave dell'evoluzione umana

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About this ebook

Jeremy DeSilva, noto paleoantropologo ed esperto di anatomia, ci guida in un’esplorazione sorprendente e suggestiva in cui storia, scienza e cultura si intrecciano per spiegare come gli esseri umani siano diventati la specie dominante del pianeta.

La capacità di trasformare una caratteristica anatomica in un racconto appassionante dell’evoluzione umana e l’entusiasmo per il lavoro di ricerca di DeSilva lasceranno i lettori più informati, divertiti e acculturati.” — Publishers Weekly

DeSilva affronta un caso scientifico in quanto esperto della storia evolutiva dell’uomo e delle scimmie... È un’antropologia accessibile, preziosa, pop.” — Kirkus

L’uomo è l’unico mammifero che per spostarsi usa due arti anziché quattro, un sistema di locomozione detto bipedalismo. Camminiamo a testa alta, prendiamo decisioni su due piedi, ci ergiamo contro le ingiustizie, seguiamo le orme di chi ammiriamo e festeggiamo il giorno in cui un bambino si alza e muove i suoi primi passi. Eppure il bipedalismo presenta degli innegabili svantaggi: partorire è più difficile e pericoloso, la nostra velocità nella corsa è inferiore a quella degli altri animali, e siamo soggetti a patologie quali ernie e scoliosi.

Allora perché l’uomo si è evoluto in questa direzione, com’è successo esattamente, e a quale costo? Per rispondere a queste domande, I primi passi ci riporta indietro di sette milioni di anni, alle origini della storia evolutiva dell’uomo, in un viaggio appassionante nel passato della nostra specie. E dimostra come proprio questa caratteristica, insolita e del tutto straordinaria, abbia innescato lo sviluppo di nuove abilità, dall’uso degli arti superiori per costruire e imbracciare strumenti all’invenzione del linguaggio, di fatto aprendo la strada alla nascita di caratteristiche specificamente umane come la compassione, l’empatia e l’altruismo. Partendo dalla psicologia evolutiva per arrivare agli scavi nei siti paleontologici di Africa ed Eurasia, Jeremy DeSilva ci aiuta a comprendere come camminare in posizione eretta ci abbia trasformato, rendendoci l’animale più complesso e potente del pianeta.

LanguageItaliano
Release dateFeb 3, 2022
ISBN9788830536586
Primi passi: Perché la posizione eretta è stata la chiave dell'evoluzione umana

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    Primi passi - Jeremy DeSilva

    NOTA DELL’AUTORE

    Mentre scrivo questa nota nella mia casa di Norwich, nel Vermont, circola sui social un sondaggio in cui si chiede quale carriera hai intrapreso e quale sognavi a sei, dieci, quattordici, sedici e diciott’anni. Le mie risposte sono:

    La paleoantropologia è lo studio dei fossili (paleo) umani (antropologia). È una scienza che pone alcune delle domande più ardite e inquietanti che gli umani abbiano mai osato fare su se stessi e sul mondo che li circonda: Perché siamo qui? Perché siamo fatti in questo modo? Da dove veniamo? Ma la paleoantropologia non è sempre stata la mia vocazione. Anzi, l’ho scoperta solo nel 2000.

    Lavoravo come educatore scientifico nel Museum of Science di Boston. Guadagnavo undici dollari l’ora, George W. Bush aveva vinto le elezioni presidenziali e i Red Sox avevano concluso la loro ottantaduesima stagione consecutiva senza vincere la World Series. Al museo lavorava anche una brillante divulgatrice scientifica, la donna con la risata più contagiosa che avessi mai sentito. Quattro anni più tardi mi rispose di sì quando le chiesi se voleva sposarmi.

    Nel lontano 2000, tuttavia, non pensavo all’amore, ma a un errore madornale che stava sotto gli occhi di chiunque visitasse il museo. Tra le pareti della sala dedicata ai dinosauri era esposta, troppo vicino al Tyrannosaurus rex, una riproduzione in vetroresina di una serie di orme lasciate da esseri umani 3,6 milioni di anni fa a Laetoli, in Tanzania.

    Quelli esposti nel museo non erano modellini giocattolo di animali preistorici – dinosauri, mammut, cavernicoli – e mettere quelle orme accanto a fossili di dinosauro venti volte più antichi poteva far sorgere l’equivoco che esseri umani e dinosauri fossero vissuti nello stesso periodo. Bisognava intervenire.

    Ne parlai con il mio capo – la straordinaria divulgatrice scientifica Lucy Kirshner – e lei concordò sul fatto che quelle orme avrebbero dovuto essere spostate nella nuova espansione del museo, dedicata alla biologia umana. Ma prima voleva che io imparassi tutto quello che c’era da sapere sulle orme di Laetoli e sull’evoluzione del genere umano. Divorai una serie di libri della nostra biblioteca sull’argomento e ne rimasi affascinato. Avevo preso, per così dire, il morbo ominine (gli ominini sono nostri antenati e affini che si sono estinti) e non avrei potuto scegliere un momento migliore: nei due anni successivi vennero scoperti i membri più antichi nell’albero genealogico umano – antenati misteriosi simili a scimmie, con nomi come Ardipithecus, Orrorin e Sahelanthropus.

    Nel luglio del 2002 partecipai a una presentazione nel museo con Laura MacLatchy, allora paleoantropologa alla Boston University (BU). Laura stava spiegando a un pubblico affascinato cosa implicasse la recente scoperta del teschio di un ominine nello stato africano del Ciad. Io ero stordito. Avevo davanti a me una vera paleoantropologa che mi parlava del più antico fossile umano mai trovato.

    I fossili di ominini non sono solo la prova concreta di come si è evoluto il genere umano, ma anche contenitori di storie personali, di straordinarie vite passate. Le orme di Laetoli, per esempio, in quel momento mi erano apparse come un’istantanea della vita di creature che avevano camminato erette, avevano respirato, ragionato, riso, pianto, erano vissute e infine erano morte. Mi venne voglia di capire in che modo gli scienziati riuscivano a estrarre informazioni da quelle antiche ossa. Mi prese il desiderio di raccontare delle storie sui nostri antenati basate su prove scientifiche. Decisi così che volevo diventare un paleoantropologo. Un anno dopo la presentazione di Laura MacLatchy cominciai a frequentare il suo laboratorio di paleoantropologia alla BU, per poi passare all’Università del Michigan.

    Oggi insegno alla facoltà di Antropologia del Dartmouth College, nei boschi del New Hampshire, e vado spesso in Africa per le mie ricerche. Nel corso di un ventennio sono andato in cerca di fossili nelle grotte del Sudafrica e attraverso le regioni aride dell’Uganda e del Kenya. Ho scavato nelle antiche ceneri vulcaniche di Laetoli cercando altre orme lasciate milioni di anni fa dai nostri antenati bipedi. Ho seguito degli scimpanzé selvatici nel loro habitat naturale, la giungla. Ho esaminato da vicino i fossili di piedi e gambe di nostri antenati e loro affini nei musei africani. E mi sono fatto delle domande.

    Domande sui loro grossi cervelli, sulla loro cultura sofisticata e sulle tecnologie che hanno utilizzato. Mi sono chiesto perché parliamo. Perché, come si dice, ci vuole un villaggio per allevare un bambino, e se è sempre stato così. Mi sono chiesto perché partorire è così difficile, e spesso anche pericoloso, per le donne. Mi sono fatto delle domande sulla natura umana, su come possiamo essere sommamente virtuosi e un attimo dopo diventare estremamente violenti. Ma soprattutto mi sono chiesto perché gli esseri umani camminano su due gambe, e non su quattro.

    Ragionando, ho capito che molti di questi argomenti sono collegati, e che l’origine di tutto ciò sta nello strano modo in cui ci spostiamo. Il nostro bipedalismo è alla base di molti dei tratti, unici e peculiari, che ci rendono esseri umani. È stata la svolta cruciale nella nostra evoluzione. Capire queste connessioni richiede un approccio al mondo naturale basato su continue domande e prove concrete. Un metodo che ho adottato quando avevo sei anni: quello della scienza.

    Questo libro è la storia di come camminare eretti ci ha reso esseri umani.

    INTRODUZIONE

    In un vecchio apologo si racconta di un centopiedi a cui viene chiesto quali zampe usa quando si mette in movimento. La domanda lo coglie di sorpresa. Quello che gli era parso un normalissimo modo di spostarsi diventa per lui un problema senza risposta. A quel punto non riesce più a camminare. Ecco, io incontro lo stesso genere di difficoltà quando cerco di spiegare non come, ma perché cammino.¹

    John Hillaby, esploratore

    Il 2016 ha segnato un record di uccisioni nella battuta di caccia che si tiene annualmente per ridurre la crescente popolazione di orsi che vivono liberi nelle zone rurali e intorno ai centri abitati del New Jersey. Dei 636 catturati, 635 sono stati eliminati senza che si levasse un coro di proteste da parte degli amanti degli animali.² Ma quando è stata diffusa la notizia che era stato ucciso un orso in particolare, è scoppiato uno scandalo.³

    Quel gesto venne definito un assassinio e al cacciatore ritenuto colpevole vennero rivolte delle minacce di morte. Alcuni arrivarono a dire che bisognava dare la caccia anche a lui, e ucciderlo. Altri chiesero invece che venisse castrato. Perché scaldarsi tanto per l’abbattimento di un orso?

    Perché camminava su due zampe.

    Dal 2014 diversi abitanti della zona avevano visto quel giovane orso aggirarsi nelle strade di periferia e nel giardino di qualche casa camminando su due zampe – un tipo di locomozione chiamato bipedalismo. Benché si nutrisse stando su quattro zampe, una lesione gli aveva impedito di sviluppare le zampe anteriori, e così si spostava camminando eretto.

    L’avevano chiamato Pedals.

    Non ho mai visto Pedals dal vivo, ma come scienziato affascinato dal modo di camminare della specie a cui appartengo, mi sarebbe piaciuto moltissimo averne la possibilità. Per fortuna ci sono dei video su YouTube. Uno di essi ha più di un milione di visualizzazioni,⁴ un altro più di quattro.⁵

    Al primo sguardo sembra un uomo che indossa una pelliccia, ma quando inizia a muoversi balzano all’occhio le differenze tra la sua andatura e quella di un essere umano. I suoi arti posteriori sono molto più corti dei nostri. Procede a fatica, facendo piccoli passi veloci, con il tronco irrigidito e i piedi artigliati che sfiorano il terreno. La prima volta che lo vidi mi fece pensare a una persona alla disperata ricerca di un gabinetto. Pedals non riusciva a camminare a lungo in quella postura e doveva spesso rimettersi a quattro zampe.

    Siamo attratti dagli animali quando si comportano in modo simile a noi. Postiamo video di capre che urlano come esseri umani e di husky siberiani che ululano: «I love you». Restiamo stupiti nel vedere dei corvi che scivolano giù dai tetti come su uno slittino o degli scimpanzé che si abbracciano. Ci ricordano i legami che abbiamo con il resto della natura. Forse però a colpirci maggiormente sono certe forme di bipedalismo. Moltissimi animali assumono una postura eretta per scrutare l’orizzonte o per assumere un’aria intimidatoria, ma gli umani sono i soli mammiferi che camminano sempre su due gambe. Quando lo fa un animale restiamo come ipnotizzati.

    Nel 2011 si diffuse la notizia che Ambam – un gorilla delle pianure occidentali che viveva nel Palazzo delle scimmie (il gorillarium del Parco degli animali selvatici di Port Lympne, in Inghilterra) – camminava su due zampe.⁶ CBS, NBC e BBC si precipitarono a filmarlo. La mania dei gorilla che camminano su due zampe colpì di nuovo all’inizio del 2018, quando Louis, un grosso maschio dello zoo di Philadelphia, cominciò a camminare su due zampe nel suo recinto perché, a detta di molti, non voleva sporcarsi le mani.⁷

    La cagnolina Faith era nata priva di una zampa anteriore e a sette mesi avevano dovuto amputarle l’altra. Grazie a una famiglia amorevole che usava dei biscottini per indurla a mettersi in piedi, è diventata un ottimo bipede.⁸ È stata portata in visita a migliaia di invalidi di guerra ed è perfino apparsa in una puntata dell’Oprah Winfrey Show.

    Infine, nel 2018 è circolato in rete il video di un polipo bipede⁹ che usava solo due dei suoi tentacoli per correre sul fondo sabbioso del mare.

    La nostra sorpresa nel vedere orsi, cani, gorilla e perfino polipi camminare eretti ci rivela come il bipedalismo sia una prerogativa dell’essere umano. Se un umano cammina su due gambe, è normale. Possiamo dire che è qualcosa di pedestre. Siamo gli unici mammiferi bipedi sulla faccia della Terra, e per diversi buoni motivi.

    Nelle pagine che seguono questi motivi diventeranno chiari. Sarà un viaggio affascinante che ho organizzato come segue.

    Nella prima parte analizzerò cosa ci rivelano i fossili su come si è sviluppata la capacità di camminare eretti nel corso della nostra evoluzione.

    Nella seconda spiegherò come il bipedalismo sia stato il prerequisito di molti cambiamenti che sono diventati prerogative della nostra specie – dalla grandezza del cervello al modo di essere genitori – e come queste ci abbiano permesso di espanderci dalle zone dell’Africa in cui vivevano i nostri antenati, arrivando a popolare l’intero pianeta.

    Nella terza parte esplorerò come i cambiamenti anatomici necessari a camminare in modo efficiente, assumendo la postura eretta, influiscano sulla vita degli esseri umani di oggi – dai primi passi che compiamo da bambini agli acciacchi e ai dolori che ci colpiscono invecchiando.

    Infine, nella conclusione esaminerò come la nostra specie sia riuscita a sopravvivere e a prosperare malgrado gli svantaggi che camminare su due anziché quattro arti inevitabilmente comporta.

    Bene, a questo punto andiamo a fare quattro passi insieme.

    PARTE PRIMA

    Come si è iniziato a camminare eretti

    PERCHÉ LA CLASSICA RAPPRESENTAZIONE DELL’EVOLUZIONE DEL BIPEDALISMO DALLO SCIMPANZÉ ALL’ESSERE UMANO È SBAGLIATA

    Mentre gli altri animali guardano proni alla terra, l’uomo ebbe in dono un viso rivolto verso l’alto e il suo sguardo mira al cielo e si leva verso le stelle.

    Ovidio, Metamorfosi, 8 d.C.¹

    1

    COME CAMMINIAMO

    Camminare è cadere in avanti. Ogni passo è un tuffo interrotto, un crollo evitato, un pericolo scampato. Poste queste premesse, camminare diventa un atto di fede.

    Paul Salopek, giornalista, all’inizio del viaggio di dieci anni e 32.000 chilometri sulle orme dei nostri antichi progenitori, dall’Africa agli estremi confini della Terra, dicembre 2013²

    Diciamocelo chiaramente: noi esseri umani siamo strani. Pur essendo dei mammiferi, abbiamo pochi peli. Se gli altri animali comunicano, noi parliamo. Gli altri ansimano, noi sudiamo. Abbiamo un cervello eccezionalmente grande per il corpo di cui siamo dotati, e abbiamo sviluppato culture complesse. Ma la cosa più strana, probabilmente, è che noi umani ci spostiamo appollaiati su due arti posteriori perfettamente sviluppati.

    I resti fossili indicano che i nostri antenati iniziarono a camminare su due gambe molto prima di avere sviluppato altre caratteristiche peculiari dell’essere umano, come la grandezza del cervello e il linguaggio. Camminare su due gambe ha dato inizio alla nostra progenie e a un’evoluzione dalle caratteristiche uniche poco dopo che le scimmie antropomorfe da cui discendiamo si sono staccate dal ramo evolutivo degli scimpanzé.

    Anche Platone ha riconosciuto l’unicità e l’importanza del camminare eretti, definendo l’uomo un animale con due piedi e privo di piume. Secondo la leggenda, Diogene il Cinico non gradì questa descrizione; tenendo in mano un pollo spennato, si recò da Platone e gli disse con disprezzo: «Eccoti il tuo uomo». Platone rispose modificando la sua definizione con l’aggiunta: privo di piume e dalle unghie piatte. Ma non rinnegò il bipedalismo.

    Da allora il bipedalismo è entrato a far parte del nostro vocabolario, delle nostre espressioni, e dei nostri passatempi.³ Pensiamo ai molti modi con cui descriviamo l’azione di camminare: andare, arrancare, avanzare, barcollare, deambulare, incedere, marciare, passeggiare, procedere, sgambettare... Chi è lento cammina come una lumaca e chi è autonomo cammina sulle proprie gambe. Gli eroi camminano sull’acqua mentre i geni camminano a un metro da terra. Per umanizzare i personaggi dei cartoni animati, gli illustratori li fanno camminare eretti su due gambe. Topolino, Bugs Bunny, Pippo, Snoopy, Winnie the Pooh, Spongebob e Brian (il cane della famiglia Griffin), sono tutti bipedi.

    Nel corso della vita una persona non disabile fa in media circa 150 milioni di passi – quanto basta a compiere tre volte il giro della Terra.

    Ma cos’è il bipedalismo? E come lo mettiamo in atto?

    I ricercatori descrivono spesso questo modo di camminare come una caduta controllata. Quando solleviamo una gamba, la forza di gravità prende il sopravvento spingendoci in avanti e verso il basso. Ovviamente non vogliamo cadere spiattellandoci la faccia e così ci riprendiamo stendendo in avanti la gamba e piantando il piede al suolo. In quell’istante il nostro corpo è fisicamente più basso che all’inizio del movimento e quindi abbiamo bisogno di tirarci di nuovo dritti. I muscoli del polpaccio si contraggono e risollevano il nostro baricentro. A quel punto solleviamo l’altra gamba, la spingiamo in avanti e cadiamo di nuovo. Come ha scritto il primatologo John Napier nel 1967: Camminare è un’attività unica e straordinaria, durante la quale il corpo, passo dopo passo, vacilla sull’orlo della catastrofe.

    La prossima volta che guardate una persona di profilo mentre cammina, notate come la testa si flette in avanti e si rialza a ogni passo. Questa specie di onda caratterizza la nostra camminata in quanto caduta controllata.

    Ovviamente camminare non è così macchinoso, e non è così semplice. Volendo usare per un momento un linguaggio tecnico, quando solleviamo il baricentro contraendo i muscoli della gamba immagazziniamo energia potenziale. Nel momento in cui la forza di gravità prende il sopravvento e ci spinge in avanti, converte quell’energia potenziale in energia cinetica, o movimento. Sfruttando la gravità, risparmiamo il sessantacinque per cento dell’energia.⁶ Questo andirivieni di energia potenziale ed energia cinetica è uguale al funzionamento del pendolo. Si può pensare al nostro camminare in questo modo – come un pendolo invertito, una sorta di metronomo.

    È molto diverso dal modo in cui camminano gli altri animali quando si rizzano sugli arti posteriori? Ebbene, la risposta è sì.

    Durante il mio dottorato ho trascorso un mese con degli scimpanzé allo stato brado nel Parco nazionale di Kibale, in Uganda. È lì che ho conosciuto Berg. Era un imponente esemplare maschio della insolitamente numerosa, circa 150 individui, comunità di scimpanzé Ngogo. Era piuttosto anziano, il pelo sulla testa si stava leggermente ritirando e il manto nero era punteggiato di macchie grigie sui polpacci e sul dorso. Berg non era un maschio di grado elevato, ma ogni tanto aveva un rigurgito di testosterone, gli si gonfiava il pelo ed emetteva un grido affannoso e potente, che rimbombava per tutta la foresta. In quei momenti, per un essere umano era meglio non trovarsi nelle sue vicinanze.

    Berg raccoglieva un ramo dal suolo o ne strappava uno da un albero, assumeva una postura eretta e camminava nel sottobosco su due zampe. Ma non si muoveva come noi. Teneva le ginocchia e le anche piegate – la comica camminata rannicchiata di Groucho in Un giorno alle corse e in altri film dei fratelli Marx. Incapace di stare in equilibrio su una gamba sola, Berg oscillava mentre avanzava sgraziatamente e rumorosamente nella foresta. Era un modo di spostarsi molto dispendioso dal punto di vista energetico, e infatti il nostro amico si stancava in fretta, cadendo sulle quattro zampe dopo una decina di passi.

    Gli esseri umani, viceversa, non stanno rannicchiati. Stiamo eretti con le ginocchia e le anche tese. I nostri quadricipiti non devono fare lo stesso sforzo degli scimpanzé che camminano con le gambe piegate. I muscoli sui lati delle anche ci permettono di stare in equilibrio su una gamba sola senza cadere. Camminiamo con grazia e in un modo più efficiente, a livello energetico, di Berg.

    Ma perché si sono prodotti questi cambiamenti nella nostra anatomia? E come si è sviluppata questa forma inusuale di locomozione?

    Iniziamo il nostro viaggio dall’analisi del bipedalismo nell’essere umano più veloce del pianeta. Nel 2009, il velocista giamaicano Usain Bolt ha stabilito il record mondiale dei centro metri con il tempo di 9,58 secondi.⁷ Tra i sessanta e gli ottanta metri ha mantenuto una velocità massima di circa 45 km/h per 1,5 secondi. Ma se lo mettiamo a confronto con altri mammiferi del regno animale, questo mostro di velocità è pateticamente lento.

    Il ghepardo, il più veloce mammifero terrestre, supera i 95 chilometri orari.⁸ In genere non caccia l’uomo, ma i leoni e i leopardi, che a volte lo fanno, raggiungono gli 85 km/h. Mentre le loro prede, incluse le zebre e le antilopi, possono sottrarsi alle loro voraci mascelle correndo a 80-85 km/h. In altre parole, la lotta predatore-preda in Africa avviene a non meno di ottanta chilometri l’ora. È questa la velocità che raggiunge la maggior parte dei predatori, e la velocità a cui la maggior parte delle prede cerca di salvarsi. Tranne noi.

    Usain Bolt non sarebbe mai sfuggito a un leopardo, così come non sarebbe mai stato capace di catturare una lepre. Un’antilope corre quasi al doppio della velocità raggiunta dall’essere umano più veloce del pianeta. Muovendoci su due gambe anziché quattro arti, abbiamo perso la capacità di galoppare, diventando straordinariamente lenti e vulnerabili.

    Il bipedalismo rende anche in qualche modo instabile la nostra camminata. A volte quell’aggraziata caduta controllata non è per niente controllata. Secondo l’U.S. Centers for Disease Control and Prevention delle malattie americano, ogni anno più di 35.000 cittadini statunitensi muoiono in seguito a una caduta – circa lo stesso numero di morti causati dagli incidenti stradali.⁹ Quante volte avete visto un quadrupede – uno scoiattolo, un cane o un gatto – inciampare e cadere?

    Essere lenti e instabili sembra il modo migliore per estinguersi, soprattutto considerando il fatto che i nostri antenati condividevano il territorio con i veloci e affamati antenati dei leoni, dei leopardi e delle iene di oggi. Eppure siamo qui, e quindi devono sicuramente esserci più vantaggi che svantaggi nel bipedalismo. Il grande regista cinematografico Stanley Kubrick pensava di sapere quali sono.

    Nel suo film 2001: Odissea nello spazio (1968), un gruppo di scimmie antropomorfe si raduna intorno a uno specchio d’acqua nell’arida savana africana. Una di loro guarda incuriosita un osso che giace sul terreno. Lo raccoglie, lo impugna come fosse una mazza e batte delicatamente le ossa sparse intorno. Le note di Also sprach Zarathustra di Richard Strauss (1896) cominciano a risuonare. Corni: dah, dahhh, dahhhhh, DAH-DAH! Grancassa: dum-dum, dum-dum, dum-dum, dum. La scimmia immagina di brandire l’osso come uno strumento – un’arma per uccidere. Si alza in piedi e sbatte l’arma al suolo, mandando in frantumi le ossa sul terreno e, simbolicamente, uccidendo un avversario per procurarsi del cibo. È così che Kubrick ha immaginato l’alba dell’umanità. Con il cosceneggiatore Arthur C. Clarke, il regista ha messo in scena quella che allora era la teoria più diffusa sulle origini del genere umano e su come abbia iniziato a camminare eretto.

    È una teoria ancora in voga, ma è quasi sicuramente sbagliata. Suppone infatti che il bipedalismo si sia sviluppato nella savana per liberare le mani in modo da poter impugnare delle armi. In questo senso postula che gli umani siano, da sempre, violenti. Sono idee che risalgono a Darwin.

    L’origine delle specie (1859) di Charles Darwin è uno dei libri più importanti che siano mai stati scritti. Darwin non ha inventato l’evoluzione; i naturalisti discutevano da tempo sulla variabilità delle specie. Il suo contributo fondamentale è stato quello di presentare un meccanismo verificabile di come le varie popolazioni sono cambiate, e continuano a cambiare, nel tempo. Chiamò questo meccanismo selezione naturale, anche se molti di noi lo conoscono come sopravvivenza del più forte. Più di centocinquant’anni dopo, è ancora chiaro come la selezione naturale sia una potente spinta per l’evoluzione.

    Fin dal principio gli scettici hanno ritenuto scandalosa l’idea che l’essere umano discendesse dalle scimmie, ma nel suo libro Darwin non ha scritto quasi nulla sull’evoluzione della nostra specie.¹⁰ Ha solo scritto, nella penultima pagina: Molta luce sarà fatta sull’origine dell’uomo e sulla sua storia.¹¹

    Tuttavia, Darwin stava riflettendo anche sull’essere umano. Dodici anni dopo, nel suo L’origine dell’uomo e la selezione sessuale (1871), ipotizzò che gli esseri umani possiedono diversi caratteri correlati. Affermò che siamo gli unici primati che usano degli utensili. Oggi sappiamo quanto si sbagliasse, ma Jane Goodall ha osservato gli scimpanzé del Parco nazionale del Gombe Stream, in Tanzania, costruire e utilizzare utensili solo novant’anni più tardi. Tuttavia, Darwin aveva correttamente supposto che gli umani sono gli unici primati completamente bipedi, e che hanno dei canini, le nostre zanne, insolitamente piccoli.

    Secondo Darwin, questi tre attributi dell’essere umano – uso di utensili, bipedalismo e canini piccoli – sono collegati tra loro. Nella sua concezione, gli individui che si muovevano su due gambe potevano liberare le mani per utilizzare degli utensili. Grazie agli utensili, non avevano più bisogno di grossi canini per competere con i rivali. E alla fine, secondo Darwin, questa serie di cambiamenti ha portato a un ingrandimento del cervello.

    Tutte ipotesi elaborate senza avere a disposizione alcuni dati cruciali, in particolare: i resoconti di prima mano sul comportamento delle scimmie antropomorfe avrebbero iniziato a essere accessibili solo un secolo dopo. Inoltre, nel 1871 non era stato ancora rinvenuto un solo fossile di essere umano dei primordi nel continente africano – il luogo dove origina la nostra linea evolutiva, in base a quanto sappiamo oggi, e come Darwin ha presagito un secolo e mezzo fa.¹² Gli unici fossili umani premoderni noti a Darwin erano alcune ossa di Homo neanderthalensis rinvenute in Germania ed erroneamente considerate da molti studiosi dell’epoca come appartenenti a un Homo sapiens affetto da qualche malattia.¹³

    Senza poter contare su una documentazione fossile o su osservazioni accurate del comportamento delle scimmie antropomorfe a noi più affini, Darwin fece il meglio che poté per formulare una teoria del nostro bipedalismo basata su prove scientifiche.

    I dati necessari a verificare la sua ipotesi hanno iniziato ad apparire nel 1924, quando un giovane professore australiano di nome Raymond Dart, studioso del cervello presso l’Università del Witwatersrand in Sudafrica, ricevette una cassa di pietre provenienti da una cava vicino alla città di Taung, circa cinquecento chilometri a sud di Johannesburg.¹⁴ Dart aprì la cassa e notò che una delle pietre conteneva il cranio fossilizzato di un giovane primate. Usando un ferro da calza di sua moglie, estrasse il cranio dal calcare in cui era incastrato. Nel farlo, si accorse che il cranio apparteneva a uno strano primate. Innanzitutto il Bambino di Taung, come sarebbe stato poi chiamato, aveva dei canini sottili, diversi da quelli dei babbuini e delle scimmie antropomorfe. Le indicazioni più importanti, tuttavia, si nascondevano nel cervello fossilizzato del bambino.

    In genere, la prima cosa che spero di trovare nelle mie ricerche sono le ossa dei piedi e delle gambe, ma devo ammettere che da un punto di vista storico, oltre che estetico, nessun fossile eguaglia il cranio del Bambino di Taung. Nel 2007 sono andato a Johannesburg per esaminarlo. Il fossile è conservato dal mio amico Bernhard Zipfel, un ex podologo divenuto paleoantropologo perché si era stancato di curare borsiti dell’alluce. Una mattina andò a prendere una piccola scatola di legno in cantina. Era la stessa che Dart aveva usato per metterci il suo prezioso reperto un centinaio d’anni prima. Zipfel estrasse delicatamente il cervello fossilizzato e me lo mise in mano.¹⁵

    Quando quel piccolo ominine era morto, il cervello aveva iniziato a decomporsi e il fango aveva riempito il cranio. Nel corso dei millenni, quel sedimento si è indurito formando un endocast (il calco interno di un oggetto cavo), cioè una replica del cervello che riproduce fedelmente la misura e la forma dell’originale, mantenendo perfino i dettagli delle circonvoluzioni, delle scissure e delle arterie cerebrali esterne. Il dettaglio anatomico è perfetto. Mi rigirai attentamente il cervello fossile tra le mani e scoprii uno spesso strato di calcite scintillante. La luce rimbalzava come se fosse un geode, non un fossile umano. Non mi ero aspettato che Taung potesse essere così bello.

    Il fatto che si fossero preservate le circonvoluzioni e le scissure era uno straordinario colpo di fortuna, perché Dart conosceva l’anatomia del cervello come nessun altro al mondo. Dopotutto, era un neuroanatomista. Grazie ai suoi studi, scoprì che il cervello del Bambino di Taung aveva le dimensioni di quello di una scimmia antropomorfa adulta, ma aveva i lobi organizzati in modo più simile a un cervello umano.

    L’endocast combaciava alla perfezione, come la tessera di un puzzle, con l’interno del cranio di Taung. Lo girai lentamente in modo da scrutare nelle orbite oculari di quel bambino di due milioni e mezzo di anni fa.¹⁶ Era come guardare negli occhi un antico ominine. Quando capovolsi il cervello per esaminare la superficie inferiore, vidi quello che Dart aveva osservato nel 1924. Il foro occipitale – il foro attraverso cui passa il midollo spinale – si trovava esattamente sotto il cervello, come negli umani. Da vivo, il Bambino di Taung aveva la testa in cima a una spina dorsale verticale.

    In altre parole, Taung era un bipede. Nel 1925, Dart dichiarò che quel cranio fossilizzato apparteneva a una specie ancora sconosciuta alla scienza. La chiamò Australopithecus africanus, cioè scimmia antropomorfa africana dell’emisfero australe, seguendo il modo tradizionale con cui gli scienziati classificano e chiamano gli animali in base al genere e alla specie.¹⁷ I cani domestici, per esempio, sono tutti membri della stessa specie, ma fanno anche parte di un gruppo più grande, o genere, di animali affini, che include i lupi, i coyote e gli sciacalli. Tutti i membri di questo genere fanno a loro volta parte di un gruppo più grande, detto famiglia, con cui hanno un più lontano grado di parentela. Questa famiglia comprende cani selvatici, volpi e molte specie di carnivori simili al lupo ormai estinti.

    Noi e i nostri antenati siamo classificati nell’identico modo. Gli esseri umani di oggi sono tutti membri di una stessa specie, ma sono anche gli unici sopravvissuti di un genere che un tempo comprendeva altri gruppi di esseri simili a noi, come i Neanderthal. Il nostro genere, Homo, che ha fatto la sua comparsa circa 2,5 milioni di anni fa, si è evoluto da una specie che faceva parte di un altro genere, l’Australopithecus. Tutti i membri dei generi Homo e Australopithecus, a loro volta, sono ominidi, il nome di una famiglia di animali imparentati che include molte delle grandi scimmie antropomorfe ancora esistenti o estinte, come gli scimpanzé, i bonobo e i gorilla.

    Ci si riferisce agli animali usando il nome del loro genere di appartenenza seguito da quello della specie. Per esempio, un essere umano è un Homo sapiens, un cane è un Canis familiaris, e il Bambino di Taung è un Australopithecus africanus.

    Più importante del nome, tuttavia, è l’interpretazione del fossile fornita da Dart: ipotizzò infatti che non appartenesse a un prototipo di scimpanzé o di gorilla, ma di un parente estinto dell’essere umano.

    Mentre la comunità scientifica discuteva dell’importanza della scoperta di Taung, un altro paleontologo sudafricano, Robert Broom, andava in cerca di fossili di Australopithecus nelle grotte a nordovest di Johannesburg, in un’area oggi nota come Culla dell’umanità. Erano gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso e Broom abbatteva le pareti rocciose con la dinamite. Poi esaminava le macerie e cercava i resti dei nostri antenati. Ci sono ancora grandi cumuli di quelle macerie – con molti pezzi che contengono fossili – all’ingresso delle grotte. Sono chiamati i cumuli di Broom.

    Oggi i paleoantropologi fremono d’orrore di fronte a un metodo così rude, ma Broom scoprì dozzine di fossili di due tipi diversi di ominini. Uno, che chiamò Paranthropus robustus, aveva grandi denti e punti di fissaggio ossei per enormi muscoli della masticazione. L’altro era un tipo più snello, con denti e muscoli della masticazione più piccoli, e sembrava corrispondere all’Australopithecus africanus di Dart.

    In una grotta chiamata Sterkfontein, Broom rinvenne una colonna vertebrale fossilizzata, un bacino e due ossa del ginocchio, che dimostravano come l’Australopithecus africanus camminasse su due gambe. Grazie alla tecnica di datazione radiometrica dell’uranio intrappolato nella roccia della grotta, oggi sappiamo che quei fossili hanno tra i 2 e i 2,6 milioni di anni.¹⁸

    Nel frattempo, Dart stava scavando in cerca di fossili nella grotta di Makapansgat, a nordest della Culla dell’umanità. E lì scoprì un piccolo gruppo di fossili umani piuttosto diversi dal suo prezioso Bambino di Taung, tanto che diede loro il nome di una nuova specie. Chiamò l’ominine di Makapansgat Australopithecus prometheus, dal nome del titano greco responsabile di aver portato il fuoco all’umanità. Infatti, molte delle ossa di animali fossilizzate rinvenute intorno ai fossili umani erano carbonizzate e sembrava che fossero state volutamente bruciate.¹⁹

    Oltre a ciò, Dart scoprì qualcosa di particolare sui fossili animali. Le ossa erano state fatte a pezzi. Dei femori di grandi antilopi erano stati rotti per renderli taglienti come un pugnale. Le mascelle erano spezzate in modo da trasformarle in utensili taglienti. Dart trovò anche delle corna di antilope che potevano essere impugnate e usate come armi. Sparse nella grotta di Makapansgat c’erano dozzine di crani di antilopi e babbuini fatti a pezzi – apparentemente vittime di uno scontro violento con un Australopithecus.

    Nel 1949 Dart pubblicò i risultati delle sue scoperte: ipotizzava che l’Australopithecus avesse sviluppato una cultura poi chiamata osteodontocheratica – una combinazione delle parole greche che significano osso, dente e corno.²⁰ Approfondendo le idee di Darwin, Dart ipotizzò che gli inventori di tale cultura usassero quelle armi per attaccare altri animali o combattersi tra loro.

    Prima di lavorare nell’Università del Witwatersrand, Dart era stato medico nell’esercito australiano. Aveva trascorso gran parte del 1918 in Inghilterra e in Francia, spettatore dell’ultimo anno della Prima guerra mondiale.²¹ Probabilmente aveva dovuto curare soldati con ferite di arma da fuoco e polmoni infiammati dall’iprite. Vent’anni dopo, Dart fu nuovamente spettatore di un mondo che andava in fiamme. Non c’è da meravigliarsi che, dopo essere stato testimone di due guerre mondiali, sia giunto alla conclusione che l’essere umano aveva origini violente e credette di averlo provato grazie a ciò che aveva trovato a Makapansgat.

    Le teorie di Dart sulla violenza dell’essere umano e sull’origine del camminare eretti sono state divulgate da Robert Ardrey nel bestseller African Genesis, uscito nel 1961.²² E solo sette anni più tardi le scimmie-uomini di Kubrick spaccavano ossa sulle note di Also sprach Zarathustra di Richard Strauss. Un ex studente di Dart, Phillip Tobias, era presente sul set di 2001: Odissea nello spazio, dove dirigeva gli attori travestiti da scimmie perché si muovessero come dei violenti Australopithecus.²³

    Nel frattempo, in un laboratorio del Ditsong Museum of Natural History di Pretoria, in Sudafrica, le idee di Dart venivano confutate.

    Charles Kimberlin Bob Brain era un giovane scienziato con un occhio di falco per i dettagli. Negli anni Sessanta riprese in esame alcuni degli utensili di Dart e scoprì che si trattava di ossa danneggiate o spezzate da potenti mascelle di leopardi o di iene. Si rese quindi conto che Dart aveva interpretato quei fossili in modo scorretto. Non erano ossa deliberatamente fatte a pezzi dai primi essere umani.

    Inoltre, scoprì che le ossa di animali carbonizzate erano state bruciate in un incendio, prima che un nubifragio le trasportasse dentro la grotta di Makapansgat, dove si erano fossilizzate. L’Australopithecus prometheus non aveva portato il fuoco all’umanità. Perdipiù, tra l’Australopithecus prometheus e l’Australopithecus africanus gli scienziati non trovarono differenze anatomiche tali da poterli definire due specie diverse.²⁴ Così il prometheus venne assorbito nell’africanus.²⁵

    Nel frattempo, Brain aveva ripreso gli scavi iniziati anni prima da Broom in una grotta chiamata Swartkrans, nella Culla dell’umanità. E qui trovò un frammento del cranio di un

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