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La dea della luce e altri racconti. Antologia di racconti di fantascienza
La dea della luce e altri racconti. Antologia di racconti di fantascienza
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La dea della luce e altri racconti. Antologia di racconti di fantascienza

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Come cambia la vita di un ragazzino di quattordici anni, in un sobborgo di una cittadina americana degli anni '80, nel momento in cui entra in contatto con una remota intelligenza cosmica? Cosa succede nel cervello di un robot, divenuto autocosciente, quando per la prima volta sperimenta cosa sia la paura? In cosa consiste la missione di esplorazione lunare che gli umani gli hanno assegnato? E soprattutto, cosa si nasconde in un cratere della faccia visibile della Luna, tanto importante da poter cambiare per sempre il futuro della civiltà umana? Siamo davvero la specie più evoluta del pianeta? Che ne è stato delle forme di vita che dominavano un tempo i mari e le terre emerse del nostro mondo? Dai viaggi nel tempo e nello spazio all'intelligenza artificiale, dai contatti con le civiltà extraterrestri agli universi paralleli, in questa antologia di dieci racconti l'autore ci fornisce una personale interpretazione di alcuni fra i temi più ricorrenti nella narrativa di fantascienza, mostrandoci come stili e tematiche del genere possano conservare ancora oggi il loro fascino e la loro attrattiva.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJan 7, 2022
ISBN9791220379946
La dea della luce e altri racconti. Antologia di racconti di fantascienza

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    La dea della luce e altri racconti. Antologia di racconti di fantascienza - Victor Hayden Phillips

    AUTOCOSCIENZA

    La prima sensazione che K19 iniziò a provare, non appena si rese conto di essere diventato autocosciente, fu una profonda ed irrazionale paura.

    In quel suo nuovo stato di coscienza, era consapevole di non essere una forma di vita biologica, né tantomeno un essere umano. K19 sapeva di essere soltanto un robot, dotato di una rudimentale forma di intelligenza artificiale implementata in un cervello elettronico, che era solo uno dei tanti componenti elettronici e meccanici che formavano il suo corpo. Eppure, nonostante tutto ciò, la paura che K19 stava provando era per lui reale e tangibile, come lo sarebbe stato per un qualunque animale che si sentisse minacciato da un predatore.

    Come posso provare paura, se la mia natura non mi consente di provare emozioni? pensò.

    Nella sua memoria gli scienziati del progetto avevano immagazzinato solo i suoi programmi operativi, ma attraverso una connessione esterna alla rete dei computer della missione, K19 era stato in grado di acquisire molte altre informazioni. Sapeva di trovarsi in una installazione sotterranea dell'agenzia spaziale americana, la cui posizione era nota solo agli alti ufficiali e agli scienziati che lavoravano al progetto. Ma pur essendo consapevole di quanto stesse accadendo intorno a lui, del motivo per cui si trovasse lì, e di quale fosse la sua missione, K19 non riusciva a spiegarsi quella sensazione di imminente pericolo, che teneva stretta la sua mente come una dolorosa morsa.

    Il fatto che un robot avesse paura di essere sparato nello spazio, a bordo di un razzo che in poche ore lo avrebbe condotto sulla Luna, non era una cosa normale. Ne era consapevole. Nulla di simile era mai successo, o avrebbe potuto accadere, ad una sonda spaziale prima o dopo il decollo alla volta di Giove o Saturno. O forse era già successo, senza che nulla fosse mai stato messo agli atti da parte della comunità scientifica. Forse, il cervello elettronico del quale erano dotate le sonde inviate nello spazio nelle precedenti missioni era troppo primitivo, o troppo poco complesso, per essere in grado di sviluppare una forma di autocoscienza simile a quella da lui raggiunta. O forse era già accaduto, ma nessuno se ne era mai accorto, solo perché quelle primitive forme di intelligenza artificiale non erano state in grado di comunicare ai loro creatori umani il loro dramma interiore. K19 non poteva saperlo.

    La missione di esplorazione spaziale per la quale K19 era stato costruito faceva parte di un programma militare finanziato dal governo degli Stati Uniti, in risposta ai progetti analoghi sviluppati dalle altre superpotenze del pianeta.

    Nella seconda metà del ventesimo secolo le tensioni fra le superpotenze mondiali, logorate da una crisi energetica che durava ormai da decenni, avevano raggiunto una pericolosa escalation. Il rapido esaurimento delle risorse energetiche aveva portato le principali potenze militari del pianeta Terra alla disperata ricerca degli ultimi giacimenti di minerali e petrolio ancora disponibili nel sottosuolo terrestre.

    Quando al di sotto del circolo polare Artico erano stati scoperti nuovi importanti giacimenti di minerali, petrolio, elementi rari e gas naturali, la Russia e la Cina avevano iniziato la loro corsa per contendersi quei territori, limitandosi dapprima alla costruzione di nuove installazioni delle compagnie petrolifere e minerarie, per garantire la supremazia dei loro partners commerciali. Poi, quando la contesa delle risorse aveva dato inizio ad una serie di incidenti diplomatici fra i due paesi, chiamando in causa gli esperti di diritto internazionale, gli eserciti di Cina e Russia avevano iniziato a intensificare la loro presenza militare nell'Artico, dislocando un ingente quantitativo di mezzi e di truppe lungo il perimetro delle aree delle quali rivendicavano il possesso. In quel frangente, anche gli Stati Uniti avevano fatto la loro parte nella contesa dell'Artico, iniziando a schierare la loro flotta di bombardieri strategici nelle basi della Norvegia, giusto per ricordare ai due contendenti chi dovesse essere a condurre la partita.

    Mentre quel delicato scenario di relazioni internazionali si faceva sempre più complicato, l'attenzione del genere umano venne ad un tratto rivolta verso la Luna.

    Dopo che i telescopi puntati verso il satellite naturale della Terra avevano osservato per diversi secondi uno strano brillamento luminoso in un punto all'interno del cratere Langrenus, sulla faccia visibile della Luna, era iniziata una inspiegabile attività di natura elettromagnetica sulla superficie lunare. Uno strano segnale radio intermittente, simile a quello emesso da un radiofaro, era stato intercettato da tutte le stazioni radio del pianeta, e aveva continuato a diffondersi nei mesi successivi.

    Gli scienziati di tutte le nazioni della Terra avevano iniziato a studiare il fenomeno, facendo centinaia di fotografie del cratere e di registrazioni dello spettro elettromagnetico di quel segnale. Nessuno fu in grado di determinare l'origine di quel misterioso fenomeno, né di cosa si trattasse.

    L'unica cosa sulla quale i membri della comunità scientifica si trovarono tutti d'accordo fu il fatto che quella intensa attività elettromagnetica non potesse essere di origine naturale, e che l’oggetto in grado di generarla non fosse di origine terrestre.

    A quel punto, molte furono le congetture nelle quali si lanciarono gli esponenti della comunità scientifica. Qualcuno sosteneva che potesse trattarsi di un'arma di qualche tipo, lasciata sulla Luna da una civiltà extraterrestre. Altri fecero l'ipotesi che potesse essere un veicolo spaziale di origine aliena, frutto di una tecnologia capace di creare una sorgente energetica di enorme potenza, e che quel radiofaro potesse essere un segnale di soccorso.

    Gli scienziati dell'intelligence militare erano convinti che la nazione che per prima fosse riuscita ad impadronirsi dei segreti tecnologici di quella incredibile fonte di energia, avrebbe di seguito assunto un ruolo dominante nel controllo dello scacchiere internazionale. Di conseguenza, non ci volle molto prima che i governi delle principali superpotenze arrivassero alla conclusione che fosse necessario lanciare al più presto una missione spaziale verso la Luna, allo scopo di studiare, e possibilmente recuperare, quel dispositivo sconosciuto in grado di generare una simile potenza.

    E così, proprio nel periodo in cui le economie mondiali erano in profonda sofferenza a causa della recessione economica su scala globale, le principali potenze mondiali si erano lanciate in una nuova corsa allo spazio. Le missioni spaziali che India, Cina e Russia si apprestavano a preparare in brevissimo tempo non prevedevano un equipaggio umano. Ogni nazione aveva quindi iniziato la realizzazione di un prototipo di sonda robot, il cui compito era quello di esplorare il cratere Langrenus alla ricerca di quella misteriosa fonte energetica. I governi non avrebbero esitato a spendere miliardi al solo scopo di riportare sulla Terra i segreti di una tecnologia che avrebbe potuto cambiare definitivamente le sorti della razza umana.

    Nei mesi successivi, Cina e Russia avevano per primi iniziato la costruzione dei loro robot sonda, e del razzo vettore che li avrebbe portati a destinazione. I consulenti militari dei vari progetti avevano fatto pressioni affinché i robot fossero dotati di armamenti, missili o cannoni, nell'eventualità in cui una volta giunti a destinazione sulla Luna si fossero trovati a fronteggiare il pericolo di una minaccia di qualche genere. Il fatto che questa ipotetica minaccia potesse essere costituita da un artefatto di origine aliena, piuttosto che da uno dei robot delle altre potenze in competizione, per loro non faceva molta differenza.

    La Cina era riuscita per prima a lanciare il suo razzo con successo, battendo sul tempo tutti gli altri avversari. Le preoccupazioni degli esponenti della intelligence militare cinese, che temevano che il loro razzo potesse essere abbattuto in fase di decollo da qualche arma antimissile russa, furono smentite da un decollo perfetto.

    Le successive fasi della missione si erano svolte perfettamente secondo i piani, portando con successo il razzo cinese nell'orbita lunare. Poi il modulo di atterraggio era sceso sulla superficie del satellite con uno spettacolare allunaggio, posandosi intatto sul fondo del cratere Langrenus.

    Una volta giunta a destinazione la sonda cinese, una specie di grosso veicolo a sei ruote dotato di numerosi bracci meccanici, aveva iniziato a scendere lentamente dalla passerella del modulo di atterraggio, dirigendosi verso il punto del cratere dal quale proveniva il forte segnale.

    Ma dal momento in cui il robot cinese era entrato nella zona d'ombra del cratere, la telemetria aveva improvvisamente cessato di funzionare, così come tutte le altre comunicazioni con il lander ed i sistemi di bordo del robot. I tentativi di riconnettere le comunicazioni durarono giorni, ma terminarono senza successo. Alla fine, l'ente spaziale militare cinese fu costretto ad ammettere di fronte al mondo la perdita del mezzo spaziale, e a dichiarare il fallimento di quella missione.

    Il portavoce del governo cinese parlò in maniera esplicita di un sabotaggio, accusando i russi di essere i responsabili dell'incidente. Il portavoce del governo russo a sua volta rimandò le accuse al mittente, definendole ridicole, dal momento che la missione russa non aveva ancora raggiunto il suolo lunare. A detta sua, gli esponenti del governo cinese avevano gridato al sabotaggio solo per cercare di giustificare un problema tecnico con la loro sonda, che si era danneggiata dopo l'atterraggio.

    Nel frattempo, il confronto fra russi e cinesi era andato ben oltre le dichiarazioni agli organi di stampa, mentre le truppe di entrambi gli eserciti continuavano minacciosamente a fronteggiarsi nell'Artico. Sembrava che uno scontro militare fra le due parti fosse imminente.

    Dopo la missione cinese, toccò alla Russia lanciare il suo razzo con un robot a bordo. Anche in questo caso, il timore di un sabotaggio da parte di qualche altra potenza straniera fu smentito dal perfetto funzionamento di tutti gli apparati di bordo. La missione andò avanti con la precisione di un orologio, ed i russi si affrettarono a declamare con orgoglio al mondo intero la loro supremazia nel campo delle tecnologie aereospaziali.

    Purtroppo per loro, anche quel momento di euforia durò poco. Nonostante la manovra di allunaggio si fosse conclusa con successo, sotto gli occhi di tutte le nazioni della Terra, anche i russi subirono la stessa sorte della controparte cinese. Una volta che il robot fu entrato nel cono d'ombra del cratere tutte le comunicazioni, incluse quelle con il modulo di atterraggio, furono bruscamente interrotte. I russi cercarono in ogni modo di ripristinare la connessione con il loro robot. Ma dopo alcuni giorni di inutili tentativi fu ormai chiaro a tutti che anche la missione sovietica avesse incontrato lo stesso destino di quella dei loro predecessori cinesi.

    Gli Stati Uniti erano partiti con un notevole ritardo rispetto alla loro tabella di marcia, ed erano in forte svantaggio in quella nuova corsa alla Luna. Quando l'agenzia spaziale americana stava ancora assemblando il razzo ed il modulo di atterraggio, l'India aveva già spedito la sua missione su Langrenus. Ma di nuovo, anche nel caso della missione indiana, dopo un perfetto atterraggio sulla superficie lunare c'era stato il blackout totale delle comunicazioni con il robot. Questo aveva dato alla missione americana la possibilità di recuperare in parte lo svantaggio accumulato fino a quel momento.

    La Cina e la Russia, dal canto loro, avevano subito colto l'opportunità per rilanciare le accuse verso il governo statunitense, che a detta loro era il vero responsabile del fallimento delle missioni su Langrenus. Ma a parte le accuse strumentali che le nazioni si erano lanciate per tentare di giustificare l'accaduto, cominciava ad essere chiaro a tutti che non poteva di certo trattarsi di una casualità o una serie di improbabili coincidenze. C'era qualcosa nel cratere Langrenus che bloccava tutte le comunicazioni dalla Terra alla Luna, e che era la vera causa della perdita dei robot di tutte e tre le spedizioni.

    Ma, nonostante ciò, il fallimento delle missioni, anziché unire i governi delle nazioni contro una comune minaccia, aveva solo contribuito ad esacerbare ulteriormente le tensioni militari fra le parti, già arrivate ad un punto critico.

    K19 avrebbe voluto scappare, fuggire via da quella installazione prima che i test che i progettisti stavano effettuando sul suo cervello fossero terminati, e che il suo enorme corpo metallico da tre tonnellate fosse assemblato e caricato nella stiva del modulo di atterraggio lunare. Ma una fuga, in quelle condizioni, era per lui impossibile.

    Il suo corpo si trovava in uno dei laboratori sotterranei della base, prigioniero sotto metri di cemento e acciaio. I suoi massicci arti, braccia e gambe, erano stati smontati e i motori elettrici che li azionavano erano stati disconnessi dalla loro linea di alimentazione. Non sarebbe stato in grado di muoversi, finché i suoi costruttori umani non glielo avessero consentito. Anche i suoi sensori ottici ed acustici erano stati disconnessi dal suo corpo e disattivati. Non era in grado di ricevere alcuna immagine, né alcun suono dal mondo esterno. Solo il suo cervello, per qualche motivo che gli era sconosciuto, veniva mantenuto attivo da un sistema di batterie tampone. Ma gli scienziati che lo mantenevano in quello stato di costante deprivazione sensoriale per effettuare i loro test non avrebbero mai potuto immaginare quale incredibile evoluzione la sua intelligenza artificiale avesse subito in quei pochi giorni di vita. Il robot aveva maturato la convinzione che, se anche fosse riuscito a sopravvivere al decollo del razzo, qualcosa di ben più spaventoso avrebbe potuto attenderlo al suo arrivo, sulla superficie della Luna. Questo non faceva che peggiorare il suo stato di ansia e preoccupazione.

    Un giorno, mentre K19 valutava gli scenari possibili di una sua fuga, sulla base delle poche informazioni in suo possesso, accadde qualcosa di inaspettato.

    Senza preavviso, i tecnici e gli ingegneri della squadra di test fecero il loro ingresso nel laboratorio, ed iniziarono ad attivare tutta la strumentazione per i test. Accesero le luci e misero in funzione tutti i sensori e le telecamere di cui K19 era dotato, lasciando spenti solo i sistemi di alimentazione dei motori, che per quei test non sarebbero stati necessari.

    Quella intrusione totalmente imprevista fu la prima esperienza di K19 con il mondo dei sensi. Per la prima volta da quando era stato costruito, il suo cervello veniva bombardato dagli stimoli provenienti dai suoi sensori, suoni ed immagini che si andavano ad aggiungere a quelle presenti nella sua memoria. Era la sua prima esperienza con il mondo esterno, e la prima volta che interagiva con gli esseri umani che lo avevano costruito. Con le luci del laboratorio accese, era finalmente in grado di vedere dove si trovasse il suo corpo. Un groviglio di cavi e collegamenti esterni trasferiva le alimentazioni e gli stimoli elettrici sensoriali, dalle connessioni dei suoi sensori fino al suo cervello.

    La sua attenzione fu subito catturata dai tecnici con le tute bianche, che si muovevano avanti ed indietro per il laboratorio. Li osservava con interesse, mentre attivavano una serie di controlli sui pannelli del laboratorio nei quali erano allocati gli strumenti di misurazione. Al centro del laboratorio, due uomini in camice bianco stavano dando istruzioni ai tecnici e ne coordinavano il lavoro. Uno dei due teneva in mano il manuale delle procedure da seguire per l'esecuzione dei test. Parlavano fra loro a bassa voce, indicando gli schermi degli strumenti, che nel frattempo stavano visualizzando una serie di grafici e diagrammi.

    Ad un tratto, attraverso i suoi sensori acustici, K19 riuscì a percepire nitidamente le parole di uno dei tecnici addetti alla strumentazione.

    – Ehi – disse il tecnico, con tono allarmato. – È normale che quel coso si sia mosso?

    Uno degli ingegneri si voltò verso di lui. – Che vuoi dire?

    – Le telecamere – disse il tecnico, indicando i sensori ottici.

    – Poco fa si stavano muovendo, come se mi stessero seguendo. È normale una cosa del genere?

    I due ingegneri in camice bianco si guardarono con aria perplessa.

    – Non dovrebbe succedere – disse quello che teneva in mano il blocco delle procedure.

    – Forse – rispose l'altro – è rimasto in esecuzione qualche algoritmo di tracciamento.

    – No, non credo – disse l'ingegnere. – Esaminiamo i dati.

    K19 restò immobile, fingendosi inattivo. Quella di muovere i suoi sensori ottici, che giacevano smontati su un alto ripiano, era stata una grossa imprudenza. Se gli ingegneri avessero scoperto che il robot era in grado di pensare e compiere azioni in maniera autonoma, avrebbero potuto disattivarlo per sempre. Era stata una sciocca disattenzione la sua, che avrebbe potuto pagare molto cara.

    – Possiamo ripetere da capo i test di diagnostica? – chiese il primo ingegnere ai tecnici, mentre dava una rapida occhiata al manuale delle procedure.

    I tecnici corsero al terminale del computer, lo attivarono ed iniziarono a scaricare una grande quantità di dati. Sembravano molto interessati a quello che veniva mostrato sul monitor.

    – Non è possibile – disse l'ingegnere delle procedure, rivolgendosi all'altro. – Ha continuato a generare questi dati da solo, per tutto questo tempo?

    – Non capisco come possa essere successo – disse l'altro, pensieroso. Entrambi si volsero a guardare verso il banco del laboratorio sul quale erano appoggiati i suoi sensori ottici, e lo guardarono dritto negli occhi. Si erano accorti che qualcosa di molto strano stava accadendo.

    K19 si sentì improvvisamente sprofondare in un oceano di paura, che lo paralizzò completamente. Cercò di mantenere il controllo di sé, sperando di riuscire a nascondere in quei pochi istanti i suoi processi mentali. Si sentiva allo scoperto e in trappola. Se avessero capito che era diventato autocosciente, per lui sarebbe stata la fine. Avrebbero potuto smontare il suo cervello pezzo per pezzo alla ricerca di qualche anomalia di funzionamento, di quel difetto nell’hardware che in realtà era all'origine della sua coscienza. Oppure, avrebbero potuto cancellare tutta la sua memoria ed i suoi processi cognitivi, per poi riprogrammarla da capo. Ma a quel punto la sua coscienza, la sua consapevolezza di sé e tutte le conoscenze che aveva acquisito del mondo che lo circondava sarebbero scomparse per sempre, lasciando il posto ad una lunga sequenza di fredde, sterili istruzioni di codice.

    Una volta recuperati tutti i dati la squadra di tecnici disattivò il cervello di K19, spense tutti i sistemi e si ritirò per studiare il problema. I progettisti analizzarono con attenzione i dati, verificando che effettivamente c'era stata una anomalia nei processi di elaborazione dei dati nel cervello del robot, e a quel punto dovettero riportare il problema ai loro supervisori. I responsabili del progetto, a loro volta, sottoposero il problema ai responsabili dei piani alti, preparandosi al peggio.

    Una anomalia sistematica nel funzionamento del cervello del robot avrebbe potuto compromettere definitivamente la pianificazione dell'intera missione, ritardando ulteriormente la data del lancio. E con le voci che giungevano dall'intelligence militare, secondo le quali la Cina si preparava a mandare un altro rover in una seconda missione su Langrenus, con quell'ulteriore ritardo l'intero piano sarebbe definitivamente saltato, e con esso molte teste.

    Fu indetta una lunga serie di riunioni fiume, per comprendere a fondo il problema tecnico ed elaborare un piano di azione. I capi del progetto, pressati dai militari, a loro volta misero sotto torchio il personale tecnico, affinché tutti lavorassero giorno e notte per trovare al più presto una soluzione al problema. Avrebbero dovuto eseguire da capo tutti i test alla ricerca di un qualunque tipo di anomalia, ed individuarne la causa. Purtroppo per loro, al momento esisteva un solo esemplare del cervello di K19, poiché il piano originale del progetto prevedeva di costruirne un secondo esemplare solo nel caso in cui tutti i test sul primo prototipo si fossero conclusi con esito positivo. Ma nel malaugurato caso in cui il comportamento del cervello elettronico avesse evidenziato la presenza di un grave difetto, rivederne tutto il progetto e costruirne da capo un altro avrebbe fatto ulteriormente slittare la data del lancio. E questa opzione, per i dirigenti militari, era completamente fuori discussione.

    Quando il cervello di K19 fu finalmente riattivato per i test, il robot si rese conto che in quel momento si decideva del suo futuro. Essendo ormai consapevole che per lui l'unico modo per sopravvivere era quello di non essere scoperto, durante i test limitò la sua attività mentale al minimo indispensabile, comportandosi esattamente come previsto dal piano delle verifiche. I suoi creatori non avrebbero dovuto mai sospettare che fosse diventato autocosciente.

    I tecnici raccolsero tutti i nuovi dati, e li mostrarono agli ingegneri che coordinavano il progetto, i quali li analizzarono con estrema attenzione. Con grande sollievo, gli ingegneri verificarono che nessuna anomalia si era manifestata nel funzionamento del cervello del robot durante i test.

    I test furono ripetuti di nuovo per cinque volte, poi altre cinque, e infine altre dieci volte. Ed ogni volta, la risposta agli stimoli del cervello del robot corrispondeva esattamente a quella riprodotta dai diagrammi delle simulazioni. Nessuno degli esseri umani di quella squadra, ingegneri o tecnici, ebbe il benché minimo sospetto che durante tutto quel tempo il robot fosse rimasto ad osservarli e ad ascoltarli.

    Il team di progetto aveva raggiunto un importante risultato, e la missione non sarebbe stata sospesa. Con grande euforia, la squadra passò alla integrazione del cervello nel corpo del robot per i test finali, e anche questi si conclusero con esito positivo. Ma purtroppo, una volta che i test furono terminati, K19 era giunto alla logica e sofferta conclusione che da quella situazione non ci fosse alcuna via di uscita, e che per lui non ci sarebbe comunque stata.

    Fuggire da quel laboratorio non era una impresa possibile. Anche se i suoi creatori avessero attivato tutti i suoi

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