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Pedine sacrificabili
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Pedine sacrificabili

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About this ebook

Sono passati dieci giorni da quando Michel Sidibé, detto il Ragno, ha assaltato una miniera di uranio in Niger, gestita dall’imprenditore italiano Armando Corrado Granata. Ma l’impresa è fallita, grazie all’intervento della Task Force Geko, una squadra del 9° Reggimento d’Assalto Paracadutisti “Col Moschin” guidata dal capitano Ferrone.
Ora Sidibé è in fuga e si rifugia in Libia, ricercato da tutti i servizi segreti occidentali. Anche Ferrone però è in fuga, dopo che due uomini hanno cercato di ucciderlo.
Dopo Protocollo Granata, Alessandro Cirillo e Francesco Cotti ritornano con un nuovo emozionante romanzo dal ritmo serrato e ricco di azione. Pedine sacrificabili si aggiunge al nascente genere Action Tricolore che conta già diversi libri dei due autori.
Purtroppo, in questo grande gioco ci sono delle pedine sacrificabili.
LanguageItaliano
Release dateDec 13, 2021
ISBN9788855391900
Pedine sacrificabili

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    Book preview

    Pedine sacrificabili - Alessandro Cirillo

    Introduzione

    Francesco Cotti

    Anche in questa occasione ho avuto il grandissimo piacere di collaborare con Alessandro per dare un seguito al nostro primo esperimento di scrittura a quattro mani: Protocollo Granata. Un esperimento che ci ha convinto così tanto da indurci a replicarlo di nuovo e che si è materializzato nel libro che state ora leggendo. Com’è lavorare con Alessandro? Si lavora bene, perché è paziente, preciso, e sa sempre dove la trama potrebbe avere dei problemi di continuità e coerenza. Per contro io mi definisco uno scrittore metodico, ma con una pessima gestione del tempo personale, e con le scadenze che sono come il classico fiocco di neve che precipita lungo una montagna e pian piano diventa una valanga inarrestabile praticamente impossibile da gestire. Dovevamo, in ogni caso, dare delle risposte ai nostri lettori, dovevamo esplorare di più i personaggi e l’universo che avevamo creato col nostro primo romanzo. E così, armandomi di santa pazienza, ho contribuito a finire le parti che ci siamo assegnati per produrre questa nuova storia. Questa volta abbiamo lavorato un po’ più a compartimenti stagni, con la revisione finale per amalgamare il tutto da parte di Alessandro. Questo per dire che se questo libro lo troverete avvincente, il 70% è merito suo. Non voglio sfilarmi dalle mie responsabilità artistiche, ma diamo a Cesare quello che è di Cesare. Che libro abbiamo scritto? Coerente col primo: pieno d’azione, di personaggi tormentati e affascinanti e di storie complesse. Nel mio caso specifico mi sono immerso negli argomenti che sono definiti "urban survival e mantracking", due argomenti vasti e complessi, di cui ho cercato di dare un qualche contributo attraverso la linea narrativa dedicata al personaggio di Paolo Ferrone. Avremo un terzo capitolo ambientato in questo universo che abbiamo creato espandendolo e introducendo nuovi personaggi? Questo non possiamo deciderlo io e Alessandro, ma dovete deciderlo voi: i lettori.

    Buona Lettura.

    Francesco Cotti

    Parma, Ottobre 2021

    Alessandro Cirillo

    Quello del sequel di un romanzo ben riuscito è un territorio che può rivelarsi ostile, insidioso. Il timore di non riuscire a reggere il confronto con il lavoro precedente può fare perdere la lucidità, facendo correre il rischio di strafare. Il desiderio di compiacere i lettori può portare ad allontanarsi da quello che era piaciuto nella storia precedente. Con Pedine sacrificabili mi auguro che tutto ciò non sia accaduto. Spero davvero che abbia mantenuto le caratteristiche apprezzate dai lettori in Protocollo Granata.

    Con Francesco ho lavorato ancora una volta bene. Come al solito abbiamo sviluppato la storia in lunghe sessioni di messaggi vocali su WhatsApp oppure in videochiamata. Ci siamo divisi i compiti e abbiamo sgranato capitolo dopo capitolo, ritagliandoci un po’ di tempo tra famiglia e lavoro. La sua conoscenza tecnica di una moltitudine di argomenti è stata molto importante per la stesura del libro.

    La tecnologia, se ben utilizzata, è qualcosa di meraviglioso. Nel caso di me e Francesco ha contribuito a creare ben due romanzi senza neanche mai esserci incontrati. E cosa ancora più importante, ha permesso la nascita di una bella amicizia.

    Insomma, ci sono tutti i presupposti per continuare questo sodalizio anche in futuro, magari con nuove idee e progetti.

    Buona lettura!

    Alessandro Cirillo

    Torino, Ottobre 2021

    Autostrada E35 (Svizzera), 22 novembre

    Erano passati tredici lunghissimi minuti dalla sparatoria.

    Paolo Ferrone continuava a far rimbalzare gli occhi tra il parabrezza e lo specchietto retrovisore. Per mantenere la lucidità stava cercando di concentrarsi sulla respirazione. Prendeva lunghe boccate per riempire l’addome d’aria e buttava fuori sempre dalla bocca. Sette secondi per inspirare, altri sette per espirare. Così gli avevano insegnato anni prima al corso di approccio al nuoto tattico. Respirazione addominale, per calmarsi, concentrarsi e schiarire le idee prima dell’azione. Nonostante la disciplina che si stava imponendo era in un bagno di sudore e il cuore stava iniziando solo in quel momento a rallentare il ritmo.

    Cercò di analizzare la situazione nella sua globalità. Le condizioni meteo erano buone: cielo nuvoloso senza accenni di pioggia, visibilità orizzontale ottima. Il cruscotto della BMW sottratta ai due sicari che avevano provato a ucciderlo segnava una temperatura esterna di undici gradi, il traffico sull’autostrada era scorrevole. Fece una verifica mentale di cosa aveva a disposizione: una Glock 19 con sedici colpi, trecento franchi svizzeri, il portafoglio con i suoi documenti e più della metà di serbatoio di gasolio. Indossava una giacca invernale in Gore-Tex nera, un maglione in lana e scarponcini leggeri della Salomon. Agganciata alla cintura portava la sua inseparabile pinza multiuso Leatherman Wave, al polso il grosso orologio Luminox. E nel porta-badge da collo custodiva la maledetta chiavetta USB.

    Impostò il cruise control dell’automobile per tenersi a cinque chilometri orari sotto il limite di velocità vigente su quel tratto autostradale. Controllò l’aletta parasole alla ricerca di qualche indizio. Non trovò nulla. Quindi, contorcendosi sul sedile, aprì il cassetto portaoggetti lato passeggero. Conteneva solo un paio di fogli dell’assicurazione e il libretto di uso e manutenzione, in tedesco. Con la mano affondò dentro il vano per cercare qualsiasi cosa. Era impossibile che un veicolo usato da due sicari non avesse qualcosa di utile. Certo, poteva essere una scelta premeditata utilizzare un’autovettura sterile, tuttavia Ferrone si fece l’appunto mentale di verificare appena possibile il baule. Alla fine, le sue dita trovarono una biro in plastica. La guardò e se la infilò nella tasca della giacca.

    Verificò il navigatore satellitare sul grosso display touch. Si era liberato subito del suo smartphone per evitare di essere tracciato, ma dopo una breve riflessione aveva compreso che una BMW dotata di GPS era la cosa più tracciabile che potesse esistere.

    Aveva bisogno di pianificare la sua fuga con l’attraversamento del confine svizzero. Gli servivano dati, tempi, cartine e indicazioni di eventuali risorse. Il sistema integrato di navigazione dell’automobile era un buon compromesso, in quanto poteva essere utilizzato proprio per questo tipo di organizzazione. Finché fosse rimasto in movimento sull’automobile sarebbe stato un bersaglio più difficile da colpire. Appena si fosse fermato, però, avrebbe dovuto avviare un piano realistico e fattibile.

    L’addestramento e le varie esercitazioni SERE¹ eseguite negli anni con il Col Moschin in Italia avevano dato a Ferrone una serie di schemi e procedure da seguire. Per quanto potesse sembrare bizzarro, certe cose erano molto più codificate di quanto si potesse immaginare.

    La sua attuale situazione rientrava nella categoria di spostamento in un ambiente semipermissivo. Non doveva superare il confine di due paesi in guerra fra loro, ma aveva elementi ostili che gli stavano dando la caccia. I movimenti in ambienti semipermissivi erano caratterizzati da pianificazione accurata e avevano il vantaggio del fatto che il tempo non era un fattore di minaccia. Tradotto: poteva impiegare tutto il tempo necessario per attraversare il confine, l’importante era non farsi notare dalla popolazione locale e, naturalmente, evitare di farsi catturare dai suoi inseguitori.

    L’istruttore che anni prima aveva tenuto il corso delle tecniche di evasione e fuga era stato molto chiaro nei confronti degli allievi. Ferrone ripensò le sue parole.

    Quando si tratta di attraversare un confine di una nazione civilizzata bisogna porsi una domanda: lo faccio in modo legale o illegale? Decisa la risposta, c’è una serie di comportamenti pre-codificati da adattare alla situazione specifica.

    Se siete costretti a superare il confine in modo illegale, cercate di ragionare in maniera tridimensionale. Posso passare sopra, sotto o di fianco? Evitate tutte le soluzioni che adottano nella zona gli immigrati clandestini: sono trucchi che qualsiasi Polizia di frontiera conosce alla perfezione. Verreste intercettati subito. Pensate a un piano il più possibile semplice, ma domandatevi sempre se non è già stato utilizzato dai clandestini. E ricordatevi che funziona così per tutte le nazioni del mondo, perché tutte hanno i confini che vengono bucati da traffici di clandestini.

    Ferrone ricordò che durante il corso, con i suoi colleghi allievi Incursori, gli istruttori creavano diversi scenari con cui testarli. Si trattava di veri e propri giochi di ruolo. Le assegnazioni potevano essere di vari tipi. Ad esempio, partendo da Livorno, gli allievi avevano sedici ore di tempo per incontrare delle persone specifiche da qualche parte nel Salento. Una volta arrivati dovevano ritirare un oggetto e riportarlo a Livorno senza che le pattuglie di agenti ostili simulate dagli istruttori li intercettassero. Mezzi di trasporto e metodi d’incontro con le persone dell’appuntamento erano responsabilità di pianificazione degli allievi. All’inizio era normale vedere queste attività come poco più di un gioco degli agenti segreti. Solo quando entravano nella mentalità corretta di queste esercitazioni, gli allievi comprendevano che per portare a termine queste assegnazioni servivano delle capacità non banali. Le stesse che poi avrebbero potuto utilizzare sul campo nella loro carriera. A fine corso gli istruttori illustravano nel dettaglio alcune attività di Intelligence svolte nei Balcani, in civile, da operatori del Col Moschin. Missioni a dir poco audaci, ma che avevano contribuito a sviluppare quelle capacità e procedure che ora stava impiegando Ferrone per pianificare la sua fuga dalla Svizzera.

    Durante tutto il tempo che si trovò alla guida, Ferrone interrogò il navigatore sulle strade alternative per passare il confine, la posizione di centri commerciali e di parcheggi. Allo stesso tempo cercava di capire se ci fosse un potenziale team di inseguitori alle calcagna. Non riuscì a individuarlo, perché la maggior parte degli altri veicoli sull’autostrada lo superavano senza rimanere nella sua scia per più di una manciata di secondi.

    Forse ci sono più squadre di sorveglianza che si danno il cambio per non dare nell’occhio?

    Ferrone cercò di scrollarsi di dosso la paranoia, rammentando però che fino a quel momento era rimasto vivo proprio grazie a una generosa dose di essa.

    Cercate nell’ambiente la presenza dell’anomalo e l’assenza di esso dove dovrebbe esserci.

    Le parole del suo istruttore di SERE tornarono nelle sue orecchie. I veicoli intorno a lui procedevano tranquilli, alle spalle nessun veicolo che lo tallonava tenendosi a distanza. Niente velivoli visibili nel cielo. Ferrone aveva elaborato il suo piano in base agli algoritmi SERE utilizzando la mappa del navigatore. Aveva impostato la sua destinazione che avrebbe raggiunto in meno di tre ore. Sarebbe stato abbastanza vicino al confine italiano, ma allo stesso tempo a una distanza tale da confondere eventuali inseguitori.

    Il resto del viaggio proseguì senza particolari eventi. Purtroppo, l’incursore non riuscì a godersi i panorami elvetici che la superstrada attraversava. Il navigatore lo guidò al parcheggio della stazione ferroviaria di Locarno. Non c’era molta gente in giro e l’area di sosta, non particolarmente grande, era mezza vuota. Mancava un quarto d’ora a mezzogiorno. Parcheggiò all’interno di uno spazio delimitato da righe che davano l’idea di essere state rifatte il giorno prima. Ferrone si guardò attorno. Nulla di anormale. Per qualche motivo rimase sorpreso del fatto che la sua BMW fosse l’unica automobile di grossa cilindrata in tutto il parcheggio, dominato invece da utilitarie italiane e francesi.

    «Allora in Svizzera ci vivono anche i comuni mortali…» sussurrò tra sé e sé. Controllò di nuovo l’area. Il suo cuore accelerò leggermente il ritmo. Infilò la pistola nella tasca destra della giacca. Al contrario di quanto si poteva credere, uno dei metodi meno sicuri per portare una pistola senza fondina addosso era quello di infilarla a canna in giù tra maglietta e pantaloni. Era una posizione dolorosa nel caso avesse avuto bisogno di correre. Aprì la portiera e girò intorno all’automobile, interpretando la parte del proprietario alla ricerca di un inestetismo sulla carrozzeria. Solo dopo la finta ispezione aprì il bagagliaio. Al centro di un immacolato cassone di velluto nero riposava uno zainetto grigio in cordura di nylon. Ferrone lo osservò per qualche istante. Era di una nota marca di materiale sportivo e aveva un look vagamente militare. Aprì la cerniera dello scomparto principale e cercò di non mostrare sorpresa sul volto. Per un osservatore esterno doveva passare per il possessore legittimo di quell’oggetto. Infilò una mano dentro e con le dita riconobbe buona parte del contenuto. Lo zainetto conteneva un IFAK² di tutto rispetto: una sacca di liquido emoespansore con i relativi kit da infusione, vari bendaggi emostatici, due tourniquet tattici, varie cannule oro-faringee, guanti e via dicendo. Valutò che quel trauma kit era stato assemblato da qualcuno che ne capiva ed era comparabile ai migliori standard militari. Di conseguenza, i due sicari che aveva eliminato avevano con loro un equipaggiamento per affrontare le ferite da armi da fuoco. Ferrone fece una smorfia d’approvazione. Svuotò lo zainetto di buona parte del contenuto, trattenendo solo quegli elementi essenziali che potevano diventare utili per un’eventuale emergenza. Ciò che davvero gli serviva era un minimo di volume di trasporto. Indossò lo zainetto e chiuse l’auto col telecomando. Si guardò attorno e sorrise: il navigatore era aggiornato. Il ristorante era dall’altra parte della strada ed era aperto.

    Se vi trovate nelle condizioni di attraversare un confine in modo illegale ricordate di avere a disposizione tre cose prima di farlo: buoni abiti, buone scarpe e tanto cibo nello stomaco.

    Ferrone ringraziò mentalmente il maresciallo istruttore per i suoi preziosi consigli e s’incamminò verso l’ingresso del locale. Una volta all’interno, si ritrovò nel pieno di un’ambientazione in stile vecchio West. L’aspetto ricordava quello di un saloon che si poteva vedere in un film western, con tanto di porte a spinta e un lungo bancone in legno. Appesi alle pareti si potevano apprezzare vari falsi cimeli dell’epoca come fotografie in bianco e nero di pistoleri, o addirittura una serie di rivoltelle. Alcuni tavoli più grandi sorgevano sotto una sorta di capanna indiana e c’era addirittura un’area che riproduceva una prigione. Solo tre tavoli erano occupati da altrettante coppie e una famiglia di quattro persone aveva da poco preso posto nella zona prigione. Nessuno lo degnò di uno sguardo.

    Una cameriera minuta e carina gli andò incontro. «Buongiorno, solo lei?» domandò in tedesco.

    «Salve, sì, solo io» rispose Ferrone pensando a quanto terribile fosse l’accento tedesco.

    «Ah, allora, guardi, può scegliere quel tavolo, quell’altro, o quell’altro…» la ragazza gli indicò tre tavoli con solo due seggiole ciascuno. Ferrone scelse quello più all’interno del locale e che era vicino all’ingresso dei servizi. Ringraziò e raggiunse il tavolo, accomodandosi in modo da tenere le spalle verso il muro e l’ingresso alla sua sinistra. Finse di scrutare con interesse le varie voci del coloratissimo menù di cartoncino, anche se in realtà era più concentrato a osservare cosa succedeva attraverso la vetrina. Da quella posizione aveva la possibilità di sorvegliare anche la BMW nel parcheggio, che era a circa sessanta metri di distanza. Raccolse i pensieri per fare il punto della situazione.

    La mattina presto aveva recuperato una chiavetta USB da una cassetta di sicurezza in una banca a Basilea, appartenente all’imprenditore Armando Corrado Granata. Costui era morto qualche settimana prima in Niger durante un’operazione militare di recupero di ostaggi italiani in una miniera d’uranio. Operazione che era stata condotta da Ferrone in persona, in qualità di capitano Incursore appartenente al 9° Reggimento d’Assalto Paracadutisti Col Moschin. Poco prima di morire Granata gli aveva confidato i codici per recuperare la memoria USB e chiesto di divulgarne il contenuto, affinché potesse essere vendicato. Ferrone aveva visionato in albergo il contenuto della chiavetta, risultata essere una sorta di confessione di Granata. L’imprenditore aveva raccontato dell’esistenza di un governo non legittimo parallelo in Italia formato da influenti imprenditori e i vertici dei Servizi Segreti. Un apparato parastatale esistente da decenni che controllava il destino della nazione all’ombra dei vari governi fantoccio che si susseguivano. Questa entità, denominata il Consorzio, poteva contare su di un illimitato potere a livello economico, politico e operativo: infatti Granata era stato assassinato proprio da un agente del Consorzio infiltrato nella squadra d’assalto. Ora che Ferrone era venuto in possesso di questa testimonianza postuma, dove venivano fatti nomi e cognomi degli appartenenti al Consorzio, era diventato egli stesso un bersaglio da eliminare. Appena uscito da Basilea era stato aggredito da due sicari che aveva eliminato e a cui aveva rubato la BMW per fuggire. Tutto questo nel giro di cinque ore scarse.

    La cameriera apparve con un tablet in mano. «Ha scelto? Cosa le faccio portare?» Ferrone cercò di tornare nella parte del turista italiano che era lì per caso. «Ehm… Questa tagliata con le patate» ordinò indicando una fotografia sul menù.

    Il dito della ragazza rimbalzò rapido sul display del tablet. «Bene. Salse?»

    «Tutte quelle che avete.»

    La cameriera sorrise e annuì.

    «E un’altra porzione abbondante di patate al forno, a parte. Per favore.»

    «Ma ci sono già nel piatto che ha ordinato, signore» fece notare con garbo la ragazza.

    Ferrone sogghignò. «Oggi avrò bisogno di tanti carboidrati, mi creda.»

    «Ok, signore. E da bere?»

    «Quattro bottiglie d’acqua. Sa, se le patate sono salate…»

    La ragazza annuì ancora una volta, divertita.

    «Altro, signore?»

    «No, sono a posto. Grazie.»

    La cameriera si allontanò con passo svelto. Ferrone tornò a scrutare la vetrina. Il solito passaggio di persone indaffarate, impegnate a controllare il proprio smartphone o a parlare tra loro. Poche automobili in movimento. Dopo qualche minuto, tornò la cameriera con due piatti e la busta contenente le posate. Le bottiglie d’acqua arrivarono subito dopo con il relativo scontrino. Tre bottiglie finirono subito nello zainetto. Ferrone addentò la carne e iniziò a mangiare a ritmo sostenuto. Non aveva molto appetito, era ancora troppo concentrato sulla pianificazione mentale delle mosse successive, tuttavia si impose di mangiare tutto. Fu quando arrivò al piatto aggiuntivo di patate che serrò la mandibola e si congelò. Due uomini, spuntati dal nulla, si erano avvicinati alla BMW. Girarono intorno a essa per qualche secondo, poi uno dei due si attaccò allo smartphone. Avevano la carnagione chiara, più o meno della stessa statura, sul metro e ottanta. Corporatura snella e spalle larghe. Uno era calvo con una barba rossiccia e indossava occhiali scuri, jeans e un giubbotto sportivo grigio. Il compare era biondo coi capelli lunghi raccolti con un elastico in una corta coda e si distingueva per la giacca verde oliva che imitava il design dell’uniforme M65. Ferrone volle dare un nome a entrambi. Quello con la barba lo soprannominò il Ceceno in virtù dei peli facciali rossi, mentre l’altro gli ricordava il cantante Sting col suo look della fine degli anni ’80. I due si trattennero intorno all’auto per più di due minuti. Era una cosa anormale.

    Ferrone proseguì a mangiare senza togliere gli occhi di dosso ai due tizi. Il Ceceno terminò la telefonata e si avviò verso la pensilina della stazione di buon passo dopo averla indicata al collega. Sting, invece, si guardò attorno per qualche secondo prima di dirigersi verso le vetrine dei negozi di un palazzo sul lato opposto del parcheggio. Quando i due tizi scomparvero, Ferrone tornò a concentrarsi sul cibo. Negli otto minuti successivi la vetrina tornò a incorniciare la neutra, noiosa e perfetta vita dei cittadini di Locarno.

    Forse sono stato troppo paranoico.

    Bevve tutta la bottiglia d’acqua e spazzolò anche la porzione extra di patate al forno. Si alzò dal tavolo, indossò lo zainetto e andò alla toilette. Camminò tenendo sempre le orecchie tese, pronto a carpire ogni attività sospetta. Nel bagno degli uomini era solo. Venne accolto dall’odore pungente del disinfettante misto all’odore di urina. Quando ebbe finito di svuotare la vescica e dopo essersi lavato in fretta le mani tornò in sala. Raccolse lo scontrino dal suo tavolo e guardò ancora fuori dalla vetrina, poi la porta d’ingresso. Il cuore perse un colpo.

    Sting era sulla soglia e stava parlando con un cameriere. In una mano aveva un portafogli aperto, come una specie di porta tesserino, e nell’altra reggeva lo smartphone. Stava facendo vedere entrambi al ragazzo addetto allo sparecchiare i tavoli. Sting aveva un modo di fare tranquillo, un viso rilassato, non stava sfoggiando modi aggressivi. Stava chiedendo qualcosa al cameriere mostrando le sue generalità. Da come il ragazzo raddrizzò la schiena alla vista del porta tesserino Sting doveva essere della Polizia o qualcosa del genere. Lui e il collega erano stati attirati a Locarno dalla BMW, Ferrone non aveva dubbi a riguardo.

    Il cameriere scosse la testa. Qualunque cosa fosse apparsa sullo schermo dello smartphone aveva generato una risposta negativa. Ferrone si avviò verso la cassa che era a circa sei metri dall’ingresso. La cameriera che lo aveva servito apparve dietro il registratore di cassa.

    «Tutto bene?»

    «Tutto buonissimo» rispose l’incursore sporgendo lo scontrino e cercando di dare le spalle all’ingresso. Sting parlava a voce talmente bassa che non si potevano distinguere le sue parole.

    «Sono trentadue franchi, signore.»

    Ferrone tirò fuori dal portafoglio quaranta franchi mentre con lo sguardo s’incollò su una superficie riflettente del bancone alle spalle della ragazza. Vide l’immagine riflessa di Sting che aveva fatto cenno al cameriere che poteva allontanarsi. Il ragazzo annuì e tornò verso i tavoli. Quindi, avvenne l’inevitabile. Sting si girò verso la cassa. Ferrone vide i suoi occhi agganciarsi a sua volta all’immagine riflessa dal vetro dietro la ragazza. Il contatto visivo ci fu solo per un decimo di secondo. Entrambi avevano capito. Ferrone serrò la mandibola mentre Sting si allontanò inspiegabilmente dopo aver indugiato un istante di troppo sulla soglia.

    «Tutto bene, signore?» domandò la cameriera notando l’espressione di Ferrone, il quale non rispose. «Tutto bene?» chiese di nuovo la ragazza con un mezzo sorriso, allungando il resto verso lo strano cliente.

    «Sì, tutto ok. Grazie. Arrivederci.»

    Ferrone prese il resto con una mano e se lo infilò in tasca. Si avvicinò all’uscita cercando Sting e il Ceceno. In un attimo erano scomparsi, allo stesso modo di come erano spuntati fuori.

    Sullo stesso lato della strada del ristorante, a meno di quaranta metri c’era un ufficio postale che faceva orario continuato, proprio come era stato riportato dal navigatore della BMW. Ferrone si mescolò al flusso di pedoni ed entrò nel locale. C’erano solo due persone in fila allo sportello. Si guardò due volte alle spalle, senza notare attività sospette. Trovò su di un espositore quello che faceva al caso suo: buste imbottite per spedizioni leggere di vari formati. Prese quella più piccola e con un gesto rapido afferrò la chiavetta USB custodita nel contenitore appeso al collo. La infilò dentro la busta che sigillò utilizzando l’apposita striscia adesiva in dotazione. Andò verso un tavolino e usando la penna trovata sull’automobile compilò l’indirizzo di spedizione. Quindi, si mise in fila attendendo il suo turno. Arrivò allo sportello in meno di tre minuti e pagando undici franchi ebbe la sua spedizione. La gentile impiegata spiegò che il recapito era garantito entro quattro giorni. Ferrone ringraziò e uscì dall’ufficio postale.

    Sbucando da una via laterale, Sting notò che il bersaglio era appena uscito da un ufficio postale.

    «In movimento verso via Sempione» comunicò parlando al microfono degli auricolari del suo smartphone.

    «Va bene. Ci sono dietro» rispose il suo collega. Sting entrò nell’ufficio postale, in quel momento deserto, e si presentò allo sportello.

    «Buongiorno signora, sono l’agente Alex Bernasconi della Polizia Cantonale. Dovrei parlare immediatamente con il responsabile di filiale. È molto urgente» avvisò mostrando il tesserino all’interno del portafoglio. Si trattava di un falso che un comune civile non sarebbe mai stato in grado di riconoscere.

    Dopo un paio di minuti, Sting era seduto nel minuscolo ufficio del direttore a visionare le immagini delle telecamere.

    «Lui» esclamò indicando l’uomo ripreso di spalle allo sportello.

    Il direttore annuì. «Cosa vuole sapere, agente?»

    «Che operazione ha fatto allo sportello e che generalità ha fornito.»

    «Certo.» Il direttore, senza nascondere nervosismo, chiamò l’impiegata e spiegò la situazione. Costei andò subito a recuperare la busta e il modulo compilato dal cliente e li consegnò a Sting che iniziò a esaminarli. Come da programma, il bersaglio aveva fornito generalità false, ma la cosa non lo sorprese. Rimase invece molto interessato dall’indirizzo di recapito. Un paese in provincia di Bologna.

    «Devo requisire questi due oggetti. Trattasi di materiale sensibile di un’indagine molto complessa e importante.»

    «Ma non è possibile! Questa persona ha pagato per un servizio. Se poi dovesse reclamare…» balbettò il direttore.

    Sting si alzò in piedi e mise in tasca il foglio e la busta. «Penseremo noi della Polizia a gestire la questione. Grazie per la vostra collaborazione preziosa e impeccabile.»

    Quando fu per strada, Sting aprì la busta ed esaminò la chiavetta USB. Compose il numero del suo collega con un gioioso sorriso stampato sulle labbra. «Non ci crederai: pacco recuperato.»

    «Che gran coglione! Pensava di fregarci così! Dilettante.»

    «Sarà un dilettante, ma ha comunque fatto fuori due dei nostri. Non bisogna sottovalutarlo.»

    «Hai ragione. Chiama il capo e chiedi istruzioni.»

    Sting riagganciò e compose un altro numero.

    «Sì?» rispose subito una voce.

    «Pacco recuperato.»

    «Bene. E il soggetto? Eliminato?»

    «Negativo. Abbiamo recuperato solo il pacco.»

    Ci fu una pausa. «Verificate che non abbia fatto delle copie dei dati ed eliminatelo con discrezione. Ripeto: con discrezione. Fate rapporto ad azione eseguita.» Linea muta.

    Sting tornò in collegamento con il Ceceno. «Lo hai ancora in vista?»

    «Sì. Che dobbiamo fare?»

    «Dammi le tue coordinate che ti raggiungo. Il lavoro non è ancora finito.»

    «Capito.»

    Ferrone camminava senza fretta sul marciapiede e appena poteva cercava di sfruttare gli specchietti retrovisori dei veicoli parcheggiati per verificare se qualcuno lo stesse pedinando. Anzi, lui partiva dal presupposto che fosse pedinato, le verifiche che poteva effettuare erano solo per provare il contrario. Aveva imparato a memoria la mappa di quella zona della città, ma le indicazioni stradali riguardanti i negozi in zona gli furono piuttosto utili. Dopo una manciata di minuti a piedi a ritmo rilassato arrivò davanti a un negozio di ferramenta. Decise che la sua prossima automobile sarebbe stata una BMW: il sistema cartografico dei Point Of Interest si era rivelato di una notevole precisione. Qualche soldo da parte lo aveva messo nel corso degli anni e non si era mai tolto uno sfizio.

    Le porte a vetro scorrevoli si aprirono al suo passaggio sotto la fotocellula. Il negozio era piuttosto grande e spazioso, delle dimensioni di un supermercato medio. Si fermò al tabellone scritto nelle tre lingue dei Cantoni e si orientò per il primo reparto merceologico impresso nella sua lista mentale. All’interno del negozio c’era pochissima gente, più intenta a bighellonare piuttosto che essere davvero orientata a fare acquisti.

    Ferrone si ritrovò a rimirare un pannello espositore con utensili manuali di vario tipo. Nel cesto a rotelle di plastica che aveva preso all’ingresso fece cadere due grossi cacciavite a lama. Quindi, proseguì tra gli scaffali ed esaminò per qualche istante un rotolo di filo di ottone da un millimetro, della lunghezza di otto metri. La qualità dell’oggetto lo convinse a infilarlo nel cestino. Ogni tanto gettava un’occhiata alle spalle, senza trovare tracce di eventuali inseguitori.

    Se fosse stata un’altra situazione avrebbe anche tratto piacere dal trovarsi lì: aveva sempre adorato le ferramenta. Fin da piccolo era stato un ragazzino che aveva dimostrato inclinazione al lavoro manuale e all’uso degli utensili. Da adulto, invece, aveva sviluppato un modo alternativo di vedere un negozio di attrezzi per il fai-da-te. Quasi tutti gli oggetti in vendita potevano essere trasformati con minime variazioni in efficienti armi da mischia, attrezzi da effrazione rapida o trappole. In alternativa, potevano essere usati al momento così com’erano. Nel caso il negozio possedesse anche un reparto di prodotti chimici per l’idraulica, la pulizia industriale e la verniciatura, si poteva avere a disposizione tutto l’occorrente per creare mezza dozzina di miscugli esplosivi e incendiari di varia potenza. Tutte le formule dei vari mix le aveva apprese al corso Incursori, durante l’aggiornamento delle tecniche di guerriglia e contro-terrorismo.

    Continuò a muoversi tra gli espositori, incrociando un anziano che gli riservò un cenno di saluto. Ferrone contraccambiò e si fermò davanti ai vari set di chiavi a brugola. Ne scelse uno che conteneva una chiave di una misura particolarmente piccola e sottile. Si guardò ancora alle spalle. Nulla di sospetto. L’anziano era sparito dietro uno scaffale. Ferrone valutò di comprare anche una chiave a rullino da 250 millimetri. La soppesò: era perfetta per rompere le ossa. Finì anch’essa nel cestino. Concluse la serie di acquisti con una cesoia demoltiplicata all’apparenza molto robusta e un paio di guanti da lavoro antiscivolo di neoprene felpato. Gli acquisti erano finiti, poteva uscire da lì. Prima di raggiungere le casse per pagare, fece qualche altro giro tra gli scaffali ritornando spesso sullo stesso percorso da direzioni diverse. Non riuscì a individuare nessuna persona sospetta. Guardò l’orologio: le quindici e cinque. Il buio non sarebbe arrivato prima di tre ore.

    Ricontrollò ancora una volta il contenuto del cesto e finalmente andò a pagare. C’erano tre casse, di cui solo una presenziata da un commesso seduto con aria annoiata. Stava servendo l’anziano incontrato poco prima. Subito dopo le casse c’era l’uscita controllata da un tizio in uniforme nera e dall’aria poco sveglia. A una prima occhiata l’addetto all’antitaccheggio sembrava disarmato.

    Ferrone spostò lo sguardo oltre la porta a vetri e li vide. Il Ceceno e Sting erano sul marciapiede che dava sulla strada principale. Chiacchieravano mostrando un’aria piuttosto rilassata, tanto che il Ceceno aveva pure una sigaretta accesa tra le dita. Sembravano una coppia di amici che dovevano tirare sera.

    Tre indizi fanno una prova rifletté Ferrone.

    Prima li aveva visti armeggiare intorno alla BMW, poi Sting che lo aveva trapassato con lo sguardo al ristorante. Ora erano piazzati davanti all’unica uscita disponibile del negozio.

    Non può essere una coincidenza: sono il team d’inseguimento.

    Riconobbe che erano in gamba: non era riuscito a individuarli mentre si stava recando al ferramenta. In apparenza non lo avevano ancora visto. Stavano solo aspettando che uscisse. L’incursore fece qualche passo indietro, con l’aria di quello che si era scordato un ultimo articolo da comprare e si piazzò in fondo al corridoio tra due scaffali senza perdere di vista i due tizi oltre l’uscita. Attese che l’anziano alla cassa finisse di pagare e lo osservò raggiungere l’uscita. La guardia privata non lo degnò di uno sguardo. Le porte automatiche si aprirono. Sting e il Ceceno si voltarono di scatto per scrutare con estremo interesse chi stava uscendo dal negozio.

    Non ci sono dubbi. Ora devo trovare un’altra uscita.

    Ferrone iniziò di nuovo a girovagare per gli scaffali. Doveva individuare l’ingresso che dava accesso a un eventuale magazzino di rifornimento. Trovò una doppia porta, bianca come le pareti, difficile da notare al primo colpo. Un cartello in tre lingue recitava: PRIVATO: INGRESSO RISERVATO AL PERSONALE.

    Perfetto.

    Ferrone aprì la porta e sgattaiolò dentro. Come previsto si ritrovò nel magazzino, organizzato con scaffali identici all’area clienti, solo più freddo e meno illuminato. Senza far rumore appoggiò il cestino a terra e trasferì gli attrezzi nello zaino. La chiave a rullino finì infilata nella tasca posteriore dei pantaloni. L’idea di rubare quegli oggetti lo disturbava. Non lo aveva mai fatto in vita sua, almeno non quando era in abiti civili. Accantonò il pensiero e cercò di orientarsi per capire dove poteva essere l’uscita.

    Un uomo grassottello di mezza età, vestito con una felpa su cui era impresso il logo del negozio, stava armeggiando con un lettore di codici a barre collegato a un pc.

    Ferrone giocò d’anticipo. «Mi scusi…»

    Il magazziniere trasalì e si voltò di scatto con la faccia sorpresa. «Non si può, qui non si può stare» farfugliò.

    «Mi dice dov’è la toilette per favore?» chiese Ferrone mentre continuava a muoversi verso una zona non esplorata del magazzino.

    «Ehi! Deve uscire da quella porta, dove va?» Il magazziniere incominciò ad agitarsi con le mani. «Deve andare alla cassa, ha capito?»

    Ferrone continuò a fare il finto tonto. «No, sto cercando il bagno. Capisce?»

    Con suo grande sollievo vide un portone più grande in fondo al locale. S’incamminò di fretta verso quella direzione. Il magazziniere aveva già preso il cordless in mano e stava sbraitando qualcosa. Ferrone scattò di corsa verso il portone scoprendo che era chiuso.

    Cazzo!

    Si guardò attorno per trovare altre uscite, o delle finestre attraverso cui scappare. Nulla. Provò ancora ad aprire il portone. Nulla da fare. Cambiò tattica. A passi lunghi e mostrando un’aria minacciosa puntò il dito verso il magazziniere.

    «Apri quella porta! Adesso!» urlò.

    Il cambio repentino di atteggiamento fece ammutolire l’uomo, che rimase immobile a bocca aperta mentre guardava arrivargli addosso l’omone biondo e barbuto di novanta chili di muscoli per quasi un metro e novanta di statura.

    «Hai le chiavi?»

    «Io… non…» Il magazziniere incurvò le spalle.

    La porta che dava sul negozio si aprì e apparve la guardia giurata. «Ehi! Che stai facendo!?» Si avvicinò portando la mano alla cintura. Ferrone non volle sapere che cosa stesse afferrando. Quando fu alla distanza giusta gli fece esplodere un calcio allo stomaco. La guardia cadde sul sedere senza fiato. Il magazziniere rimase muto mostrando i palmi delle mani.

    «La porta!» urlò l’incursore. Con le mani tremanti l’uomo prese un mazzo di chiavi che aveva appeso al collo con un nastro di nylon giallo e lo appoggiò sul tavolino del computer.

    «Sono quelle…»

    Ferrone prese le chiavi e corse verso il portone. La guardia giurata era ancora a terra dolorante e venne soccorsa dal collega. Il mazzo conteneva cinque chiavi. Bestemmiando sottovoce Ferrone ne provò tre prima di vincere la serratura. Abbassò la maniglia con vigore e spinse la porta.

    «Vaffanculo! Finalment…»

    Il Ceceno e Sting comparvero tre metri davanti a lui. Erano fermi con le mani lungo i fianchi, le rispettive giacche aperte. Sguardo neutro. Dietro di loro un cortile deserto che dava su una strada altrettanto tranquilla. L’indecisione durò il tempo di un battito di palpebre. Ferrone scattò verso la strada. I due, senza dire una parola, si misero a correre per inseguirlo a loro volta. Il rumore dei passi veloci sull’asfalto risuonò nell’aria. Appena uscito dal cortile Ferrone scartò a destra, dove vide in lontananza una strada con traffico veicolare e della gente: doveva far perdere le sue tracce in mezzo ai passanti. Una mano gli ghermì la maniglia dello zainetto.

    Venne strattonato così forte che fece fatica a mantenere l’equilibrio. In qualche modo riuscì a fermarsi senza finire in un ruzzolone sul selciato. Si girò all’indietro e col braccio sinistro cercò di intrappolare quello dell’avversario attaccato allo zainetto. Era il Ceceno. Quest’ultimo, sentendo il suo braccio destro bloccato, partì con il pugno sinistro. Ferrone lo deviò con l’avambraccio destro, che poi trasformò in un pugno a martello dritto in faccia al Ceceno. Il primo colpo venne incassato senza problemi. Ferrone ricaricò il braccio e lo colpì con tutta la sua forza questa volta sul naso. Ci fu uno spruzzo di sangue e un grido.

    Sting arrivò correndo un secondo dopo. Ferrone usò il corpo del Ceceno come un sacco da scagliargli contro. Assunse la posizione di guardia e tirò fuori la chiave a rullino. Sting, scrollandosi di dosso il suo collega, rimase per un attimo sorpreso. Ferrone ne approfittò. Scattò in avanti come uno schermitore e colpì con la pesante chiave la spalla destra di Sting. Prima che ci fosse una reazione si piegò sulle gambe per abbassarsi e caricò un altro fulmineo colpo all’altezza del ginocchio destro. La gamba cedette di schianto, Sting crollò sull’asfalto con il viso contratto dal dolore. Ferrone recuperò la distanza e notò che il Ceceno era tornato in piedi con il naso sanguinante. Scattò di nuovo in avanti con la sua arma improvvisata, ma questa volta il suo braccio venne bloccato con una parata dal Ceceno, che poi gli assestò un montante all’addome con il pugno opposto. Ferrone accusò il colpo e percepì che il suo diaframma era andato in spasmo. Il Ceceno era uno che sapeva come colpire.

    Con un movimento rapido il Ceceno consolidò la presa sul braccio di Ferrone, ruotò dandogli la schiena e impostò una perfetta proiezione d’anca. Anche Ferrone era un praticante di Judo e scattarono gli automatismi dell’addestramento: atterrò sull’asfalto battendo il braccio libero sul suolo un istante prima che impattasse la schiena e tenendo il mento attaccato allo sterno in modo da contenere i danni derivati dalla caduta. Il Ceceno commise l’errore di continuare a trattenere il braccio dell’avversario. Usando questo come riferimento, Ferrone ruotò sulla schiena e impostò una forbice alle gambe del Ceceno facendolo rovinare a terra. Scattò in piedi. Appena il Ceceno cercò di rialzarsi a sua volta, Ferrone lo colpì con violenza con una gomitata orizzontale al volto. Ci fu un rumore secco, sordo. Il Ceceno si afflosciò a terra.

    Uno stronzo di meno.

    Sting a fatica si era rimesso in piedi. Estrasse un manganello tattico estensibile in metallo e caricò il colpo sopra la testa dell’incursore, il quale si proiettò in avanti con la schiena piegata e lo colpì al ventre con una testata, afferrandogli al tempo stesso le gambe. Nonostante fossero quasi della stessa stazza, Ferrone fece letteralmente volare in aria Sting, che ricadde a terra in malo modo. Per finire il lavoro, gli tirò un calcio ai testicoli, facendolo raggomitolare in posizione fetale con un grido soffocato. Ferrone prese la chiave a rullino da terra e si preparò a vibrare un colpo alla testa per finirlo quando vide apparire il magazziniere e la guardia giurata. Fece sparire la chiave in tasca e corse via.

    Si rifugiò nell’unico locale affollato a quell’ora, un bar non lontano dal centro. Prima di entrare tolse la polvere dalla giacca nera e verificò che non avesse i segni della colluttazione sul volto. Doveva passare inosservato per più tempo possibile prima di poter procedere con gli altri due passaggi del suo piano.

    Gli ultimi eventi avevano rafforzato le sue convinzioni iniziali: il dispositivo di sorveglianza che avevano sguinzagliato contro di lui era efficiente e virtualmente onnipresente. Per questo motivo Ferrone aveva scartato fin da subito l’ipotesi di attraversare il confine di giorno: con tutta probabilità sarebbe stato fermato all’istante.

    Rifletté sul fatto che lo scopo di questi individui non era di assassinarlo, almeno non subito. Sting e il Ceceno avrebbero potuto ucciderlo con facilità in qualsiasi istante e senza avvicinarsi, invece si erano ostinati ad affrontarlo a mani nude. Inoltre, erano restii ad agire in luoghi affollati. Per quel motivo Ferrone avrebbe trascorso altre due ore nel bar, con la consapevolezza che uno qualsiasi dei clienti presenti nella sala poteva essere il rincalzo di Sting e del Ceceno. Solo in quel momento, in cui doveva mostrarsi impegnato a far passare il tempo a un osservatore esterno, comprese che uno smartphone sarebbe stato utile. Valutò per un attimo di lasciare il bar e andare in un negozio per comprarne uno nuovo con una SIM svizzera, ma non avrebbe avuto molto senso. Doveva attraversare il confine senza nessun oggetto che avesse la possibilità di tracciarlo. Avrebbe risolto il problema una volta tornato sul territorio italiano.

    Con Emanuela che faccio?

    Ferrone si aggrappò per un attimo al pensiero della sua compagna. Doveva rischiare e cercare di comunicare con lei? Magari avventurandosi per cercare una cabina telefonica? Ne aveva notato qualcuna mentre passeggiava nel centro città. La disciplina gli impose di reprimere il desiderio di sentirla. Molto probabilmente sarebbe stato un gesto che avrebbe compromesso il suo piano e potenzialmente messo in pericolo anche lei. Si impose di sentirla appena fosse stato davvero al sicuro in Italia. Ormai erano sei ore abbondanti che stava vivendo una tensione continua, tutti i sensi tirati al massimo e il cervello che senza sosta elaborava scenari su scenari. Sapeva che sarebbe stato in grado di reggere quel carico di nervosismo per circa ventiquattrore di fila, poi in un modo o nell’altro avrebbe dovuto cercare di dormire. Lo aveva già fatto in passato, e conosceva alla perfezione la sua capacità di gestione dello stress.

    Osservò il fondo della tazza di cioccolata calda che aveva ordinato assieme a dei biscotti. Ne avrebbe ordinata volentieri un’altra, ma sapeva che dal punto di vista calorico era già a posto. Diede un’occhiata all’orologio: quasi le diciassette. Ormai fuori il cielo stava virando verso il tramonto e le luci dei lampioni e delle automobili stavano animando la città.

    Per fortuna il locale, senza dubbio una meta gettonata per turisti, aveva una piantina della città sul menù con tutte le varie attrazioni della zona. La studiò a memoria. Poi, senza dare troppo nell’occhio, infilò il menù nello zainetto. Una mappa faceva sempre comodo.

    Su uno dei televisori LCD appesi alle pareti, che per tutto il tempo avevano trasmesso brevi video di news, videoclip musicali e informazioni meteo, apparvero delle immagini che attirarono subito l’attenzione di Ferrone. Era la sua Toyota presa a noleggio parcheggiata a lato dell’autostrada, circondata da poliziotti e barellieri di un’ambulanza. Ferrone si dimenticò di respirare per parecchi secondi. Le riprese si soffermarono sui due corpi coperti da un lenzuolo azzurro. Accanto a essi dei tizi che davano l’idea di essere poliziotti impegnati a camminare parlando al telefono, in un vano tentativo di darsi dell’importanza.

    La scritta in sovraimpressione era in tedesco e riportava: due cadaveri ritrovati nella zona di Basilea. Un brivido percorse la schiena di Ferrone quando la Toyota venne inquadrata meglio. Dei tizi dotati di guanti di lattice stavano estraendo dal baule il suo trolley e la borsa del notebook.

    Nella sua mente si rincorsero decine di scenari disastrosi. La Polizia Cantonale era di certo già risalita al suo nominativo dalla targa del veicolo. Il notebook era un problema relativo. Non conteneva troppi dati personali, se non qualche decina di foto di lui ed Emanuela, qualche irrilevante e-mail privata e le sue schede di allenamento. Non c’era nessun riferimento alla sua carriera militare e, inoltre, il notebook era protetto con il sistema di crittografia Bitlocker di Windows. Se la Polizia svizzera avesse voluto accedere ai dati, avrebbe dovuto perdere qualche ora per violare l’apparecchio.

    Ok, sanno che devono cercare tale Paolo Ferrone, che abita a Livorno. Quindi hanno sicuramente aumentato i controlli alla frontiera con l’Italia, nelle stazioni e negli aeroporti. Sarà solo questione di tempo prima che vengano a sapere chi sono, appena la Polizia elvetica s’interfaccerà con quella italiana per acquisire informazioni. Scosse la testa e rifletté sul fatto che ora era sospettato della morte dei due sicari. Si concentrò sulle immagini trasmesse per verificare che non apparisse una sua fotografia. Dopo una manciata di secondi il video fu sostituito dalle solite previsioni meteorologiche.

    Almeno non sta circolando un mio identikit. Meglio così.

    Si alzò, andò di nuovo alla toilette prima di saldare il conto alla cassa, dove all’ultimo momento comprò da un espositore delle barrette al cioccolato. Aveva calcolato che ora avrebbe dovuto fare almeno venti minuti a piedi per il suo nuovo checkpoint. Una volta fuori dal locale, non prese la strada più breve bensì quella che garantiva il maggior affollamento di persone possibili, in modo da potersi confondere e mitigare ogni possibile attacco del Consorzio.

    Si ritrovò a camminare sul Lungolago. L’elegante viale alberato dava su un paesaggio serale spettacolare. Il Lago Maggiore si presentava come una lastra di alabastro che rifletteva le luci della città. I contorni delle montagne a cornice del lago erano stati inglobati dal cielo del dopo tramonto. Su di esse gli agglomerati luminosi di case e aggregati urbani le punteggiavano dandogli dei volumi tridimensionali. Monumenti di velluto blu scuro cosparsi di luci gialle e arancioni. Ferrone non era in grado di apprezzare tale bellezza, i suoi occhi erano concentrati a verificare il lungo pontile di legno e le decine di imbarcazioni ormeggiate, tutto sommato piuttosto omogenee. In gran parte si trattava di natanti motorizzati o a vela da massimo sei passeggeri. Quasi tutte le barche erano coperte con teli plastici per proteggerle dagli agenti atmosferici.

    Ma sono tutte barche da ricconi? Possibile che non ci sia nessuna barchetta da persona normale?

    Il suo piano non poteva cadere per un simile dettaglio. Guardò l’orologio. Mancava poco alle diciannove e faceva freddo sul serio. Intorno a lui le persone stavano iniziando a scomparire. Da quelle parti si cenava molto presto nella brutta stagione. Gli unici pazzi ancora presenti erano dei giocatori di tennis che si stavano affrontando come invasati all’interno di campi illuminati a giorno. Ferrone proseguì sul marciapiede e vide finalmente qualcosa che andava bene per il suo piano.

    Continuò a camminare senza soffermarsi su ciò che aveva appena visto. Ora doveva solo trovare un posto dove nascondersi per le successive quattro ore.

    Un’ora più tardi la gente era scomparsa dalla vista, complice l’intensa umidità e una brezza proveniente dal lago. Ferrone si avvicinò a un casotto recintato alla fine della banchina. Diede un paio di occhiate attorno e si avvicinò al lucchetto della porta che chiudeva la recinzione. Valutò che la luminosità ambientale fosse sufficiente per creare gli strumenti di cui aveva bisogno. Appoggiò lo zainetto sul terreno ghiaiato ed estrasse il rotolo di filo d’ottone. Prese quindi la pinza multiuso e tagliò un segmento di filo lungo una quindicina di centimetri. Con le dita lo modellò per ottenere un attrezzo metallico lineare con una certa rigidità, anche se dovette modificare la testa con la pinza per mimare la forma zigzagante di un fulmine disegnato. In meno di sei minuti Ferrone aveva creato un attrezzo di base per poter scassinare una serratura. Recuperò la chiavetta a brugola più sottile del kit. Con i due manufatti prese in mano il grosso lucchetto posto sulla porticina. Lo soppesò per un istante. Quindi, infilò la testa della brugola alla base del foro della chiave incastrandola dentro e con estrema cautela inserì il secondo attrezzo. Con un sapiente dosaggio di forza e sensibilità delle dita, Ferrone riuscì ad aprire il lucchetto. Il trucco consisteva nel mantenere con la brugola una pressione variabile e adattiva al senso di rotazione del cilindro della serratura. Allo stesso tempo, con la punta sagomata a fulmine del secondo attrezzo, occorreva far credere ai cilindretti a molla della serratura che era stata infilata una chiave allineata alla mappa di apertura. Nel giro di venti secondi tutti i cilindretti vennero allineati verticalmente e il cilindro fu libero di ruotare in senso orario. Il lucchetto si aprì con un clic di soddisfazione pura. Ferrone si sentì appagato: ogni serratura violata con grimaldelli improvvisati era un piccolo premio. Entrò all’interno della recinzione, richiuse la porticina ed entrò nel casotto. Dallo zaino estrasse una piccola torcia a led che aveva prelevato dal kit medico sulla BMW. Tenendo una mano davanti al bulbo, per schermare il potente fascio di luce bianco, esaminò l’interno dello stretto locale.

    Era una specie di minuscolo e claustrofobico riparo per attrezzi e oggetti vari. Alcuni salvagente sverniciati, sagole, manufatti metallici che per Ferrone potevano essere dei pezzi di ricambio per i natanti, alcuni barattoli di resine varie e vernici. Abbassò il fascio di luce e trovò quello che sperava fin dall’inizio: due robusti remi di legno che avevano visto tempi migliori, ma ancora utilizzabili. Un sorriso si disegnò sulle sue labbra: la fortuna ricompensava sempre gli audaci. Controllò il quadrante fluorescente del Luminox al polso: avrebbe dovuto aspettare cinque ore abbondanti prima di entrare in azione. Si sedette sul pavimento freddo e spense la torcia a led.

    Per un attimo, immerso nel buio, si abbandonò ai suoni ambientali. La superficie del lago era talmente calma che non riusciva a percepire nessun sciacquio. Era invece distinguibile il rumore dello scarso traffico stradale. Si tolse la chiave dalla tasca posteriore dei pantaloni e la tenne vicino a sé. Se fosse entrato qualcuno lo avrebbe prima abbagliato con la torcia elettrica poi lo avrebbe massacrato con il pesante utensile. Strumento efficacissimo a cortissima distanza, e senza fare il baccano come quello che poteva fare la pistola che ancora aveva in tasca. Si augurò, quindi, che quel luogo non fosse meta di adolescenti in cerca di privacy. In tal caso non avrebbero avuto una conclusione di serata da incorniciare.

    Ferrone cercò una posizione comoda, ma s’impose di non addormentarsi. Il freddo era pungente e nonostante avesse degli abiti adeguati, non poteva permettersi un principio di ipotermia. Per quella ragione cercò di restare vigile cercando un modo di gestire la situazione una volta tornato in Italia.

    Aeroporto di Niamey (Niger), Base Aerea 101, 23 novembre

    Mentre la città era ancora immersa nel sonno, cinque persone erano radunate in una stanza che misurava una trentina di metri quadri. Due tenenti dell’Armée de l’Air in uniforme mimetica occupavano un lungo bancone stracolmo di attrezzature informatiche. Davanti a loro una serie di schermi, il più grande dei quali mostrava le immagini riprese dall’alto di un tipico villaggio africano.

    Lo split di un condizionatore posizionato sopra la porta d’ingresso garantiva una gradevole temperatura. Nonostante ciò, l’unica donna presente all’interno della stanza si sentiva accaldata. La pallida pelle del viso era attraversata da tiepide gocce di sudore, il caschetto di capelli nero corvino sembrava bruciarle sulla testa. La canottiera verde oliva, attillata al punto giusto da mettere in risalto i seni piccoli ma sodi, le si era appiccicata al corpo come se fosse una seconda pelle. Alcune macchie scure erano comparse nella zona sotto le ascelle e alla base del collo.

    Trovarsi in presenza di un gruppo di uomini, sfoggiando l’aspetto di una maratoneta a fine gara, sarebbe stato fonte di grande imbarazzo per la maggior parte delle donne. Per Chantal Leroux, abituata da anni a lavorare in un mondo a maggioranza maschile, la questione era irrilevante.

    I suoi occhi castani, stanchi e segnati dalla mancanza di sonno, cercarono un orologio tondo appeso a una delle pareti. Le lancette informavano che mancavano sette minuti alle sei del mattino. Con le mani appoggiate sulla superficie di un asettico tavolo di metallo, abbassò per un istante le palpebre, immaginandosi tra le fresche lenzuola di un letto. Negli ultimi tre giorni aveva dormito poco più di dieci ore. In realtà non ricordava l’ultima volta che era riuscita a concedersi una dormita decente. Aveva trascorso i giorni precedenti impegnando tutto il suo tempo per chiudere una storia iniziata quasi un mese prima. L’epilogo poteva essere solo uno e prevedeva la morte di un uomo: Michel Sidibé, soprannominato il Ragno.

    «Tre minuti al target!»

    Una voce forte e un po’ stridula le aggredì i timpani senza preavviso, facendole riaprire gli occhi con un sussulto.

    A parlare era stato uno dei tenenti dell’Armée de l’Air, in contatto con un gruppo di elicotteri in volo nel nord del Niger.

    Chantal si stropicciò le palpebre usando l’indice e il pollice della mano destra.

    «Tutto bene, dottoressa Leroux?» domandò l’uomo seduto accanto a lei. Gaston Lemoine, cinquant’anni superati da poco, era il responsabile delle operazioni d’intelligence francesi del DGSE in Africa Occidentale. I capelli brizzolati mostravano ancora sopra le orecchie qualche spruzzata del biondo di un tempo. Sotto al naso sottile sfoggiava un paio di baffi grigiastri e folti.

    Chantal fissò i grandi occhi azzurri del suo superiore. «Nessun problema.»

    «Ne sono felice. Sarebbe un peccato che si addormentasse proprio ora che siamo arrivati fin qui.»

    «Non lo farei per niente al mondo. È solo che...» la donna esitò.

    «Cosa? Si senta libera di parlare.»

    Chantal si grattò il mento, come a riordinare le idee. «Penso che avremmo dovuto coinvolgere gli italiani in questa storia. L’ultima volta che abbiamo fatto di testa nostra non è andata come speravamo.»

    «Sì, ricordo le sue perplessità a riguardo. Come le ho già spiegato, è di interesse nazionale che la questione sia risolta in silenzio e senza coinvolgere nessun alleato, soprattutto l’Italia. I panni sporchi si lavano in famiglia, non glielo hanno insegnato?»

    «Certo signore, però continuo a non essere d’accordo.»

    Lemoine scrollò le spalle e sorrise sotto i baffoni. «Anche se a volte può non piacerci, dobbiamo sottostare a ordini superiori.»

    «Fa parte del lavoro» concordò Chantal, cercando di essere convincente.

    Una dolciastra nota di aroma di biscotto si diffuse in quel momento nella stanza. Chantal si voltò in tempo per notare una leggera nuvola di vapore dissiparsi nell’aria. Proveniva dalla sigaretta elettronica del quinto uomo presente nella stanza, il colonnello Guillaume Angelini. Con la sua faccia tonda e il collo taurino, se ne stava in piedi a pochi passi dallo split del condizionatore. I capelli bianchi e ricci erano mossi dalla fresca brezza che usciva dal bocchettone. La mimetica gli calzava in modo impeccabile sul corpo massiccio. Portava bene i suoi cinquantanove anni, tanto da dimostrarne anche qualcuno in meno.

    «L’unica cosa di cui preoccuparsi è chiudere in fretta la storia. Siamo sicuri che questa volta troveremo il bersaglio?» domandò il colonnello con voce roca, merito di un’onorata carriera da fumatore.

    Lemoine guardò Chantal per indurla a rispondere.

    «I dati raccolti ci fanno pensare di sì, colonnello» rispose Chantal, scandendo bene le parole.

    L’ufficiale non si scompose. «Lo avete detto anche l’ultima volta.»

    Tre notti prima era avvenuto un altro blitz per catturare il Ragno. Chantal aveva rassicurato i suoi superiori che le indagini svolte avevano individuato Sidibé in un villaggio poco distante dalla città di Arlit. Le squadre tattiche inviate sul posto avevano trovato solo una casa vuota.

    «Questa volta abbiamo ricevuto soffiata da parte di un soggetto che procura armi a diversi gruppi jihadisti del Sahel. Abbiamo inviato una squadra di sorveglianza sul campo che ha confermato la presenza del soggetto. Da due giorni lo stiamo tenendo d’occhio. Non ha mai lasciato l’abitazione in cui è nascosto. L’unico contatto avvenuto con l’esterno è stato con un’anziana donna del villaggio che gli ha portato da mangiare.»

    Angelini portò la sigaretta elettronica tra le labbra e aspirò una boccata, mostrandosi per nulla impressionato dalla spiegazione della donna. «Ho già letto queste notizie sul dossier che ha preparato. Mi auguro solo che questa operazione non si riveli un altro costoso teatrino a spese dei contribuenti francesi.»

    Chantal fu costretta a ricorrere a tutto il suo autocontrollo per non rispondere in malo modo all’ufficiale.

    «Le assicuro, colonnello, che facciamo il possibile per mantenere al sicuro i cittadini francesi di tutto il mondo cercando di non sperperare il denaro pubblico.»

    Una nuova nuvola di vapore riempì la stanza di aroma di biscotto. «Sarà come dice lei. Comunque, ai miei tempi, si ottenevano lo stesso i risultati senza bisogno di tutto questo baraccone» sentenziò Angelini indicando gli schermi appesi al muro con il palmo della mano rivolto verso l’alto.

    «I tempi cambiano e bisogna essere in grado di rimanere al passo» sibilò velenosa Chantal.

    A quel punto Lemoine si sentì in dovere di mettere fine alla discussione che rischiava di degenerare da un momento all’altro. «Ormai manca poco all’atterraggio, concentriamoci sull’obiettivo.»

    Chantal e Angelini si lanciarono ancora uno sguardo infuocato prima di concentrarsi sui monitor.

    Locarno (Svizzera)

    Il Luminox gli indicò che la mezzanotte era passata da più di un’ora. In tutto quel tempo aveva cambiato posizione spesso per contrastare l’insorgere di crampi. Ciò nonostante, quando si alzò in piedi sentì una fitta alle gambe. Non c’era fretta. Tornò a verificare i suoni ambientali. Una quiete rassicurante era calata fuori dal casotto: Locarno sembrava essersi addormentata. Era ora di darsi da fare. Prese una bottiglia d’acqua dallo zainetto e ne trangugiò metà del contenuto: entro poco tempo avrebbe sudato molto, nonostante il freddo. Cercò i remi e li prese in mano, soppesandoli. Aprì leggermente la porta e la luce dei lampioni del Lungolago infastidì i suoi occhi, ormai abituati all’oscurità. Si guardò attorno: nessuno in vista.

    Con gesti lenti richiuse la porta e s’incamminò sul pontile fino a raggiungere la barca che aveva visto qualche ora prima: era ancora ormeggiata nello stesso punto. Una piccola imbarcazione a remi, che poteva ospitare al massimo tre o quattro persone, di colore bianco all’interno e con lo scafo esterno verde brillante. Galleggiava sull’acqua con movimenti pigri, assicurata al molo da una cima sottile. Sembrava dormire anch’essa. Ferrone osservò ancora l’ambiente intorno a lui. Via libera.

    Appoggiò con molta cautela i remi dentro la barca, aprì lo zainetto e trovò dei guanti antiscivolo che indossò. Esaminò il nodo con cui la cima era assicurata al molo. Le fibre sintetiche erano fredde, rigide, inumidite e il nodo dava l’impressione di non essere stato sciolto da tempo, come se fosse diventato un grumo solido.

    Ferrone scosse la testa e tirò fuori uno dei due lunghi cacciaviti. Usando la punta dell’attrezzo, nel giro di qualche decina di secondi riuscì ad avere ragione del nodo. Con molta prudenza, mise piede sull’imbarcazione e ne valutò la stabilità. Nonostante avesse passato i brevetti relativi al corso ambiente marino del Reparto, Ferrone aveva poca attrazione per l’acqua. Si sedette sul banco, ovvero un’asse trasversale al centro della barca dove si piazzava chi utilizzava i remi, dando la schiena alla prua. Prese un remo alla volta e lo inserì con cura nella rispettiva scalmiera.

    «Adesso inizia il bello…» sussurrò dopo un respiro profondo. Assaggiò l’acqua con la pala dei remi. Iniziò a vogare con calma, cercando di capire il comportamento del natante. Il suo scopo era di riuscire ad abbandonare il porticciolo, senza sbattere contro le altre barche ormeggiate e inoltrarsi sulle acque del lago. Seppur spinta dai remi, la barca all’inizio non si mosse. Ferrone intuì come usare i remi per sospingersi di qualche metro allontanandosi dal pontile. Usando un solo remo cercò di orientare la prua: era maledettamente difficile domare quella barchetta. Con la testa continuava a guardarsi attorno per cercare di correggere l’orientamento del natante.

    Per un istante iniziò a nutrire dubbi sul suo gran piano di fuga. Dopo un tempo indefinito riuscì a comprendere come destreggiarsi, avendo sbattuto un paio di volte contro lo scafo delle barche adiacenti. Al corso di combattimento in ambiente marino aveva imparato a utilizzare, in coppia con un commilitone, una sorta di kayak gonfiabile. L’imbarcazione che stava conducendo in quel momento era tutta diversa da gestire. Bestemmiando tra i denti riuscì ad abbandonare il porticciolo arrivando nelle acque libere. Era già accaldato e sudato dallo sforzo. Si aprì la giacca per far evaporare il sudore e iniziò a vogare cercando di non allontanarsi più di cinquanta metri dalla costa ovest del lago. La faccenda era ora più semplice: doveva puntare verso sud fino a superare il confine svizzero. La difficoltà stava nel non farsi trasportare dalle correnti del lago, a lui sconosciute, che potevano farlo finire chissà dove. Non notò nessun tipo di natante in acqua a quell’ora. Più si allontanava dalla costa e più le acque del lago si facevano fluttuanti. Anche se non si trattava di onde aggressive, la barca dondolava comunque oltre la soglia di tranquillità di Ferrone. Non poteva permettersi un bagno in quelle acque: uno shock da ipotermia poteva essere una conseguenza realistica. Incominciò a vogare con vigore, utilizzando la forza dei suoi muscoli.

    È un po’ come usare il vogatore in palestra, dai…

    Secondo i suoi calcoli doveva vogare per circa tre chilometri verso sud prima di trovare la prima cittadina italiana che si affacciava sul lago dotata di un porticciolo. Vincendo la resistenza dell’acqua e delle morbide ma lunghe onde del lago, continuò a vogare sincronizzando il respiro a ogni movimento. Dopo tre minuti, gli parve di non essersi mosso nemmeno di un metro, e di essere in

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