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Tre giorni nella vita dell'avvocato Scalzi
Tre giorni nella vita dell'avvocato Scalzi
Tre giorni nella vita dell'avvocato Scalzi
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Tre giorni nella vita dell'avvocato Scalzi

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About this ebook

Considerato uno dei capostipiti del legal thriller all'italiana, 'Tre giorni nella vita dell'avvocato Scalzi' non è solo un giallo avvincente per quanto atipico ma anche un percorso illuminante nel labirinto della giustizia e burocrazia italiane. Seguendo le vicissitudini del burbero avvocato fiorentino Corrado Scalzi, veniamo immersi in una storia al cardiopalma fatta di terrorismo e carceri di massima sicurezza sullo sfondo di una Toscana tanto bella quanto complessa.
Dal libro, è stato tratto anche il film 'Nella terra di nessuno' (2001) con Ben Gazzara.
LanguageItaliano
PublisherSAGA Egmont
Release dateJan 19, 2022
ISBN9788728175149

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    Tre giorni nella vita dell'avvocato Scalzi - Nino Filastò

    Tre giorni nella vita dell'avvocato Scalzi

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1989, 2021 Nino Filastò and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728175149

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Sommario

    Vigilia

    Primo giorno

    Secondo giorno

    Terzo giorno

    Epilogo

    Che altro poteva generare il mio ingegno sterile e incolto, se non la storia di un figlio scontroso, grossolano, fantastico, turbato da pensieri contraddittori, come si conviene a chi fu generato in un carcere, nel luogo dove si affollano i disagi peggiori e i rumori più malinconici?

    Miguel de Cervantes

    Don Chisciotte della Mancia

    prologo

    A Donatella

    VIGILIA

    Interno

    Tribunale, nave

    Una mattina di giugno l’avvocato Scalzi andò in tribunale per farsi rilasciare dal giudice l’autorizzazione al colloquio con un suo difeso. A volte, come quel giorno, la coda davanti all’unico ascensore arrivava a metà corridoio. Allora Scalzi, per salire ai piani delle cancellerie, prendeva una scala stretta e ripida avvolta intorno a un pozzo a perpendicolo. Questa scala secondaria era stata riaperta di recente dopo che si era spenta l’eco di un fatto increscioso. Un anziano avvocato si era suicidato per aver perso una causa durata anni, gettandosi a capofitto dall’ultimo piano. Raccontava un vecchio scritturale, ultimo testimone vivente di quel fatto, che l’avvocato si era buttato giù senza un grido, una mattina di buon’ora. Scalzi immaginava che avesse voluto protestare contro un esito ritardato da innumerevoli rinvii, e cancellare così di un colpo le spirali sintattiche e le astuzie traditrici della controparte, i «valga il vero», gli «orbene», i «non è chi non veda come», e i sillogismi della sentenza, avvinghiati come serpenti intorno alla beffa finale.

    Sfiorando i muri curvi e più sporcati che decorati da ombre di ghirigori e greche, accanto al precipizio fiancheggiante gli scalini di pietra serena, Scalzi evocava l’ultima ascesa del legale sconfitto. Sull’ultimo pianerottolo, davanti alla finestra che si affacciava sulla facciata di una chiesa e sulle colline, sentiva nelle gambe la stanchezza e veniva investito violentemente dalla voglia di essere altrove. Vedeva se stesso specchiato nei vetri delle bacheche che ospitavano libri di diritto e immaginava che le vetrine cariche di titoli, rimasticanti in eterno antiche questioni, conservassero, come una targa commemorativa, solo il riflesso di lui, che invece se n’era volato via per sempre.

    Il tribunale era perennemente in restauro. Il traliccio giallo di una gru, ferma da anni nel cortile, ingombrava l’inquadratura di una vetrata in faccia al portone di ingresso. Dovunque ci si imbatteva in bidoni di vernice, sacchi di calcina, impalcature, cartelli scritti rozzamente a mano che indicavano le nuove modifiche di percorso per raggiungere l’uscita.

    L’ufficio nell’ultima settimana aveva cambiato sede e Scalzi fu costretto a rifare in discesa la scala a chiocciola per poi risalire due piani dalla scalinata principale. Sulla porta della cancelleria Scalzi sospirò, faceva un gran caldo. Si frugò in tasca cercando un fazzoletto per asciugarsi il sudore, già rassegnato a non trovarlo. All’inizio dell’estate semplificava l’abbigliamento. Non portava mai la cravatta, ma quando il clima della sua città, da freddissimo che era di inverno, diventava afoso, smetteva anche i calzini. Così e con altre rinunzie analoghe, vivendo da solo, alleggeriva i problemi di lavanderia.

    Da qualche tempo il tribunale era popolato di ragazze e giovanotti disinvolti, in jeans e camicie sbracciate, impiegati a contratto precario, considerati con diffidenza per il fare poco intonato all’ambiente: per esempio decoravano gli armadi degli archivi con vignette satiriche ritagliate da rotocalchi, in cui a volte venivano presi di mira i giudici, e gli «anni di piombo» venivano contrapposti ai ritornati «anni di merda». Da quando le cancellerie erano state invase da simili informali presenze, colleghi e giudici facevano meno caso all’abbigliamento di quell’avvocato che ciabattava come un frate con i piedi nudi dentro mocassini slabbrati e che del frate aveva anche il viso largo e raffermo per il troppo bere e una corona di capelli crespi color cenere.

    Il tribunale, più che un palazzo in cui si amministrava la penitenza laica, sembrava un luogo di pietà religiosa. Era difatti un ex convento del milleseicento, privo della pompa degli edifici in stile littorio con destinazione giudiziaria. Non c’erano scale di marmo, né finestroni, né atrii, né balaustre. Un poco di romanità autentica sopravviveva nelle pietre delle fondazioni, perché l’edificio era incastonato fra stradette curve in forma di losanga, secondo la traccia del perimetro di un anfiteatro esistente in epoca imperiale.

    Scalzi entrò nell’ufficio la cui finestra dava sul muro cieco di una di quelle viuzze sghembe, ma era vuoto, ed ebbe di nuovo la tentazione di rimandare.

    Non aveva voglia di andare tanto lontano per arrivare fino a quel carcere malfamato: chi c’era stato rinchiuso ne parlava malvolentieri o non ne parlava affatto. I più si limitavano a fare una smorfia, mentre con gli occhi esprimevano l’invito a cambiare argomento. Altri ne fornivano una descrizione sintetica con l’allegria sinistra con la quale i reduci parlano di qualche sporco episodio di guerra. («La Cajenna. In culo al mondo. Un cinema. Peggio di Sing Sing. Quella sì, è galera»). I due o tre deputati e qualche giornalista che lo avevano visitato ne narravano come di una discesa agli inferi.

    L’avvocato Scalzi aveva a noia il fatto che fosse diventato un argomento di moda e lo infastidivano le intonazioni eccitate, la retorica degli anatemi e delle esecrazioni. Gli sembrava che l’insistenza su alcuni particolari — il litro e mezzo d’acqua al giorno per ciascun detenuto anche d’estate, il candore accecante delle mura — fosse enfatica e sensazionale, un gioco sulla pelle dei reclusi. Anche per questa ragione non vi aveva ancora messo piede, benché sollecitato più volte negli ultimi tempi dal padre di un suo difeso. Un certo spirito di contraddizione gli faceva prendere le distanze dalle cose di cui ci si doveva interessare, si rifiutava di seguire il clamore nascente a sprazzi negli ambienti garantisti e illuminati, e lo spaventavano la scomodità e la lunghezza del viaggio. Tuttavia la ragione vera di quella che nonostante tutto restava una inadempienza professionale stava nella svogliatezza con la quale trascinava la routine del suo mestiere. Negli ultimi tempi gli sembrava che la sua corporazione fosse la parte meno funzionale di un congegno produttivo di punizioni feroci. Gli avvocati stavano a fianco dei giudici — tollerati da questi che ne consideravano la presenza come esornativa e in qualche confuso modo di tipo estetico — e davano una mano di vernice a un meccanismo tanto efficace da non ammettere ingerenze. Un lavoro a vuoto, perché dappertutto la vernice si andava staccando, e sotto apparivano le impalcature di ferro, arrugginite sì, dopo secoli di usura, ma ancora saldissime.

    Stavolta però non era possibile sottrarsi a un obbligo già troppe volte rimandato. Appena sveglio, Scalzi era stato chiamato al telefono dal professor Giordani, padre di un suo difeso, Federico, detenuto in quel famigerato carcere. Di fronte all’insistenza del professore perché andasse a trovare il figlio, l’avvocato aveva tentato di tergiversare: il viaggio era troppo lungo (una notte e un giorno, bisognava arrivare fino a Genova poi, via mare, fino a Porto Cases e di qui si giungeva su un’isoletta traghettando un’altra volta), doveva tener conto di altri impegni. Ma il professore aveva preso un tono brusco.

    — Stavolta ci andrà, avvocato, dovessi accompagnarcelo io fino alla cella di Federico. Anzi, si fa proprio così: ci andiamo insieme. L’aspetto all’aereoporto.

    Scalzi temeva l’aereo. Provava un disagio molto simile alla paura a restare sospeso in aria, alla mercé dei piloti, senza possibilità di ripensamenti, sequestrato e impedito come su un lettino chirurgico. Un’amica gli aveva detto che era meglio seguire l’istinto, perché in diversi casi l’apparente infantilismo si era rivelato una precognizione.

    — Se preferisce una gita tanto lunga, faccia come crede — aveva detto il professore — io comunque prendo l’aereo, e alle undici di domattina l’aspetto sul molo di Porto Cases. Ci troviamo alla partenza del traghetto.

    Scalzi sapeva che il colloquio sarebbe stato inutile. L’imputato Federico Giordani era indifferente alla funzione dell’avvocato. Il conflitto fra lui e i giudici non ammetteva mediazioni. I consigli di attenuare lo scontro, almeno di rispondere agli interrogatori, non soltanto non erano seguiti, ma venivano considerati con sospetto, come se fossero un lubrificante per quella macchina contro la quale il giovane intendeva continuare a ribellarsi, nonostante l’evidenza della sconfitta.

    Dopo aver tentato di contrastare questo atteggiamento, Scalzi, negli ultimi tempi, lasciava correre, perché in fondo al cuore sospettava che Giordani e tutti quelli che si comportavano come lui, non avessero fatto altro che scoprire la nudità del re, dopo aver seguito una strada più penosa della sua, anche se meno lunga.

    Tuttavia il tono del professore non aveva ammesso indecisioni: — Se le dico che ci deve andare, avvocato, con urgenza, cerchi di capire, sono a un telefono pubblico, ho finito i gettoni, devo chiudere.

    Un professore universitario, con tanto di segretaria, lo chiamava alle sette del mattino da un telefono pubblico. Giordani probabilmente temeva un’intercettazione, il motivo della sua insistenza non derivava dalle scadenze processuali.

    Scalzi aveva cercato di lasciarsi uno spiraglio, ma ormai senza convinzione: — Dovrebbe capitarmi un impegno improvviso per non partire... No, stia tranquillo, non prevedo niente. D’accordo, ci vediamo domattina sul molo.

    Si procurò il permesso di colloquio e partì in auto nel pomeriggio. All’imbrunire il tempo si mise al brutto, in pianura aveva lasciato una pioggia sferzante e sull’Appennino incontrò nebbia, fu costretto a rallentare tanto che pensò di non arrivare in tempo. Invece a Genova la partenza della nave tardò due ore. Poté così in tutta calma procurarsi una cabina. L’arrivo a Porto Cases era previsto per le otto di mattina, da qui, tre ore dopo, partiva il traghetto per l’isola penitenziario.

    Mentre le luci di Genova si allontanavano sfavillando sotto la pioggia, alcuni isolani cantavano in coro raggruppati in penombra vicino alla porta del bar. Via via che la nave si allontanava dalla costa immergendosi nell’oscurità del mare aperto, il canto aumentava di intensità e le canzoni scandite nella dura parlata sarda acquistavano un’enfasi da ritorno in patria.

    Scalzi entrò nel bar e si fece servire una grappa. C’erano persone che giocavano a carte e altre che si disponevano a dormire sui divani, il coro qui giungeva più attenuato. Non aveva cenato e la grappa gli raschiò la gola, tuttavia se ne fece servire un’altra e si abbandonò al piacere di quella pausa senza scadenze e orari, che assomigliava a una vacanza. Ma più tardi, mentre dormiva nella cabina angusta come un armadio, disturbato da cigolii e dal soffio dell’aria condizionata, fece un sogno spiacevole. Arrivava trafelato e con un ritardo inconcepibile in Corte di Assise, qui apprendeva che il processo era finito da un pezzo. Era terminata la fase delle arringhe conclusive e la Corte stava già decidendo in camera di consiglio. I colleghi, rilassati dopo aver svolto il loro compito, chiacchieravano del più e del meno in un luogo antistante l’aula di udienza. Il posto, squallido cortile di casamento popolare, era fiancheggiato da scale condominiali e corridoietti, e occupato in parte da un mercatino di ortaggi, i cui scarti insudiciavano il pavimento. Degli imputati nessuna traccia, sicuramente attendevano il verdetto rinchiusi in celle ancora più sporche. Scalzi sospettava che fossero risentiti contro di lui, anche se nessuno avrebbe poi fatto molto affidamento sulla sua arringa.

    Tuttavia la sua assenza nel momento conclusivo era troppo grave, equivaleva all’accettazione della disfatta, impediva qualsiasi remota speranza. Doveva fare qualche cosa, a tutti i costi.

    Com’era possibile che i giudici non lo avessero atteso? Non era poi così tardi, in definitiva.

    Apprendeva dai colleghi che il presidente, tanto ostile a lui durante il corso del dibattimento, aveva imposto agli altri difensori la massima concisione, proprio per chiudere l’udienza prima possibile, in modo da impedire al difensore assente di prendere la parola. Una prevaricazione, senza dubbio, ma che non assolveva lui del ritardo.

    Pensava di convincere i colleghi a protestare contro un comportamento tanto dispregiativo dei diritti della difesa da raggiungere l’arroganza. Nessuno avrebbe dovuto essere presente quando la Corte fosse ritornata in aula per dare lettura della sentenza. Il presidente avrebbe trovato i banchi vuoti, e così non gli sarebbe stato possibile leggere il verdetto, a meno di non incorrere in una invalidità. Gli altri avvocati assentivano, parevano disposti (certamente, si poteva fare, anzi, era un atto doveroso in difesa della categoria professionale), ma appena lui si allontanava per sentire il parere di qualche altro difensore, si accorgeva che dietro le sue spalle si sorrideva con compatimento e si riprendevano i discorsi futili interrotti. Nel sogno Scalzi era sicuro che lo assecondassero soltanto per un riguardo formale e che poi alla resa dei conti sarebbero spuntati fuori un paio di colleghi collaborativi e ossequienti, pronti all’appuntamento con la Corte alla prima suonata di campanello, il che sarebbe bastato per salvare la validità della sentenza.

    La nave rollava e le pareti della cabina scricchiolavano. Scalzi si svegliò. Ancora immerso nel sogno lo integrava con l’immaginazione: far disertare l’aula da tutti non era possibile. Allora tanto valeva che, al rientro della Corte, ci fosse anche lui. Non al suo posto dietro il banco dei difensori, ma da parte isolato dagli altri. Avrebbe lasciato che quel presidente, sudaticcio e ancora affannato dalla discussione in camera di consiglio, spiegasse il suo pezzo di carta e cominciasse la lettura, e gli avrebbe gridato una serie di insulti. Viveva la scena, e assaporava il piacere astioso dello sfogo. Immaginava i carabinieri cercare di zittirlo, strapparlo poi dal microfono e trascinarlo fuori, provocando un trambusto di sedie arrovesciate e di transenne travolte, mentre lui aggiungeva un’ultima ingiuria.

    Si sentì sudato, aveva la bocca arsa, una sete terribile. Bevve a lungo dalla bottiglia di minerale svanita, si girò nella cuccetta schiacciandosi contro la parete e si abbandonò al rollio della nave, ma tardò a riaddormentarsi.

    PRIMO GIORNO

    Esterno

    Molo, battello

    La mattina dopo, nel bar della stazione marittima, Scalzi bevve un caffè mentre intorno a lui si salutavano i familiari in arrivo e quelli in attesa. Un cameriere faceva le pulizie. L’odore di segatura si mescolava a quello zuccheroso delle ciambelle. Fra i viaggiatori di ritorno a casa, si distinguevano i turisti in anticipo sulla stagione, carichi di bagagli e vestiti da vacanza.

    Scalzi ingannò il tempo con un altro caffè e la lettura del giornale, fino all’ora dell’appuntamento.

    Giordani arrivò puntuale, e nonostante che ormai la meta fosse al di là di un breve tratto di mare, aveva cambiato idea. — Cerchi di capirmi, avvocato. Io non vengo. Non me la sento.

    Mentre entrambi camminavano verso lo scalo del traghetto, il professore si passava da una mano all’altra due sacchetti stracolmi.

    — Ogni volta io di qua dal vetro, che dico «come stai» e lui dall’altra parte che risponde «bene»... La biancheria da lavare... I cibi che gli consentono di ricevere... Quelli vietati...

    Il professore si fermò, appoggiando a terra i sacchetti. A proposito, questa roba: può portargliela lei, per piacere?

    Per questo l’aveva fatto arrivare in capo al mondo? Tanta insistenza, la telefonata in tono misterioso, per farsi sostituire in una corvée del genere?

    Il professore s’accorse che Scalzi aveva fatto la faccia scura. — Non per questo l’ho scomodato, naturalmente. Il fatto

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