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Il Tredicesimo Segno - Eredità di Tenebra e Stelle: vol.1
Il Tredicesimo Segno - Eredità di Tenebra e Stelle: vol.1
Il Tredicesimo Segno - Eredità di Tenebra e Stelle: vol.1
Ebook576 pages8 hours

Il Tredicesimo Segno - Eredità di Tenebra e Stelle: vol.1

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About this ebook

Le leggende di Asteria narrano di un’antica guerra e di dodici paladini che salvarono il mondo da Shaitan, il Dio Oscuro, e dalla sua razza, per poi fondare i dodici regni, separati da rigidi confini. Questo per scongiurare la profezia su un ritorno di Shaitan, ma soprattutto per evitare il diffondersi della maledizione che colpisce i figli di razze diverse. Diciassette anni fa però, due ragazzi innamorati hanno sfidato le leggi. Un’eclissi ha preceduto la nascita di due gemelli e la comparsa di una nuova costellazione: la tredicesima.
LanguageItaliano
Release dateDec 18, 2021
ISBN9788831481489
Il Tredicesimo Segno - Eredità di Tenebra e Stelle: vol.1

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    Il Tredicesimo Segno - Eredità di Tenebra e Stelle - Laura Baldo

    Eredità Di Tenebra E Stelle

    Il Tredicesimo Segno

    Laura Baldo

    WORDS EDIZIONI

    Indice

    Il continente di Asteria

    Dramatis Personae

    La Profezia

    Prologo

    Anno 1209 d.R.

    Melqart

    Anno 1214 d.R.

    Capitolo 1

    Capitolo due

    Capitolo tre

    Capitolo quattro

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    Capitolo dieci

    Capitolo undici

    Capitolo dodici

    Capitolo tredici

    Capitolo quattordici

    Capitolo quindici

    Capitolo sedici

    Capitolo diciassette

    Capitolo diciotto

    Capitolo diciannove

    Capitolo venti

    Capitolo ventuno

    Capitolo ventidue

    Capitolo ventitré

    Capitolo ventiquattro

    Capitolo venticinque

    Capitolo ventisei

    Capitolo ventisette

    Capitolo ventotto

    Capitolo ventinove

    Capitolo trenta

    Capitolo trentuno

    Capitolo trentadue

    Capitolo trentatré

    Capitolo trentaquattro

    L’autrice

    Ho intuito che la luce e l'ombra sono i lati opposti della medesima cosa,

    che il luogo illuminato dal sole viene sempre raggiunto dall'ombra.

    […] Se si tenta di separarli si perde se stessi.

    Se si prova a disfarsene il mondo crolla.

    Natsume Sōseki

    Il continente di Asteria

    Mappa del Continente di Asteria

    Dramatis Personae

    Nettunia


    FAMIGLIA REALE

    Re Protheus

    Regina Maryam: madre di Tethis e Taras, morta nel 1189

    Principe Taras: figlio minore, morto nel 1200

    Principessa Tethis: figlia maggiore

    Duca Nereus di Thaumasia: suo marito e Ministro della politica estera

    Glaukos, Alikia, Nerito: i loro figli


    IL CONSIGLIO

    Lexer, duca di Nikeia: capo dell’esercito

    Cetus, marchese di Paralia: Amministratore Capo

    Conte di Argyros; barone di Nemosinia; barone di Leukopetra: altri consiglieri

    Arkin: capitano della Guardia Reale


    NAXIS

    Dion, conte di Naxis

    Catryna: sua figlia, vedova di Hector di Chariessa

    Nisan: unica figlia di Catryna e Hector

    Basil: maggiordomo

    Rhona: cameriera

    Revan: Capitano delle guardie personali del conte


    Aresia


    CASCATA LUCIS

    Kalev, detto Kal: fabbro

    Agnes: sua moglie

    Sheratan, detto Shera: loro figlio

    Alexia, detta Lexi: loro figlia


    Cloris: cameriera

    Elvio: contadino amico di Shera

    Cecilia: una delle ex ragazze di Shera


    Phedro di Choros: ambasciatore venusiano

    Navid e Bolat: pirati


    DEIMOS

    Re Iason

    Regina Marzia: morta molti anni addietro

    Primus: figlio primogenito

    Bellatrix: seconda figlia

    Marzio: figlio più giovane

    Virgil: figlio illegittimo del re

    Melitta: ragazza venusiana, figlia di Phedro di Choros


    L’Isola di Alsard

    Melqart: mago

    Ahriman, detto Ahri: il suo pupillo

    Mihrna: cuoca e domestica

    Yosip: suo marito, tuttofare

    Jerd: il loro figlio

    I Pirati

    Zagh’ayn, o Occhio di Corvo: capitano dell’Ombra Silente

    Vyana: giovane donna pirata

    Fayiz: capo del gruppo che accompagna Ahri al tumulo

    Redh, Dahat, Saif, Rajna: parte della spedizione al tumulo

    Musad: altro pirata

    Le Terre di Nessuno

    Laleh: ragazza nomade

    Jahim: capo dei Demoni di Sabbia

    La Spinosa

    Xertorius: capitano

    Iustus: ufficiale in seconda

    Gavis: giovane timoniere

    Plutonia

    Reggente Eliphas

    Hadas: figlia maggiore di Eliphas, sorellastra di Hazel

    Hazel: figlio minore

    Ministro del Commercio Ravid

    Sommo Sacerdote Zadoq

    Hestinia

    Roxane: giovane Vestale

    Pirita: giovane Vestale

    Somma Sacerdotessa

    Istaria

    Chares: giovane atleta

    Castalia, detta Talia: bambina ermetiana rifugiata

    Arn, Dillis, Jaros: soldati del carcere


    Solaria

    Lukas: lavoratore del porto

    La Profezia

    (versione istariana, tramandata oralmente da una più antica, andata perduta)


    Nel giorno a Marte dedicato

    un serpente inghiottirà la luna

    Sulla volta oscura della notte

    occhi di sangue si apriranno


    Nel cuore più buio del gelo

    ciò che fu diviso rinascerà

    e non sarà Uno

    ma non sarà del tutto Due


    Terra, acqua, aria e fuoco

    contro l’uomo si rivolteranno

    L’incerto equilibrio sarà infranto

    La prima catena sarà spezzata


    Diciotto cicli si alterneranno

    e il sole neonato sarà inghiottito

    L’Oscurità verrà sulla Terra

    La Luce riprenderà la sua guerra


    Delle stelle guardiane, le anime

    antiche riunite dal destino

    è il compito di guarire lo strappo

    atroce all’universo procurato


    Colui che è ma non è si conoscerà

    la fiamma ritroverà la sua lampada

    Prima che tutto torni al Nulla

    ciò che fu diviso deve tornare Uno

    Prologo

    Anno 1207 d.R. (dopo la Rifondazione)

    Nettunia


    «Capitano Arkin, è raro vedervi a queste riunioni.»

    Arkin sussultò con aria colpevole. Si era seduto in fondo alla sala nella speranza che non lo notassero. Sebbene quella non fosse la prima riunione clandestina d’emergenza e fossero presenti buona parte dei dodici consiglieri, aveva ancora la sensazione di fare qualcosa di sbagliato agendo alle spalle del sovrano. La disciplina di soldato gli imponeva di essere fedele prima di tutto al suo re, almeno finché fosse stato in carica. Era un peccato che, nonostante Re Protheus avesse di fatto cessato da tempo di avere l’autorità per governare, nessuno si fosse ancora deciso a deporlo. In quel caso la coscienza di Arkin ne avrebbe giovato.

    «È vero, Conte, ma solo perché i miei doveri di Capitano della Guardia mi tengono molto impegnato.» Era una sfacciata menzogna, e il Conte Lexer di Nikeia, Ministro della Guerra, lo sapeva, ma Arkin pareva essere l’unico a sentirsi a disagio nell’agire di nascosto, e temeva che gli altri nobili lì presenti ridessero alle sue spalle.

    Proprio in quel momento, il Marchese Cetus di Paralia, Amministratore Capo, e il Barone di Nemosinia stavano parlottando a bassa voce e, non avendo di meglio da fare in attesa che la riunione cominciasse, Arkin prese un bicchiere di vino e passò dietro di loro come per caso.

    «… visto ultimamente?»

    Il Barone fece di no con la testa. Nemosinia era piuttosto lontana, e il Barone non frequentava molto la corte, tranne per le riunioni, ufficiali o meno.

    Arkin pensava che avrebbero potuto risparmiarsi la farsa dei consigli ufficiali il primo giorno del mese, in cui Re Protheus presiedeva e nessuna decisione degna di nota veniva mai presa. Erano tutti concordi che non si potesse lasciar deliberare delle sorti del regno a qualcuno che il più delle volte non sapeva nemmeno dove si trovasse, e spesso, anziché prestare attenzione all’argomento del giorno, si perdeva a parlare dei vecchi tempi. Arkin ne usciva sempre avvilito e imbarazzato. Vi partecipava solo per non avere attriti con gli altri consiglieri, oltre che per la remota eventualità che quella volta il Re fosse lucido e si accorgesse della sua assenza.

    L’Amministratore Capo, intanto, stava continuando, con un tono preoccupato che gli parve falso quanto i capelli ancora biondi nonostante l’età avanzata: «Be’, io l’ho visto solo pochi giorni fa, e posso dirvi che quasi non lo riconoscevo. Nonostante i suoi cinquantacinque anni, sembra un ottantenne.»

    «Era già così quando l’ho visto il mese scorso» obiettò Nemosinia.

    «È peggiorato, vi dico, e l’aspetto è niente. L’ho sentito io stesso vaneggiare rivolgendosi alla nostra povera principessa Tethis come se fosse una bambina, dicendole di andare a cercare suo fratello, che doveva essere nascosto a leggere da qualche parte.»

    «E lei che cos’ha fatto?»

    «Poveretta. Cercava di farlo ragionare, o di convincerlo almeno a rientrare nelle sue stanze, dove nessuno lo sentisse…»

    Arkin fece una smorfia, finì il suo vino e tornò a sedersi. Era storia vecchia: ormai la follia del Re peggiorava in modo lento ma costante. Era iniziata sette anni prima. Arkin poteva indicare con precisione la data.

    Questo perché era un momento inciso a fuoco anche nella sua memoria: il solstizio d’inverno dell’anno 1200, la fortezza di Chariessa che bruciava, i corpi dei suoi uomini sparpagliati nella neve. E, peggio di tutto, quello del principe Taras, l’erede al trono, ucciso da una freccia scagliata per sbaglio da uno dei suoi. Aveva cercato di dimenticare quella notte da incubo e il triste rientro che ne era seguito, così come l’espressione sul volto del Re. Arkin aveva proseguito con la sua vita, mantenuto l'incarico nonostante l’ostilità del sovrano, allevato due figli e seppellito una moglie.

    Eppure, a ogni solstizio d’inverno, mentre Tridentis festeggiava con luci, musica e risate, Arkin rivolgeva lo sguardo al cielo, alla costellazione a forma di serpente comparsa proprio in quei giorni, e il gelo dell’inverno minacciava di invadergli il cuore. Nonostante non fosse responsabile della tragedia, lui era là, e non aveva potuto impedirla. E ogni volta che sentiva il re vaneggiare chiamando suo figlio morto da tempo, quel gelo tornava a farsi strada dentro di lui. Era un bene che re Protheus uscisse di rado dalle sue stanze, perché lo esentava dal doverlo vedere troppo spesso. Ormai Arkin si occupava soprattutto della Principessa, di suo marito e dei loro tre figli.

    Intanto la piccola sala, in un’ala isolata del palazzo, si era riempita. Otto dei consiglieri erano presenti, e Arkin ne fu sollevato. Se fossero stati meno della metà, avrebbero dovuto rinviare la seduta e la decisione importante che bisognava prendere. Mancava solo l’uomo che presiedeva quelle riunioni.

    La porta si aprì di nuovo e finalmente il Duca Nereus di Thaumasia, consorte di Tethis e genero del re, entrò a passo spedito per raggiungere la testa del tavolo. «Signori.»

    Gli altri nobili accennarono un inchino, prendendo posto a loro volta, e Arkin li imitò. Quell’uomo non gli piaceva, ma di questi tempi era una fortuna che ci fosse qualcuno in grado di tenere le redini del regno. A trentatré anni, il Duca Nereus aveva ancora il fisico atletico del soldato che era stato per qualche tempo, finché non aveva sposato la figlia maggiore del Re. Con i ricci biondo chiaro ben pettinati e i tratti regolari, qualcuno l’avrebbe definito di bell’aspetto, ma a lui quegli occhi color ghiaccio ricordavano, per qualche motivo, quelli mobili e attenti di un rettile, così come le labbra sottili tese in un sorriso di circostanza.

    Nereus si sedette e diede un’occhiata ai volti intorno a lui con un cenno di approvazione. «Bene, visto che ci siamo quasi tutti, e che siamo tutti molto impegnati, diamo inizio alla riunione. Ma prima di affrontare la questione che più ci preme stasera, pregherei il Ministro della Guerra e l’Amministratore Capo di ragguagliarci sulla situazione attuale del regno.»

    Il Duca di Nikeia si alzò per primo, schiarendosi la voce. «Come già sapete, la situazione è seria. Le rivolte dei contadini, conseguenti alla siccità dello scorso anno, sono state represse con successo dai miei soldati. Ma ogni giorno nascono focolai di scontento in tutto il Paese, soprattutto al nord. Immagino che voi tutti ne conosciate il motivo.»

    Le teste intorno al tavolo annuirono cupe. Il nord del Paese era un problema fin da quando il Conte Naxis, grazie al matrimonio di sua figlia col defunto Hector di Chariessa, aveva esteso il suo dominio su buona parte di esso. E non era certo un caso che la maggior parte dei problemi si verificasse lì. Non solo perché il Conte era tristemente famoso per la severità con cui gestiva le sue terre, ma anche perché, sebbene non ci fossero prove, lui stesso fomentava quelle rivolte contro il governo centrale, dando la colpa al Re per tutto ciò che non andava nei suoi territori.

    Nessuno sapeva di preciso cosa sperasse di ottenere, ma almeno una cosa era evidente: Naxis sarebbe stato lieto di quella riunione. Aveva misteriosamente rinunciato alla carica di consigliere col pretesto che non aveva più il tempo di venire a corte ogni mese, ma Arkin sospettava che ci fosse sotto dell’altro. A Naxis non interessavano altri titoli, lui mirava alla Corona, anche se in apparenza cercava di arrivarci per vie traverse e indecifrabili.

    «A ogni modo» continuò Nikeia, «contadini e pastori vogliono la stessa cosa. Che ad aizzarli siano nobili scontenti o quei fanatici dei sacerdoti di Nettuno, il popolo chiede quasi all’unanimità la riapertura dei confini.»

    «E cosa pensate che accadrebbe se rifiutassimo?»

    Arkin capì che quella di Nereus non era una vera domanda, serviva solo a chiarire la situazione all’assemblea.

    «Le rivolte proseguiranno, e saremo costretti a impiccare sempre più persone. Tempo qualche mese e ci sarà il caos.»

    «Capo Amministratore, cosa potete dirci sulle finanze?»

    Il marchese Paralia si alzò. «Come ha accennato il mio collega, la popolazione è ridotta quasi alla fame. La carestia è stata solo uno dei problemi. I pescatori hanno lamentato che il pesce è diminuito e le frequenti tempeste hanno impedito loro di lavorare. Dopo la siccità, i campi sono stati invasi da locuste e altri insetti molesti. Si racconta di sciami di api impazzite, che hanno aggredito gli apicoltori, e di boschi pieni di vipere, dove è pericoloso cacciare. Ora la situazione si è stabilizzata, ma molti problemi non sono stati risolti. Tutti sono concordi che questa serie di catastrofi non può essere naturale e che i sacerdoti hanno ragione: un dio malvagio si è risvegliato, e la fine del mondo è vicina.»

    Nereus si limitò a sollevare un sopracciglio. Tutti loro avevano sentito parlare di quei problemi così tante volte che ormai non facevano più effetto.

    Arkin, che non si era mosso da Tridentis, non aveva visto nessuna di quelle cose, ma le notizie erano troppe per poterle bollare come fantasie di campagnoli isterici.

    «Voi cosa ne pensate, Paralia?»

    L’Amministratore parve sorpreso. «Vostra grazia, io mi occupo delle finanze, e tutti questi problemi hanno causato un netto calo delle entrate. Per quanto i funzionari reali abbiano bussato alla porta di tutti quelli che non pagavano le tasse, molti non possedevano effettivamente nulla, e ciò ha reso difficile raccogliere la quota annuale.»

    «Sì, ma voi, personalmente, cosa ne pensate di queste voci sulla fine del mondo?»

    L’uomo parve in difficoltà, ma sospirò e disse: «Penso che di certo ci sia una spiegazione razionale, e che le voci che circolano siano esagerate. Molti devono aver approfittato della situazione per inventarsi problemi inesistenti, per evadere le tasse. Di certo però in tutto ciò c’è qualcosa di strano.»

    Nereus annuì. «Le voci non sono poi così esagerate» annunciò infine, suscitando lo sconcerto di molti degli uomini intorno al tavolo. «Proprio la scorsa settimana ho ricevuto un messo di Aresia, e pare che lì la situazione non sia diversa. Il messo ha raccontato di essere stato anche a Venusia, dove quest’anno è morta quasi la metà dei bachi da seta, e a Gioviana, dove gli allevamenti di cavalli sono in crisi. Dappertutto nel continente i campi sono poco fertili, per malattie, siccità, inondazioni, o eruzioni vulcaniche.»

    L’assemblea seguiva quelle parole in un silenzio attonito. Nereus, in quanto Ministro della Politica Estera – un titolo che fino a pochi anni prima era solo onorifico, visto che i contatti tra i regni erano molto rari – era l’unico tra loro ad avere rapporti con il resto del continente.

    «E questo non è tutto. Non solo il popolo, ma anche i sacerdoti stranieri sono tutti concordi nelle loro affermazioni, ed è molto improbabile che si siano messi d’accordo.»

    «Quindi» intervenne timidamente il barone di Leukopetra, «voi credete che sia vero?»

    Nereus storse le labbra in una smorfia. «Le questioni religiose esulano dalle mie competenze, come da quelle di questo consiglio. Tuttavia, che le voci siano vere o no, la situazione non cambia: i sacerdoti ci credono, la gente comune ci crede. La cosa più ragionevole che possiamo fare è accontentarli.»

    «Intendete davvero considerare di eliminare i confini?» chiese Nikeia, accigliandosi.

    Gli occhi di ghiaccio del Duca si spostarono su di lui. «È appunto per questo che siamo qui, generale. E io non solo sono d’accordo, ma credo sia l’unica soluzione. Senza contare» aggiunse, prevenendo le proteste, «che ogni altro Paese con cui ho avuto contatti intende fare lo stesso, e che Aresia l’ha già fatto. Se restiamo chiusi nei nostri confini, ci troveremo isolati. Se li apriamo, non solo faremo contento il popolo, che tornerà al suo lavoro più sereno e, speriamo, più produttivo, ma potremo anche stringere utili alleanze, in modo da poter contare su un aiuto in caso di problemi.»

    «A quali problemi vi riferite?» chiese il Conte di Argiros. Il suo territorio era all’estremo sud, dove c’erano le miniere d’argento, ed era quello che aveva risentito meno della crisi. Pareva anche l’unico a non aver capito di cosa Nereus parlasse.

    «Mi riferisco a eventuali disordini interni: rivolte, colpi di stato…» Accompagnò le parole con un gesto vago delle mani, come se fossero solo minacce ipotetiche, ma Arkin, così come gran parte degli altri, sapeva che era soprattutto al pericolo rappresentato da Naxis che pensava.

    I consiglieri continuarono a discutere per quasi mezz’ora, più che altro dei dettagli. Era evidente che la decisione fosse già scontata. Nereus si alzò per andare a prendere del vino al tavolo dei rinfreschi.

    Stanco di sentire discorsi su questioni spesso oziose, Arkin lo raggiunse.

    Il Duca faceva girare il liquido ambrato nel bicchiere, con lo sguardo perso fuori dalla finestra. «Ah, Arkin.» Si girò, forse cogliendo il suo riflesso nel vetro. «Non ho sentito la vostra voce. Allora, cosa ne pensate?»

    «Vostra Grazia, io sono tutt’altro che un esperto di politica, ma come militare so bene che i momenti critici richiedono decisioni critiche per sopravvivere.»

    «Un brindisi alla saggezza militare, allora» disse l’altro, alzando il bicchiere con un lieve sorriso, che non scaldava però il gelo dei suoi occhi.

    «Posso farvi una domanda?»

    Questa volta Nereus lo guardò sul serio, con vaga curiosità. «Ma certo.»

    Il suo fare condiscendente lo infastidiva. A differenza degli altri riuniti là, Arkin non poteva vantare origini nobili. «Credete che ci saranno altre riunioni come questa?»

    «Mi auguro che stasera prenderemo una decisione…» Si interruppe, come se avesse compreso ciò che lui intendeva. «Temo che sarà ancora necessario discutere alcune questioni… in privato. Sapete bene quanto me che Re Protheus non avrebbe mai nemmeno voluto considerare un simile provvedimento.»

    Arkin lo sapeva fin troppo bene. L’antipatia del Re per gli stranieri non era un mistero per nessuno. Di tanto in tanto inveiva ancora contro la strega aresiana che aveva fatto una qualche sorta di incantesimo a suo figlio.

    Nereus dovette leggere il turbamento sul suo volto, perché continuò, in tono suadente: «Naturalmente, sempre che il nostro amato sovrano non si riprenda dalla sua malattia.»

    «Sappiamo tutti che non accadrà.» Aveva parlato in modo più brusco di quanto fosse sua intenzione.

    La mano del Duca si strinse in modo impercettibile intorno al bicchiere, mentre gli occhi si stringevano in due schegge di ghiaccio.

    «Quello che voglio dire, Vostra Grazia» continuò Arkin in fretta, «è che forse, considerate le sue condizioni, qualcuno dovrebbe convincerlo a… mettersi a riposo, lasciando il peso delle responsabilità a qualcuno più… in salute.»

    Nereus sospirò, tornando a girarsi verso la finestra. «Purtroppo, non è così semplice. Voi non siete uno stupido, Arkin. La situazione è grave, e Naxis aspetta solo che commettiamo un passo falso per puntare il dito e far rivoltare il Paese contro di noi. Né io né Tethis, secondo le nostre tradizioni dinastiche, abbiamo diritti sul trono. Gli unici ad averli sono i nostri figli, che al momento sono troppo piccoli. Quando Glaukos avrà raggiunto la maggiore età, e il Paese sarà più stabile, se ne potrà riparlare.»

    Glaukos aveva solo nove anni. Avrebbero dovuto attendere almeno sette anni. Anni di riunioni clandestine e sensi di colpa. Forse, col tempo, ci avrebbe fatto l’abitudine.

    Anno 1209 d.R.

    Isola di Alsard - Ahriman


    Ahri si arrampicò in fretta sul suo scoglio preferito. L’oceano color acciaio batteva rabbioso la scogliera diversi metri più sotto. Si sedette stringendosi le ginocchia con le braccia e si morsicò forte il labbro inferiore, senza far caso agli schizzi di gelida spuma che lo raggiungevano di tanto in tanto. I suoi occhi erano pieni di lacrime di rabbia, ma non avrebbe permesso a nessuno di vederlo così.

    Si strofinò il viso sulla manica con un gesto di stizza. Il livido doloroso sotto l’occhio sinistro era già sparito, ancora prima di cominciare a gonfiarsi. Si passò la lingua nel punto in cui un dente si era staccato. Come immaginava, era ricresciuto. Il vento, che soffiava incessante sulla minuscola isola, gli asciugò del tutto gli occhi e lo fece sentire un po’ meglio.

    «Non è giusto» si lasciò sfuggire ad alta voce. «Voglio andar via da questo posto.»

    «E dove ti piacerebbe andare?»

    Ahri sentì i capelli che gli si drizzavano sulla nuca, mentre si guardava intorno. Non conosceva quella voce femminile bassa e sibilante. A parte lui, il maestro e i tre servitori non viveva nessuno sull’isola.

    «Sono qui sotto» continuò la voce, in tono paziente.

    Qui sotto? Si sporse con cautela oltre il bordo e guardò giù. Fece quasi un salto quando incrociò lo sguardo di due occhi rosso rubino, grandi come padelle.

    «Salve, giovane mago.» La creatura pareva sorridere, anche se il muso da rettile rendeva difficile stabilirlo con certezza.

    «E tu chi diavolo sei? Cosa diavolo sei?»

    «La tua educazione non è stata delle migliori» commentò la creatura in tono irritato. «Mi piacerebbe proprio poter scambiare due parole con chi ti ha cresciuto.»

    Mentre parlava, il muso si sollevò dall’acqua, sorretto da un collo di cui non si vedeva la fine, fino a trovarsi all’altezza dei suoi occhi. Era ricoperto di scaglie di un colore tra il blu e il verde, che luccicavano sotto la luce del sole. Due lunghe corna si incurvavano all’indietro sulla sommità della testa, e aveva dei baffi spioventi ai lati del muso. Era spaventoso, ma possedeva anche una certa eleganza e una sua misteriosa bellezza.

    Ahri non aveva mai visto niente del genere. Non in carne e ossa, almeno. Però, somigliava in modo inquietante al suo marchio natale, il serpente blu arrotolato intorno alla spalla destra. Per un istante, si limitò a fissarlo, chiedendosi se fosse il caso di preoccuparsi. Non era la prima volta che parlava con degli animali, ma capivano solo termini semplici come cibo, pericolo, mordere. Non capivano affatto i concetti troppo astratti e dopo un po’ lui aveva perso interesse. Gli sembrava una capacità inutile, sebbene il maestro gli avesse spiegato che nessun altro ce l’aveva. Questa creatura però era diversa: sembrava intelligente. E pericolosa.

    Per il momento, comunque, non era ostile. Si limitava a fissarlo, con gli occhi rossi luccicanti di un vago divertimento. «Immagino non ci sia niente da fare» sospirò. «Per questa volta scuserò la tua ignoranza e maleducazione, visto che sei ancora un bambino.»

    «Ho quasi nove anni!» ribatté seccato. «E comunque neanche tu sei così educata, visto che mi stavi spiando.»

    La creatura fece oscillare la testa, e lui pensò di averla offesa. Poi, inaspettatamente, iniziò a ridere, un suono aspro e raschiante, tutt’altro che piacevole da sentire. «Hai ragione» disse infine. «Forse avrei dovuto presentarmi come si deve.»

    Ahri la guardò di sottecchi, chiedendosi se non si stesse prendendo gioco di lui.

    «Sono un serpente marino. Puoi chiamarmi Al-Hay. Piacere di fare la tua conoscenza.» Piegò il lungo collo in quello che voleva essere un inchino.

    Ahri sgranò gli occhi. «Credo di averne letto in qualche storia, però non si accennava al fatto che parlassero.»

    «È vero, i serpenti marini non parlano, o meglio, sono gli umani che non comprendono il loro linguaggio. La maggior parte di loro non è molto intelligente, comunque, non fa che mangiare e azzannarsi a vicenda.»

    «Allora è perché sei diversa che puoi parlare con me?»

    Al-Hay scosse la testa. «Neanch’io in questa forma posso parlare con gli esseri umani. Non che ci tenga molto» disse, con quello che gli sembrò un sogghigno. «Posso comunicare con te perché tu sei diverso, Ahriman.»

    Lui ebbe un sussulto. «Come sai il mio nome?»

    «Non ti è mai capitato di parlare con altre creature non umane, prima?»

    «Solo piccoli animali, come insetti, rospi e serpenti. Non ci sono molti animali sull’isola, però ho notato che con conigli e ratti non mi riesce. E comunque non è che ci abbia fatto grandi conversazioni.» Poi si illuminò. «Vuoi dire che è per questo che posso parlare con te? Sono l’unico che può farlo?» La creatura si limitò ad annuire. Ahri sorrise, soddisfatto: finalmente quella bizzarra capacità gli poteva tornare utile. «Non mi hai ancora spiegato come mai conosci il mio nome» disse in tono di aspettativa, fissandola negli occhi.

    «Lo conosco da molto tempo.»

    «Cosa vuoi dire? Hai il dono della veggenza?»

    Al-Hay sospirò. «Il tuo nome è legato al tuo destino. Per questo ti è stato dato.»

    «Questo vuol dire che non sei qui per caso. Cosa vuoi da me?» chiese sospettoso.

    Il serpente parve sorpreso. «Sei piuttosto sveglio per la tua età. In realtà, ti osservo da un po’, ma non voglio niente, solo conoscerti. Aspettavamo da tanto il tuo arrivo.»

    «Aspettavamo?» la interruppe Ahri. «Tu e chi?»

    Al-Hay rise di nuovo. «Tutti, bambino mio. Il mondo intero.» Continuò a ridere, come se avesse fatto una battuta che solo lei poteva capire. Dovette notare il cipiglio che si accentuava sul suo viso, perché smise di ridere e continuò: «Lo saprai a tempo debito. Ho deciso di mostrarmi solo perché ti ho sentito lamentarti. Qualcosa non va?»

    Ahri avvampò. Gli seccava che l’essere l’avesse visto in quello stato, ma si sforzò di suonare noncurante. «Oh, niente di speciale, l’ennesima discussione con il mio maestro.»

    «Cosa hai combinato per farlo arrabbiare? Dimmi.» Sembrava sinceramente interessata.

    Lui esitò. Di solito non parlava dei fatti suoi con sconosciuti. Non lo faceva con nessuno, in realtà. Ma dopotutto era solo un animale. «L’altro giorno ho frugato di nascosto tra i libri che il maestro tiene chiusi nel suo studio. Ne ho trovato uno che spiega come evocare gli spiriti dei morti, così ho deciso di fare un tentativo. Non sembrava troppo complicato.»

    «Evocare i morti!» Il serpente si sporse verso di lui, con gli occhi socchiusi. «È magia molto oscura, e pericolosa. Non avresti dovuto farlo.»

    «Ti ci metti anche tu, adesso?»

    «Solo per curiosità, chi hai cercato di evocare?»

    Ahri distolse lo sguardo, tormentandosi una lunga ciocca di capelli tra le dita. «Ero solo curioso di vedere se ci riuscivo. Così, la prima cosa che mi è venuta in mente…» Sospirò. «I miei genitori» ammise, in tono asciutto.

    La testa del serpente scattò all’indietro. «Ah, adesso capisco.»

    «Capisci che cosa?» ribatté seccato.

    «Questo genere di magia è rischiosa anche per un mago esperto. Se non stai attento i morti possono trascinarti con loro nell’oltretomba. E anche quando funziona, quelli che vengono evocati sono solo pallide ombre di ciò che sono stati in vita. Probabilmente il tuo maestro voleva evitare che restassi deluso, o che ti facessi male.»

    «Sono invulnerabile.» Scrollò le spalle. «E poi dubito che una qualsiasi di queste due cose gli importi» si lasciò sfuggire, con un sorriso amaro.

    Al-Hay rimase un istante in silenzio, socchiudendo di nuovo gli occhi. «Capisco» si limitò a ripetere. Quegli occhi inquietanti che sembravano sapere troppe cose cominciavano davvero a dargli sui nervi.

    «Comunque» continuò Ahri, ostentando noncuranza, «sono sicuro che ci sarei riuscito, ma lui mi ha interrotto, facendomi perdere la concentrazione. A causa sua ho rischiato sul serio di farmi male. Sono io che dovrei essere arrabbiato. Sono davvero stanco di essere trattato come un bambino» concluse con un rumoroso sospiro.

    «Devi essere paziente. Il tuo momento verrà molto presto.»

    Lui la guardò dubbioso. «E tu che ne sai?»

    «Signorino Ahri!» La voce roca e affannata del vecchio Yosip lo infastidì. Poteva voler dire solo una cosa: il maestro voleva che tornasse, e forse era ancora arrabbiato.

    «Devo andare» disse al serpente. «Ti rivedrò ancora?»

    «Resterò in zona per un po’, se mai avessi bisogno, giovane mago.»

    «Puoi chiamarmi Ahri, qui mi chiamano tutti così.»

    Il serpente marino tornò a immergere il lungo collo e sparì sotto le onde.

    Yosip, intanto, si era fermato all’inizio degli scogli a prendere fiato. Ahri scese con un unico salto, facendo sobbalzare il servitore, che ritrovò il fiato e si guardò in giro confuso. «Con chi stavate parlando poco fa?»

    «Non credo che siano affari tuoi» rispose sdegnoso. Poi notò che il vecchio aveva uno strappo sulla giubba e dei lunghi graffi rossi spiccavano sulla pelle bianchiccia e grinzosa del collo. «Che hai fatto al…» Realizzò. «Oh.»

    L’altro si fissava le punte dei piedi. «Il padrone si è molto arrabbiato anche con noi, perché non vi abbiamo tenuto d’occhio abbastanza. Dovete rientrare subito o se la prenderà di nuovo con Mihrna e Jerd. Per favore» continuò poi, tormentandosi le mani, «non fate più una cosa del genere, o ci andremo di mezzo tutti.»

    «Mmh. E perché mai dovrebbe interessarmi?» Si avviò con passo tranquillo verso la grotta. Non era mica colpa sua se il maestro se la prendeva con chiunque gli capitasse a tiro quando era arrabbiato. Ma, per qualche motivo, gli seccava che maltrattasse i servitori a causa sua. Ahri era responsabile di se stesso. Non gli servivano delle balie. «Come mai il maestro vuole che torni?» si informò mentre camminavano.

    «Il padrone non spiega certo il motivo delle sue azioni a me. Dovreste saperlo bene» rispose il vecchio, in tono scandalizzato.

    «Quel bastardo dispotico non lo spiega mai nemmeno a me, se è per questo. Ma la situazione cambierà presto, vedrai.» Fu compiaciuto di quanto la sua voce suonasse determinata.

    «Signorino, non dite queste cose.» Yosip era impallidito. «Se vi dovesse sentire…» I suoi occhi guizzavano ansiosi tutt’intorno, quasi aspettandosi che il maestro potesse sbucare fuori dall’aria da un momento all’altro.

    Ahri sbuffò, irritato dall’atteggiamento del vecchio. «Sì, sì, va bene. Come ti pare. Ma vedrai se non ho ragione.»

    Melqart

    Ancora ansimando per la rabbia, finì di mettere le nuove protezioni magiche all’ingresso del suo studio, protezioni che probabilmente sarebbero state inutili contro quell’incosciente ragazzino.

    Stava valutando se andare a cercarlo per vedere cosa stesse combinando, quando il cristallo di ossidiana iniziò a lampeggiare al centro dello scrittoio.

    Melqart rimase a fissarlo per un minuto buono, mentre rifletteva. Era la prima volta che accadeva. Era sempre lui a contattare gli altri possessori dei cristalli, mai il contrario. Aveva detto chiaramente a tutti di non usarli, a meno che non ci fosse un’emergenza di qualche tipo. E per emergenza intendeva soprattutto il pericolo che accadesse qualcosa ai cristalli stessi: un naufragio, una guerra…

    Prese in mano la piccola sfera con cautela, come se da un momento all’altro potesse saltarne fuori un ratto, e pronunciò la parola di risposta. Non era vera magia, ma qualcosa di più antico, precedente alla Guerra del Chaos, durante la quale la maggior parte dei manufatti degli Antichi era andata distrutta o perduta. E con essi l’abilità di ricrearli. La cosa migliore era che chiunque poteva usarli, bastava conoscere la formula per l’attivazione.

    Attese fino a che un’immagine si formò nelle sue profondità, un’immagine impossibile. Socchiuse gli occhi e li avvicinò per vedere meglio, e la persona dall’altra parte fece un salto. Per un momento di assoluto terrore, temette che avrebbe lasciato cadere il cristallo, ma all’ultimo istante la persona, o meglio il bambino, ritrovò la presa.

    «Chi diavolo sei tu, moccioso? E cosa fai con quel cristallo?» Il bambino pareva come imbambolato, lo fissava con i grandi occhi azzurri spalancati e la bocca aperta. Forse era un po’ tardo di mente, ipotizzò.

    «Wow» lo sentì sussurrare. Dopodiché proruppe in una sfilza di domande, come se si fosse aperta una diga. «Chi siete voi? Cos’è questa cosa? Come funziona?»

    «Le faccio io le domande qui, razza di mostriciattolo maleducato!» La faccia del bambino si contorse in modo sospetto e il labbro inferiore tremò leggermente. Se si mette a frignare, non ne usciamo più. Melqart si impose di fare un bel respiro e calmarsi. Doveva assolutamente capire cosa stesse succedendo. Quale cristallo era? E perché era nelle mani di un moccioso mezzo ritardato? «Ehm… scusa, piccolo. Non sono arrabbiato con te, ma vedi, si dà il caso che quell’oggetto sia mio. L’ho prestato a un… amico, tempo fa. Soltanto lui dovrebbe usarlo, perciò mi sorprende che ce l’abbia tu. Dove l’hai preso? E chi ti ha insegnato a usarlo?» L’espressione del bambino pareva scettica. Ma chi voglio prendere in giro? Perfino un mocciosetto di sette o otto anni riesce a vedere che sto fingendo.

    Il bambino parve riflettere, o forse era solo lento, poi si decise. «Era sulla scrivania di mio nonno.»

    «Oh, tuo nonno. E come si chiama tuo nonno?»

    «È il Conte Naxis, mia madre è sua figlia.»

    Ah! Melqart tirò un sospiro di sollievo. Almeno adesso sapeva dov’era. «E come mai ce l’hai tu, mio caro?»

    «Non c’è bisogno di usare quel tono condiscendente. Guardate che non sono mica un bambino piccolo.»

    Melqart modificò leggermente il registro. Non sapeva come si parlasse ai bambini, in realtà. Ahri non era mai stato così infantile. «Bene, meglio così. Ora, per favore, vorresti rispondere alla mia domanda?»

    «Non lo direte a mio nonno, vero? Lui non vuole che entri nel suo studio. Si arrabbierebbe molto.»

    Allora perché diamine ci sei entrato? «Certo che no, se mi prometti che non ti avvicinerai più al cristallo. È un oggetto molto prezioso, sai?»

    «È magico, vero? Cosa fa?»

    «Dovresti averlo già capito da solo.» Fece un altro respiro profondo. «Comunque, serve per comunicare a distanza.»

    «Tutto qui? Nient’altro?»

    Quel moccioso cominciava a irritarlo. «Ti sembra poco?»

    «Quando l’ho toccato, ho sentito che era molto potente, credevo potesse fare chissà che…»

    «Tu cosa?» Il tono di Melqart si era alzato senza che se ne accorgesse. Calma. «Come sarebbe che hai sentito che era potente? In che modo?»

    Il bambino spalancò di nuovo gli occhi. «Anche questo però non dovete dirlo al nonno. Non vuole che parli dei miei poteri. Credo che lo imbarazzi.»

    «Non glielo dirò. A me farebbe piacere che me ne parlassi, è molto interessante.» E lo era davvero.

    «Anche voi potete vedere il futuro?» chiese il bambino, di colpo eccitato.

    «Io… be’, non proprio. Diciamo solo che ho qualche potere anch’io. Ma parlami prima dei tuoi.»

    Il bambino fece spallucce. «Io vedo cose, il futuro perlopiù. Faccio dei sogni.»

    «Puoi anche guarire le persone?»

    «Non ho mai provato. La mamma pensa che quando sarò più grande forse ci riuscirò.»

    Un veggente, forse un guaritore, e nipote di Naxis. Il bastardo non gliene aveva mai parlato. Non che si sentissero spesso, negli ultimi tempi, però… A Melqart non piacevano le sorprese. Un bambino così piccolo con dei poteri già sviluppati, quando non avrebbe dovuto accadere fino all’adolescenza. Non era comune. Decisamente non era comune. «Come ti chiami?»

    «Il mio nome è Nisan. E voi?»

    «Oh, io sono solo un vecchio amico di tuo nonno. Nisan, eh? È davvero un bel nome.»

    «Grazie.» Il bambino sorrise compiaciuto.

    «Sapevi che nella lingua antica significa miracolo?» Lui spalancò gli occhi azzurri e scosse la testa. In quel momento Melqart lo guardò meglio. «Sei sicuro di essere un maschio?» Era una domanda un po’ stupida. Portava i capelli corti, era vestito da maschio, e si era presentato come tale. Eppure… Il moccioso, però, mosse la testa in su e in giù con decisione e lui temette di nuovo per il cristallo. «A ogni modo, come hai fatto ad azionarlo?»

    Lui parve confuso dalla domanda. «Non lo so» ammise, candidamente. «L’ho preso in mano e devo aver fatto qualcosa…»

    Assurdo. «Sei davvero in gamba. Ora, però, da bravo, spegnilo e rimettilo, con attenzione, dove l’hai trovato. Va bene?»

    «Sì, d’accordo.» Il bambino fece un luminoso sorriso. «Mi ha fatto piacere parlare con voi.» Poi l’immagine svanì.

    Mocciosi… Ma che avevano tanto da sorridere? Gli venne un pensiero bizzarro. Per qualche motivo, quel ragazzino gli ricordava Ahri. Aveva più o meno la stessa età, la pelle altrettanto bianca, i capelli e gli occhi erano un po’ diversi, ma la corporatura snella e i lineamenti delicati erano simili. Poi comprese: lui e Ahri erano imparentati, anche se alla lontana. I loro nonni erano cugini. Un pensiero ancora più sconvolgente gli attraversò la mente: possibile che Ahri, oltre a quelli avuti dal dio, avesse ereditato dal ramo paterno poteri di guarigione o di veggenza? Avrebbe dovuto investigare.

    Anno 1214 d.R.

    Aresia - Sheratan


    «Sei morto già per la quinta volta, oggi» annunciò allegramente suo padre, abbassando la spada di legno da allenamento. «Vuoi che lasciamo stare?»

    Shera si tirò su a fatica da terra, spazzolandosi la polvere dai pantaloni di cuoio. Si massaggiò le costole doloranti dove era stato colpito e fece una smorfia. Sarebbe rimasto un livido. Il medaglione al suo collo era di nuovo scivolato fuori dalla camicia, e il brillare del sole sul metallo argenteo lo distraeva, così lo rinfilò dentro, rabbrividendo nel sentire il freddo contro la pelle.

    Approfittò della sosta per riprendere fiato, poi si tirò indietro con le dita i capelli scuri dai riflessi ramati, che ormai gli arrivavano ben sotto le orecchie e gli cadevano sugli occhi quando si chinava. Suo padre insisteva che li tenesse più lunghi degli altri ragazzi, in modo da coprirgli la nuca e nascondere così la mancanza del marchio di nascita.

    A lui non era ancora ben chiaro come mai non avesse la piccola spada scarlatta come il padre e tutti gli altri, ma finora nessuno in paese ci aveva fatto caso. In realtà, un segno ce l’aveva: una macchia violacea e informe sulla spalla sinistra. Suo padre però diceva che era una voglia, non un marchio. Tua madre aveva voglia di fragole quando aspettava te, dev’esserti venuta per quello, gli aveva detto scrollando le spalle.

    Raccolse la spada da terra e guardò il padre con aria di sfida. «Non ci penso nemmeno. È ancora presto, continuiamo.»

    Kal sospirò e scosse la testa, ma sorrideva. Aveva accettato di allenarlo con la spada dopo che Shera, di ritorno da una gita a Colle Freddo dove aveva potuto ammirare dei veri soldati nelle loro uniformi scarlatte, aveva espresso la sua intenzione di arruolarsi appena compiuti i sedici anni necessari. Entrambi i genitori si erano opposti all’idea, ma suo padre si era offerto di forgiare una spada apposta per lui e insegnargli a usarla, purché lasciasse perdere la storia di diventare soldato.

    Shera non aveva davvero lasciato perdere, l’aveva solo accantonata per il momento. Sebbene si allenasse già da diversi mesi, non vedeva però grandi miglioramenti.

    Si gettò verso l'avversario che, come al solito, parò con facilità il suo colpo impreciso, spingendolo indietro.

    «Non ti servirà a niente continuare così, devi pensare prima di agire. Le tue mosse sono fin troppo prevedibili.»

    Shera sbuffò. Gli aveva ripetuto quelle cose mille volte, ma non era affatto facile cogliere il padre di sorpresa. Ancora non riusciva a capacitarsi che sapesse usare una spada, e così bene per giunta, ma ogni volta che chiedeva spiegazioni al riguardo lui restava sul vago.

    Tentò un ennesimo affondo, questa volta cambiando direzione all’ultimo momento e mirando alle gambe. L'uomo riuscì di nuovo a parare il colpo, anche se con qualche difficoltà in più.

    «Va già meglio» approvò Kal.

    «Ma non ti ho colpito.»

    «Non importa, con il tempo ci riuscirai. Abbi un po’ di pazienza.»

    «Posso allenarmi anch’io con voi?» La vocetta di Lexi proveniva dal bordo del loro campo di addestramento improvvisato nel cortile tra la casa e la fucina. Entrambi si girarono a guardarla.

    «Perché mai vorresti imparare?» chiese suo padre, sorpreso.

    «Sembra divertente.»

    Shera alzò gli occhi al cielo. «Guarda che non è mica un gioco. Scommetto che è solo perché lo faccio io che vuoi provare. Sei la solita invidiosa.»

    «Non è vero, uffa!»

    «Lexi, sei ancora troppo piccola, in ogni caso. Tra un paio d’anni, se sarai ancora di quest’idea, allenerò anche te» disse suo padre.

    Shera ne fu sconcertato. «Ma papà… Lei è una ragazza.»

    «E con questo? Alcuni dei nostri migliori soldati sono donne, lo sai, no?»

    «Sì, forse. Ma non come lei, scommetto. Insomma, guarda com’è vestita… Come pensi di allenarti con la spada vestita così?» aggiunse, rivolto a Lexi. Sua madre doveva aver cucito dei merletti al suo grembiule, e un fiocco rosa sul davanti, uguale a quello che portava tra i capelli.

    «È vero tesoro, quell’abbigliamento non è adatto per queste cose. Anche se sei molto carina» le disse Kal, cercando di consolarla. Poi socchiuse gli occhi. «Che… che cos’hai al collo, Lexi?» La sua voce sembrava a un tratto tesa.

    «Oh, questa? Bella vero? Me l’ha data la mamma oggi» rispose lei, sollevando tutta orgogliosa quella che sembrava una collanina d’argento con un pendente. Una perla, forse.

    Shera si lasciò sfuggire un’esclamazione soffocata. Dove aveva preso una cosa così costosa? Sussultò per un tonfo improvviso. Suo padre aveva gettato la spada e si stava dirigendo a grandi passi verso la casa, lanciando uno sguardo gelido alla collana mentre passava.

    Lexi era rimasta a bocca aperta. Guardò verso di lui con espressione interrogativa e ansiosa, come per capire cos’aveva fatto di sbagliato, ma Shera allargò le mani: ne sapeva quanto lei.

    Udirono delle urla provenire dall’interno della casa. Shera tentennò, poi lasciò cadere la spada e corse a sentire.

    Lexi gli trotterellò dietro, e insieme si fermarono ad ascoltare accanto alla porta d’ingresso, che era rimasta socchiusa. Shera fece cenno alla sorella di stare zitta. Lei annuì con aria da cospiratrice e si appoggiò al suo fianco per sentire meglio.

    «… nessun diritto, Agnes! Quella collana non è tua!»

    La risposta della donna suonò incerta. «La bambina voleva qualcosa da mettere con il suo bel vestito nuovo. Ho pensato che non ti sarebbe dispiaciuto.»

    «Non avresti dovuto dargliela! L’avevo nascosta per un motivo. Hai frugato tra le mie cose? Che diamine ti è saltato in testa?»

    Shera non aveva mai udito suo padre alzare la voce in quel modo e il fatto di non capirne il motivo lo spaventava.

    «Alexia è la nostra unica figlia femmina, credevo che gliel’avresti data comunque, prima o poi. O pensavi forse di darla a Shera? Non credi che sarebbe un po’ strano che se ne andasse in giro con una collana di perle al collo?»

    «A chi volevo darla è affar mio. Quella collana è mia. Mia! Hai capito? Tu non avresti dovuto nemmeno toccarla.»

    «Se non avevi intenzione di darla a lei, allora avremmo potuto venderla. Tutte le volte che ci siamo trovati in difficoltà…»

    «Ma allora non mi stai a sentire, stupida donna! Ti ho detto che quel che ci faccio è affar mio, e solo mio. Cosa dovrei fare ora, eh? Riprendermela e far piangere la bambina?»

    «Allora lasciagliela e basta. È solo una stupida collana, santo cielo!» Ora anche sua madre stava urlando.

    Shera si girò verso la sorella, che sbatteva con forza le palpebre sugli occhi umidi, sforzandosi di non

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