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Ai genitori davamo del voi
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Ai genitori davamo del voi

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Il ticchettio incessante del Tempo scandisce ricordi e sensazioni che timidi, o a volte imperiosi, affiorano nella mente. Ricordi vissuti da ognuno secondo la propria sensibilità, la propria percezione, volti a sottolineare avvenimenti che in un modo o nell’altro hanno toccato le corde dell’anima. Il trascorso del singolo elemento si rapporta alla situazione storica narrata. Ogni personaggio del bel testo Ai genitori davamo del voi, di Pasquale Buonomo, è dotato di autonomia rispetto al corpo narrativo, presenta un’identità precisa e un atteggiamento differente nei confronti di un’epoca nuova, che vedeva l’affacciarsi delle prime rivendicazioni operaie dopo anni di sfruttamento, miseria e devastazione a seguito dei due grandi conflitti mondiali: progressi che lentamente cominciavano a prendere piede, ma che tardarono ad essere tollerati ed assimilati.
I rapporti genitoriali cambiarono completamente dopo il secondo conflitto mondiale, gli anni precedenti erano stati caratterizzati da una sorta di subordinazione filiale che imperava nei rapporti familiari; lentamente i costumi mutarono, grazie alle ingerenze e ai modi provenienti dalla società borghese.
Nasce così un testo che vuole raccontare tutto questo, perché i ricordi impressi sulla carta sono destinati a perdurare nel tempo e a rimanere nei cuori di chi vuole accoglierli.

Pasquale Buonomo, nato il 23 aprile 1945 ad Alvignano, in provincia di Caserta. Dopo un regolare corso di studi si laurea nel 1970 in materie letterarie presso l’Università di Salerno. Docente di materie letterarie nelle scuole medie dall’ottobre 1970 fino al 1977. Dal 1977 al 2000 è stato preside di scuola media e dal 2000 al 2006 dirigente scolastico dell’Istituto Comprensivo “Guglielmo D’Alzano” di Alzano l. Durante la sua carriera scolastica ha ricoperto ripetutamente l’incarico di presidente di commissione nei Concorsi a Cattedra. Ha svolto anche attività di critico d’arte sulle pagine di La nostra domenica, settimanale del giornale “L’eco di bergamo”.
Nel mese di giugno 2018 ha pubblicato con la casa editrice Albatros Il Decamerone secondo la nostra lingua. Nel mese di agosto 2020 ha pubblicato con la casa editrice Albatros Lo cunto de li cunti. Il piacere delle fiabe. Ai genitori davamo del voi è l’ultima sua pubblicazione con la casa editrice Albatros.
LanguageItaliano
Release dateSep 30, 2021
ISBN9788830651463
Ai genitori davamo del voi

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    Ai genitori davamo del voi - Pasquale Buonomo

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Prefazione

    Le finalità che hanno indotto Pasquale Buonomo alla composizione di questo romanzo sono espresse con chiarezza e consapevolezza nell’Avvertenza di apertura:

    "Quando i ricordi si vanno sbiadendo nelle nebbie e scompaiono le immagini del passato come ruderi in rovina, si corre ai ripari per conservare nella memoria un mondo senza il quale cessa l’identità di tutti e di ciascuno e si perde pure il diritto di cittadinanza fra gli uomini, con la conseguenza di far fluttuare le esistenze degli individui come relitti destinati ad essere repentinamente inghiottiti dal gorgo del tempo".

    Spesso accade, infatti, di rammaricarsi per non aver chiesto qualche notizia di famiglia ai propri nonni quando erano in vita: un legame di parentela, una ricetta di cucina, uno scorcio di vita vissuta… Per evitare questo rischio, l’Autore ha voluto lasciare in eredità ai suoi figli e ai suoi nipoti uno scritto che potesse descrivere le abitudini, le situazioni sociali, la mentalità di un paese agricolo del Sud negli anni, non troppo lontani, in cui si usava ancora il voi per rivolgersi ai propri genitori. Secondo una elementare concezione pedagogica, infatti, si considerava insensata l’idea di essere amici dei figli perché era il segno di una cedevolezza che non si addiceva alle responsabilità genitoriali. Allora i rapporti venivano regolati dalla gerarchia e al papà e alla mamma si dava rigorosamente del voi.

    Le vicende familiari e i ricordi personali si inquadrano nel contesto della grande storia, in particolare nel periodo tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, che viene rievocato attraverso i racconti del protagonista, Domenico, e si completano nell’intervento diretto dell’Autore che ne definisce con precisione storica i contorni e i presupposti.

    La narrazione è arricchita dalla citazione di efficaci proverbi e modi di dire popolari, oltre che da una serie di aneddoti, fatti e pettegolezzi che di solito animavano la vita dei piccoli centri, soprattutto prima che la diffusione della televisione assorbisse l’attenzione di tutti e si sostituisse ai racconti del focolare.

    Ne emerge un mondo che ormai non esiste più, verso il quale l’Autore prova sentimenti contrastanti: da un lato ne loda la semplicità e la laboriosità, dall’altro ne evidenzia i limiti: "Era quello il mondo da cui ricavare modi e regole di vita e anche quello che bisognava evitare per non cadere nella trappola della rassegnazione all’ignoranza".

    I limiti di quel mondo, osservato con gli occhi della modernità, si evidenziano nella rigida divisione in classi sociali, nella ingiusta subalternità e irrilevanza sociale della donna, oltre che in un’immotivata resistenza ad ogni forma di cambiamento.

    Nella caratterizzazione dei personaggi e nella narrazione dei fatti l’Autore utilizza un linguaggio realistico, coerente con l’ambiente di riferimento, anche se non mancano tocchi di lirismo, soprattutto nella descrizione dei paesaggi: "La campagna e i boschi illuminati dal chiarore della luna e delle stelle, l’aria mite e tersa, l’abbaiare di un cane lontano, il frinire di grilli e di cicale serotine, il ritmo scandito dai singhiozzi dell’assiolo nascosto fra i rami che annunciava per l’indomani una giornata serena, il profumo dell’erba tagliata tutto contribuiva a lenire le ansie e a spalancare le porte alla gioia". Qua e là emerge, poi, la formazione culturale dello scrittore attraverso specifici riferimenti ai grandi della nostra letteratura.

    Dalla descrizione di un ambiente provinciale e ristretto, cui non sono estranei evidenti riferimenti autobiografici, si ricavano, infine, valori universali che appartengono ad ogni essere umano, quali l’attaccamento alle radici, la volontà di contare sulle proprie forze per dare un senso all’esistenza e la consapevolezza che non si realizza un vero progresso se il presente non si innesta saldamente e consapevolmente sulla memoria del passato, da cui riceve linfa e giustificazione.

    Renata Montanari

    Avvertenza

    Quando i ricordi si vanno sbiadendo nelle nebbie e scompaiono le immagini del passato come ruderi in rovina, si corre ai ripari per conservare nella memoria un mondo senza il quale cessa l’identità di tutti e di ciascuno e si perde pure il diritto di cittadinanza fra gli uomini, con la conseguenza di far fluttuare le esistenze degli individui come relitti destinati ad essere repentinamente inghiottiti dal gorgo del tempo, che cancella ogni cosa. Perciò, pur di lasciare delle tracce un po’ più durature come quelle scritte nei libri, purtroppo anch’essi soggetti alla corrosione della polvere, delle tarme e del dimenticatoio, riporto le storie del mio paese natio come vissute da me, dalla mia famiglia e da tanti altri personaggi.

    Riferisco degli episodi che mi sono stati raccontati, o di cui sono stato testimone. Sono tutti veritieri ma non tutti avvenuti ad Alvignano. I racconti di importazione comunque appartengono alla storia locale e pertanto vengono proposti perché sono rappresentativi di vita vissuta e di temperie condivise che però, anche se superate, hanno alimentato una maniera di pensare di intere generazioni. Ho progettato la narrazione in modo che nessuno, anche quando tocca vicende apparentemente private, si possa ritener estraneo a passioni e sentimenti che, per loro natura, sono universali. Per questo motivo i nomi dei protagonisti di proposito sono stati scelti tra i più diffusi perché certi avvenimenti possano riguardare tutti e nessuno, al di là di tutte le possibili personalizzazioni. Se quest’ultima eventualità dovesse capitare, giuro che è attribuibile interamente al caso e non alle mie intenzioni.

    La pandemia da Coronavirus a Ranica

    Il 23 aprile 2020, al mio settantacinquesimo anno di età, come nei precedenti compleanni, mi sarei aspettato di festeggiare la ricorrenza assieme alla mia sposa, ai miei figli e ai miei nipotini con tanto di regali, di torta e di candeline.

    Non è andata così.

    La diffusione del Coronavirus, le precauzioni suggerite dai sanitari e le norme imposte dalle autorità, che impongono il distanziamento sociale alla intera comunità nazionale, e in particolar modo alle sfortunate città della Lombardia, Bergamo e provincia specialmente, mi obbligano a restare rinchiuso in casa e scansare contatti con le persone, tranne che con la mia consorte.

    Il distacco dai miei cari, dagli amici e l’obbligata solitudine mi inducono alla malinconia. Sono ormai due lunghi mesi che io e mia moglie siamo rinserrati fra le mura domestiche per evitare il contagio di questo oscuro mostro, che non sembra avere barriere.

    È triste l’isolamento dagli altri, ma non è tragico. La comunicazione diretta può essere surrogata, per chi si accontenta, dalla televisione, dagli smartphone, da computer e tecnologie varie. E perciò ci si illude di abbattere i limiti segnati dalle pareti domestiche.

    Ma ciò che risulta drammatico è la cappa di mestizia che incombe nelle vie deserte, per l’assenza di viavai della gente che passa e del traffico spento, mentre il firmamento fa da indifferente spettatore di una calamità che colpisce senza generare nessun rumore se non quello delle sirene delle ambulanze e dei rintocchi di campane che suonano a morto, intanto che si moltiplicano le vittime del morbo.

    Questo assassino è arrivato in punta di piedi, ha attraversato tutti gli angoli del mondo e dovunque ha lasciato dietro di sé morte, dolore e smarrimento.

    L’epidemia si è sparsa in silenzio. Nessuno la vede o ne avverte la presenza tuttavia c’è, passa e travolge senza neppure il fruscìo di una foglia secca che scivola via trascinata dal vento.

    Tutto tace. Non ci sono persone e macchine per le strade, gli aerei non solcano il cielo con la loro scia bianca. Dalle recinzioni dei giardini perfino i cani hanno smesso di abbaiare, in mancanza del calpestìo di passanti. In questa drammatica quiete non si può essere nemmeno muti testimoni, dato che non si vedono in giro né lutti, né funerali. Non si assiste né a pianti né a lamenti. Non ci sono lacrime da asciugare, salme da seppellire, parenti da consolare. Tutto avviene come se, ignorando le angosce, si volessero cancellare i trapassi.

    Negli ospedali, per colpa dell’enormità del contagio, i medici e gli infermieri, nonostante l’assoluta ed eroica risolutezza di fornire assistenza agli ammalati, troppi rispetto alle forze disponibili, diventano impietosi arbitri di vita e di morte, dovendo scegliere di curare i moribondi o i guaribili. Allora abbandonano chi è ormai in fin di vita e selezionano con criteri statistici i destinatari delle cure perché hanno una maggiore probabilità di sopravvivere. Sono scelte tremende la cui crudeltà va imputata alla matematica, che non ha cuore, e non ai sanitari che, per la penuria di tutele adeguate, per la loro abnegazione finiscono coll’ammalarsi o morire essi stessi, segnando la fine della propria e altrui esistenza.

    I deceduti, nella più totale solitudine, passano dagli ospedali agli obitori e prima di raggiungere i cimiteri se ne consumano le spoglie nei forni crematori.

    Non ci sono cortei funebri, litanie o condivisioni del dramma. La scena è una pagina bianca in cui non compaiono né genitori, né figli, né fratelli, né sorelle, né amici e neppure un fiore.

    Una procedura tragica impone di soffrire e trapassare lontano dalle carezze, dall’affetto e dall’amaro pianto delle persone care a cui non restano che il dolore, il ricordo, il rimpianto e la rassegnazione.

    Un tempo era convinzione diffusa che le pestilenze fossero un nefasto fenomeno del passato. Si pensava che quei luttuosi eventi non potessero giammai verificarsi nella nostra epoca caratterizzata dal progresso della scienza, della medicina e dell’igiene. A guardare indietro, ci si rende conto che la diffusione dei contagi era costantemente preceduta da periodi di carestie, o da privazioni imposte dalle guerre a cui si accompagnava la sporcizia.

    Non è così per la falcidia da Coronavirus, che non viene correlata a concause scatenanti come quelle menzionate, e nemmeno agli influssi astrali della congiunzione di Giove e Saturno, come spiegato da don Ferrante nei "Promessi sposi". Però, qualunque sia la causa, la contaminazione dispiega i suoi effetti letali, devasta tranquille esistenze degli abitanti di paesi e città e si manifesta con tutti gli esiti delle pandemie storiche, anche se non risultano tangibili i drammi vissuti nelle intimità delle case, nel cuore dei contagiati e dei loro parenti. Intanto il cordoglio viene condiviso solo attraverso le immagini trasmesse dalla televisione che mostra gli sconsolati cortei dei camion militari con carichi di bare.

    Malauguratamente l’attuale pandemia non è meno temibile di quelle che si sono succedute nei secoli passati, come la peste di Atene raccontata da Tucidide, di Firenze del 1348 narrata nel "Decamerone di g. Boccaccio, della peste a Milano del 1630, descritta nel romanzo I promessi sposi di Manzoni, oppure la Peste di Bergamo" di Jens Peter Jacobsen.

    Quei racconti sono pervasi da annotazioni di pianti, smarrimenti e sconforti.

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