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Cime tempestose
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Cime tempestose

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Volume numero 3 della collana "Classici" a cura di Pierluigi Pietricola

Introduzione di Nadia Fusini

La tormentata storia d'amore fra Heathcliff e Catherine che, irrealizzabile per differenza di classe e retaggi culturali, sfiderà ogni regola ed ordine sociale, arrivando alle più tragiche conseguenze.
Pubblicato per la prima volta nel 1847, Cime tempestose è la quintessenza del romanzo vittoriano, una storia selvaggia, originale e possente, capace di scuotere ancora oggi l'animo dei lettori, grazie ad uno stile sanguigno, melodrammatico, intriso di passione folle, lancinante malinconia, echi gotici e drammaticità shakespeariana.
Ambientato nel paesaggio selvaggio ed incontaminato della brughiera inglese, questo capolavoro firmato da Emily Brontë, a oltre 150 anni dalla sua uscita, mantiene inalterato il suo fascino perturbante e freudiano.

LanguageItaliano
Release dateNov 25, 2021
ISBN9788869341052
Author

Emily Brontë

Emily Brontë (1818-1848) was an English novelist and poet, best remembered for her only novel, Wuthering Heights (1847). A year after publishing this single work of genius, she died at the age of thirty.

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    Cime tempestose - Emily Brontë

    Emily Brontë

    Cime tempestose

    Prefazione di Mario Praz

    © Bibliotheka Edizioni

    Piazza Antonio Mancini, 4 – 00196 Roma

    tel: (+39) 06. 4543 2424

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    e-Isbn 9788869341052

    La casa editrice, esperite le pratiche per acquisire

    i diritti relativi alla prefazione della presente opera,

    rimane a disposizione di quanti avessero comunque

    a vantare ragioni in proposito.

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale,

    del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione

    scritta dell’editore e con citazione esplicita della fonte.

    Tutti i diritti riservati.

    Direttore della collana Classici Bibliotheka: Pierluigi Pietricola

    Traduzione: Amedeo Cerada Genet

    Diesegno di copertina: Riccardo Brozzolo

    Emily Brontë

    Emily Brontë (Thornton 1818, Haworth 1848), è la terzogenita di un parroco anglicano. Quando la madre muore nel 1821, il padre si ritrova a crescere cinque figlie femmine e un maschio. La tisi si porta via le due sorelle maggiori e le altre, che vengono affidate alle cure della zia materna, vivono anni solitari tra le brughiere selvagge. Nel silenzio della natura Emily scopre la passione per la letteratura.

    Nel 1842 Emily decide di fare l’insegnante. Del 1847 è il romanzo Cime tempestose che diviene presto oggetto di scandalo: i critici lamentano la mancanza di un fine morale della vicenda. La scrittrice muore di tubercolosi a soli trent’anni, il 19 dicembre 1848.

    Uno dei più grandi romanzi d’amore e uno dei migliori esempi letterari in cui odio, ossessione e gelosia si intrecciano in un’atmosfera gotica dagli echi shakespeariani.

    Nota del traduttore

    È stato definito un libro maledetto. Un incredibile mostro la cui trama si sviluppa in un inferno dove le persone hanno nomi inglesi, per citare le parole del poeta e pittore Dante Gabriel Rossetti.

    L’opera della Brontë si presenta dunque come un’esplorazione, interiore e viscerale, di sentimenti quali la sofferenza, il rancore e la paura, che sono qui stati resi in lingua italiana mantenendo le profonde differenze di registro che intercorrono fra i personaggi di diversa provenienza sociale.

    Come forse pochi paesi al mondo, il nord dell’Inghilterra è paragonabile, per ragioni storiche e culturali, al sud di altre nazioni quali l’Italia. Pertanto, alcuni degli accenti presenti nel libro, riportati nella versione originale mediante una scrittura simil-fonemica, sono stati tradotti in un letterario e immaginifico accento campano, sulla scia dell’operazione linguistica attuata da Andrea Camilleri.

    Altre imprecisioni, di ordine lessicale e grammaticale, sono state intenzionalmente incluse nel tentativo di evocare – ed è in questo senso che oggi proponiamo al lettore una traduzione evocativa di Wuthering Heights – la colloquialità con cui la Brontë dipinge il gergo dei suoi personaggi di più umile estrazione.

    Parallelamente, si è voluto erigere un ponte ideale fra le forme del dialogo diretto proprie del periodo storico e del contesto culturale della versione inglese, e l’espressività del colloquiare italiano contemporaneo; questo al fine di restituire l’icasticità delle interazioni presenti nel libro in tutta la loro potenza.

    Amedeo Cerada Genet

    Prefazione

    ¹

    Le sorelle Brontë

    Uno dei tratti salienti del periodo vittoriano è l’emancipazione femminile che si manifesta in un numero di romanziere che ottennero larga fama. Una di queste figure energiche di donne è Charlotte Brontë (1816-55).

    La tragica e insolita storia della famiglia Brontë, lo sfondo selvaggio delle brughiere dello Yorkshire contro cui si profila quella storia reale e la vita fantastica dei personaggi dei romanzi delle sorelle, sono non ultime ragioni del grande interesse che ha destato la loro opera letteraria.

    Il rev. Patrick Braontë, parroco anglicano d’origine irlandese, si era venuto a stabilire a Haworth, nello West Reading dello Yorkshire, nel 1820, quando Charlotte aveva appena quattro anni, ed Emily (1818-48) due; l’anno dopo morì mrs. Brontë, originaria della Cornovaglia, e la zia, mrs. Branwell, consentì, assai contraggenio, a prendersi l’onore di allevare la numerosa figliolanza del vedovo cognato: cinque ragazzi e un maschio, Patrick Branwell. Il rev. Brontë non era poi quel padre tirannico che la tradizione, alimentata da pettegolezzi di servi, ci ha rappresentato; fu ecclesiastico per sbaglio, ecco tutto; avrebbe dovuto essere un militare (aveva cangiato il nome originario, Pronty, in Brontë, per ammirazione per Lord Nelson duca di Bronte in Sicilia). Miss Branwell era wesleyana, e le idee del fondatore del metodismo in fatto di educazione si riassumono in queste parole: «Spezza in tempo la loro volontà, comincia questo lavoro prima che possan correr da soli, prima che possano esprimersi chiaramente, forse prima che possano parlare affatto. Per pena che costi, spezza la volontà, se non vuoi che il bimbo sia dannato. Che un bimbo da un anno in su impari a tenere la verga e a pianger piano; da quell’età in poi fa’ che egli obbedisca, dovessi tu anche frustarlo dieci volte di seguito per renderlo docile». Miss Branwell non adoperò tuttavia metodi violenti, dominò bensì con la tirannia dello spirito, facendo appello alle emozioni sui cui essa aveva facile governo nel caso di fanciulle dall’immaginazione vivace come le Brontë. Codesta educazione ebbe particolare effetto su Anne (1820-49), prediletta della zia; il resoconto di morti edificanti era un tema consueto delle riunioni settimanali dei metodisti, e a questa istruzione religiosa s’aggiunse l’esempio della lezione di mortalità fornita dalla scomparsa di Maria ed Elizabeth, le due prime figlie del reverendo Brontë, vittime della morte precoce che perseguitò tutta la prole. Il terrore della dannazione eterna (un tratto che Anne ebbe in comune con William Cowper) fece luogo in lei più tardi a una più mite fede cristiana, in cui avevan larga parte la pace e il perdono, e codesta fede ispirò sempre i versi di Anne Brontë, i quali spesso mal si distinguono dalla consueta innografia protestante.

    Ma, a parte quest’impronta metodista, l’educazione delle piccole Brontë fu fortunatamente affidata alla viva presenza della selvaggia natura delle brughiere dello Yorkshire: al contatto di essa, stimolati dal dono d’una scatola di soldatini, i piccoli Brontë crearono una loro privata mitologia di formidabili giganti («Vedo, vedo apparire il terribile Brannii, tetro gigante che scuote sulla terra la sua lancia di fiamma…»), e poi quei nomi di fantastici eroi di Gondal e Gaaldine: Alexander Hybernia, Alexandrina Zenobia, Gerald Exina, Juliet Augusteena, Rosabella Esmalden…: strano essutorio dell’esaltata vita interiore dei fanciulli. Ricordiamo: il padre era irlandese, la madre della Cornovaglia: si tratta di celti, non propriamente d’inglesi. I fantastici racconti furono trascritti in libricini, di solito con calligrafia microscopica, e al cosiddetto «ciclo di Angria» collaborarono Charlotte e Branwell, creando un regno africano di fantasia spirante infocate passioni byroniche, mentre Emily ed Anne nella «Cronaca di Gondal» raccontarono le guerre e i complotti di monarchici e repubblicani in un misterioso regno del nord. Nei romanzi della maturità Charlotte non farà che rielaborare temi che l’avevano ossessionata e incantata fin dalla fanciullezza. La compilazione di queste opericciole si estende dal 1829 al 1845: ché in quest’ultimo anno Emily trascriveva ancora versi nella «Cronaca di Gondal».

    Quanto a Branwell Brontë, pittore, poeta, uomo senza arte né parte, vittima dell’alcool e dell’oppio, «che si moveva in una nebbia in cui si perdette», fu l’incubo vivente della propria famiglia. Il coraggio, la fermezza, in questa famiglia, toccarono in sorte non al maschio, ma alle donne. Fragili ragazze provinciali, intense e goffe, e acutamente consce della propria goffaggine e mancanza di beltà, minate dalla tisi, abitate da un genio forastico, schivo, violento, soprattutto Emily, la quale, una volta che i suoi versi furono resi di pubblica ragione per iniziativa della sorella Charlotte, si sentì come svuotata del suo segreto, e accolse la morte come una liberazione.

    Le ragazze tentarono di guadagnarsi la vita dedicandosi all’insegnamento; Charlotte, dopo aver avuto impiego come governante, pensò di aprire con Emily una scuola per proprio conto, e per completare l’educazione e la conoscenza delle lingue (Charlotte del francese, Emily dei rudimenti del tedesco), le due sorelle si recarono nel 1842 a Bruxelles dove trascorsero otto mesi alla scuola di Monsieur Héger, finché furono richiamate a casa dalla morte della loro zia. Charlotte fece un secondo soggiorno a Bruxelles nel 1843-4, questa volta come insegnante nello stesso educandato, e la guida e il consiglio di Héger l’aiutarono a superare le limitazioni dei suoi primi scritti, così remoti dalla sfera dei lettori ordinari. Ne nacque in lei un’ardente devozione romantica per il maestro, che continuò nel 1844-45 dopo il suo ritorno in patria, finché un avvertimento di Héger (che era sposato) circa malintesi che l’epistolario avrebbe potuto creare, pose fine alla relazione. Alla scuola progettata a Haworth dalle due sorelle non si presentò nessun allievo, mentre la vita familiare era sotto l’incubo della degradazione fisica e morale di Branwell. Ne patì soprattutto Anne che, accettato un impiego di governante, soffrì della tresca del fratello, anche lui precettore nella stessa famiglia, con la padrona di casa; Branwell morì alcolizzato nel 1848. Nel 1845 Charlotte scoperse per caso le poesie manoscritte di Emily; la persuase a pubblicarle insieme coi versi propri e di Anne, come Poems by Currer, Ellis, and Acton Bell: questo volume, uscito nel 1846, passò inosservato; un altro appello al pubblico seguì nel 1847, con la pubblicazione di tre romanzi, Jane Eyre di Charlotte, Wuthering Heights di Emily, e Agnes Grey di Anne (un primo romanzo di Charlotte, The Professor, era stato rifiutato dagli editori e uscì postumo). Jane Eyre ebbe un successo sensazionale, avvantaggiandosi del quale l’editore dei romanzi di Emily e di Anne pubblicò nel 1848 un secondo romanzo di quest’ultima, The Tenant of Wildfell Hall, diffondendo la voce che gli pseudonimi di Currer e Acton Bell nascondevano la stessa persona. Per dimostrare che ciò non era vero, Charlotte e Anne si recarono a Londra presentandosi all’editore della prima. Nel dicembre di quell’anno si spense Emily, e pochi mesi dopo a Scarborough, dove era invano andata per domare la malattia, tranquillamente Anne abbandonò la vita. Le opere di Anne non passarono ai posteri come quelle delle sue più dotate sorelle, ma va notato che George Moore, giudice un po’ bizzarro ma tutt’altro che privo di acume, riteneva Agnes Grey che sulle orme del Goldsmith e di Maria Edgeworth narrava le esperienze di governante dell’autrice, «la prosa narrativa più perfetta della letteratura inglese… semplice e bella come un vestito di mussolina, l’unica storia nella letteratura inglese in cui stile, personaggi e tema siano in perfetto unisono». Charlotte compose altri due romanzi, Shirley (1849) e Villette (1853), il primo avente per sfondo il Yorkshire al tempo dei disordini industriali, e il secondo suggerito dall’esperienza bellica; conobbe la rinomanza, un breve periodo di felicità dopo il matrimonio con il Rev. A. B. Nichols (1854), e morì nella prima gravidanza.

    Alle qualità di osservazione realistica e di ironia comuni a molti romanzieri di quest’epoca, Charlotte Brontë unisce un’intensità di emozione che nei momenti felici s’esprime in modo diretto, rapido e conciso; Jane Eyre, il suo capolavoro, destò un certo scalpore a suo tempo perché l’eroina nei momenti di crisi mostra un coraggio che urtava contro le idee vittoriane di delicatezza; ma le appassionate eroine della Brontë non sono mai schiave della passione, anzi sono pronte a sacrificare all’onore e al dovere lo stesso amore. Ove tuttavia la Brontë, in parte per soddisfare le esigenze del pubblico, abbandona il terreno dell’osservazione e si affida alla fantasia, dà nel melodrammatico e nel frenetico in modo che risente della tradizione del romanzo «nero», inoltre il suo stile è talora contorto e gravato da astrattezza, e di rado riesce a dar l’impressione della parlata naturale.

    L’intensità emotiva è ancora più veemente nell’opera di Emily Brontë, le cui poesie rivelano un’anima ardente di mistica panteista e di indomabile stoica: solo le selvagge brughiere, da cui non poteva staccarsi, parlavano un linguaggio con il quale il suo cuore si sentiva all’unisono. Il suo prodigioso romanzo dal significativo titolo (Wuthering Heights – Cime tempestose) è un misto d’ingenuità (per esempio nello studio dell’anima del protagonista, Heathcliff, sorta d’uomo fatale alla Byron, figlio d’ignoti, e nella concezione, tipicamente virginea, di mostruosi orrori) e di rara intuizione, opera tra le più tumultuosamente romantiche di tutta la letteratura inglese, precorritrice, per l’intimo contatto con la desolata natura, dei romanzi dell’Hardy.

    La filosofia, se così vuol chiamarsi, che s’incarna in Wuthering Heights che tutto il creato, animato o inanimato, fisico e psichico, è espressione di certi vivi principi spirituali: da un lato quel che può definirsi il principio della tempesta – l’aspro, lo spietato, il selvaggio, il dinamico – dall’altro il principio della calma – il dolce, il clemente, il passivo, il mansueto. I due principi sono in contrasto, e insieme compongono un’armonia. Così osserva David Cecil (Early Victorian Novelists, Londra 1934), e può aggiungersi che a questo modo la concezione della vita di Emily Brontë appare straordinariamente vicina a quella di William Blake, l’unico artista inglese, anche egli un isolato, a cui la Brontë, che forse non ne seppe neanche il nome, rassomiglia. La tigre – l’agnello: quel contrasto che è il motivo centrale del Blake lo è pure della Brontë. Ancora: la vita degli uomini e quella della natura sono per lei sullo stesso piano; un uomo irato e un cielo irato non sono simili metaforicamente, ma essenzialmente, manifestazioni di un’unica realtà spirituale. Ai personaggi della Brontë non è applicabile l’ordinaria antitesi tra bene e male. Essi non cercano di porre freno alle loro passioni devastatrici, non si pentono dei loro atti di distruzione; ma siccome quegli atti e quelle passioni non sgorgano da impulsi di natura distruttiva, bensì da impulsi che sono distruttivi solo perché stornati dal loro corso naturale, essi non sono «cattivi». Inoltre la loro ferocia e la loro spietatezza hanno, nel loro ambito naturale, una parte da rappresentare nel disegno del cosmo, e come tali devono accettarsi. Il punto di vista di Emily Brontë non è immorale, ma premorale. Sicché il conflitto a cui assistiamo nel suo libro non è quello consueto dei romanzi vittoriani, tra bene emale; è piuttosto un contrasto tra simile e dissimile. Se non si tiene presente questo sostrato filosofico della Brontë, se invece di pensare all’«enantiotropia» di un Eraclito, pensiamo all’imperativo categorico di Kant, l’amore di Catherine, fra l’altro, diventa incomprensibile, ché, a giudicarlo con canoni ordinari, il lettore non intende che cosa la donna trovi d’attraente in Heathcliff, né perché il marito di lei non dovrebbe prendere offesa della sua passione per costui. In verità il sesso ha poco a che fare coi personaggi della Brontë: l’amore di Catherine è esente da sensualità come la forza che attrae la marea alla luna, il ferro alla calamita, e non ha più tenerezza che se fosse odio. A quell’amore par si addica il nome di «ira» che i nostri antichi davano all’ardore dell’appetito: «destandos’ira la qual manda foco» (Guido Cavalcanti, canzone «Donna mi prega»). Ira e umiltà, tigre e agnello: ecco i termini del cosmo della Brontë. Da un lato Wuthering Heights, la terra della tempesta, su nell’arida brughiera, nuda all’assalto degli elementi, naturale dimora della famiglia Earsnshaw, indomiti figli della tempesta. Dall’altro, protetta dalla frondosa via sottostante, Thrushcross Grange, l’appropriata dimora dei figli della calma, i gentili, i passivi, timidi Linton (il paesaggio, piuttosto che direttamente descritto, è costantemente presente nelle parole, nelle allusioni dei personaggi: così la Brontë ha compiuto il miracolo del massimo effetto di scenario col minimo dei mezzi). Ciascuno di quei due gruppi, seguendo la sua natura nella sua sfera, cospira a comporre un’armonia cosmica. È la distruzione (a opera di Heathcliff) e la restaurazione di quest’armonia che, secondo l’analisi del Cecil che abbiamo seguito, forma il tema del racconto. Che è molto complesso: c’è infatti una seconda generazione in cui la netta distinzione fra i figli della tempesta e i figli della calma s’è smussata; essi partecipano d’entrambe le nature; ma con questa differenza, che Hareton (figlio di Hindley Earnshaw) e Catherine (cioè la seconda Catherine, o Cathy, la figlia di Catherine Earnshaw e di Edgar Linton) sono figli dell’amore, e così combinano le qualità positive dei loro genitori, la gentilezza e la costanza della calma, la forza e il coraggio della tempesta; Linton invece (il figlio di Isabella e di Heathcliff) è figlio dell’odio, e combina le qualità negative dei propri genitori: la viltà e la debolezza della calma, la crudeltà e la spietatezza della tempesta. Tale lo schema del romanzo, logico come il profilo di una fuga musicale, per adoperare la felice similitudine del Cecil: schema da poema epico e da tragedia più che da romanzo.

    Forse Chesterton ha toccato la nota giusta quando ha detto (in The Victorian Age in Literature): «Wuthering Heights avrebbe potuto essere scritto da un’aquila». Sta sospeso così tra cielo e terra, più vicino al cielo che alla terra: romanzo meteorico. Solido e reale, a patto che s’interpretino le passioni degli uomini alla stregua dei fenomeni della natura. Romanzo che fa razza a sé, quasi unico monumento sopravvissuto d’una specie di uomini-grifoni affatto scomparsa. A voler a tutti i costi riconnettere Emily Brontë con qualcuno, si può pensare allo Shakespeare di Re Lear e, come ho detto, al Blake. In certi americani (Faulkner, il Faulkner di The Sound and the Fury, O’ Neill, Robert Penn Warren di World enough in Time) si può scorgere un tentativo di creare una tradizione bronteana, ma su un livello compromesso da troppi elementi torbidi e morbosi. Invece, nel romanzo della Brontë, con tutto che sia cupo, nulla v’è di morboso. La sua atmosfera, come ha notato Cecil, spira una salute selvaggia, esilarante: «Una pura, chiara luce di mattino l’irradia, un vento pungente imbevuto di neve vergine soffia nelle sue pagine; e benché le passioni che descrive siano violente, non v’è in esse nulla di febbricoso, di afoso; il loro calore è il calor bianco d’una fiamma vestale purificatrice».

    1 Tratto da Storia della Letteratura inglese (nuova edizione), Mario Praz, Sansoni Editore, 2003, pagg. 541-546.

    I

    1801. – Sono appena tornato da una visita al mio padrone di casa, l’unico vicino col quale dovrò avere a che fare. Senza dubbio una bellissima regione! Credo che, in tutta l’Inghilterra, non avrei potuto scegliermi un posto più lontano dal frastuono della società. È il paradiso del perfetto misantropo; e il signor Heathcliff ed io sembriamo fatti apposta per condividere questa desolazione che ci separa. Che uomo eccezionale! Di certo non immaginava quale viva simpatia io abbia provato nel vedere i suoi occhi neri ritrarsi sospettosi sotto le ciglia mentre avanzavo a cavallo, e le mani rifugiarsi in fondo al panciotto, con gelosa risolutezza, mentre gli annunciavo il mio nome.

    «Il signor Heathcliff?» chiesi. Mi rispose con un cenno del capo. «Il signor Lockwood, il vostro nuovo affittuario, signore. Mi onoro di presentarmi a voi il prima possibile, non appena arrivato; spero soltanto di non avervi importunato se ho insistito nel chiedervi di occupare Thrushcross Grange. Proprio ieri ho saputo che avevate l’intenzione...»

    «Thrushcross Grange è mia proprietà, signore» mi interruppe, aggrottando le ciglia. «Non permetterei mai a nessuno di importunarmi, qualora lo potessi impedire... Entrate!»

    Quell’«entrate» fu pronunciato a denti stretti ed esprimeva un sentimento ben diverso, forse un «andate al diavolo!». Perfino il cancello a cui era poggiato non dava il benché minimo segno di consenso a quella parola, e credo che fu proprio tale circostanza a farmi accettare l’invito. Provai subito un vivissimo interesse per quell’uomo esageratamente riservato, ancor più di quanto non lo fossi io stesso.

    Quando vide che il mio cavallo ormai spingeva col petto sulla sbarra, solo allora, finalmente, levò la mano per togliere la catena, e precedendomi di malavoglia per il vialetto entrò nel cortile gridando: «Joseph, prendi il cavallo del signor Lockwood e portaci su del vino.»

    «Immagino questa sia tutta la servitù di cui disponga» fu la riflessione suggeritami dal suo ordine. «Non mi sorprende tutta quest’erba che cresce fra le mattonelle, e che le siepi gliele potino le vacche.»

    Joseph era un uomo in età avanzata, o per meglio dire un vecchio; molto vecchio forse, quantunque sano e vigoroso. «Che iSsignore ci aiuti!» monologò sottovoce, con mal celato dispetto, mentre afferrava le briglie del mio cavallo, guardandomi con un volto tanto arcigno da farmi concludere, caritatevolmente, che l’aiuto divino lo stesse aiutando a digerire il pranzo, e che la sua pia invocazione non fosse quindi dovuta al mio arrivo inaspettato.

    Wuthering Heights è il nome della residenza di Heathcliff. «Wuthering» è un aggettivo di forte espressività, molto usato in provincia, e descrive il tumulto atmosferico al quale la casa si trova esposta durante la bufera. L’aria è senz’altro pura e mossa, lassù! Se si osserva come sono inclinati e malridotti gli abeti al limitare della proprietà, e scarni i roveti che tendono le braccia da un solo verso, come ad implorare l’elemosina al sole, ci si può bene immaginare con che violenza soffi questo loro vento del nord. Fortunatamente, l’architetto era stato avveduto abbastanza da costruire un edificio solido: le strette finestre sono bene incastonate nel muro, e gli angoli protetti da larghe pietre sporgenti. Prima di varcare la soglia mi soffermai ad ammirare gli intagli distribuiti lungo la facciata, specialmente attorno all’ingresso principale, sopra il quale, tra uno scialo di grifoni e putti nudi, distinsi la data «1500» ed il nome «Hareton Earnshaw». Avrei voluto fare un qualche commento, o chiedere una breve storia del luogo a quello scontroso proprietario, ma il modo con cui questi si teneva sulla porta sembrava esigere un ingresso immediato, o una ancor più rapida partenza, e io non desideravo certo accrescere la sua impazienza prima di poter visitare il luogo.

    Con un passo ci trovammo nel salotto di famiglia, senza anticamere o corridoi d’ingresso: da queste parti questa stanza è considerata il «cuore della casa». Generalmente comprende la cucina e il salotto, ma credo che a Wuthering Heights la cucina sia relegata altrove: da una remota distanza, infatti, mi giunsero uno schiamazzare di voci e il tintinnio degli utensili da cucina, e nei pressi dell’enorme camino non riuscivo scorgere nulla che somigliasse ad arrosto, bollito o pane, e neppure mi colpì il luccichio di casseruole di rame o schiumarole di stagno alle pareti. A dire il vero, da una delle mura giungevano riflessi di luce provenienti da alcune file di enormi piatti di peltro, alternati ad anfore e boccali d’argento, che torreggiavano in lunghe sequenze sovrapposte su di un’ampia credenza di quercia alta fino al soffitto. Sopra il camino vi erano diversi fucili vecchi e arrugginiti, un paio di pistole e tre contenitori metallici dipinti a colori vivaci, disposti a mo’ di ornamento. Il pavimento era in pietra bianca, levigata; le sedie dallo schienale alto e dal disegno rustico erano verniciate di verde, e due o tre sedie nere e pesanti se ne stavano accantonate nella penombra. Sotto la tavola riposava una enorme pointer color marrone, circondata da un branco di cuccioli; altri cani occupavano gli angoli della stanza.

    Il salotto ed il mobilio non avrebbero avuto nulla di straordinario se fossero appartenuti a un rozzo agricoltore del nord, dalla grinta dura e le membra poderose, messe in risalto dai calzoni corti fin sopra al ginocchio e dalle ghette. Un personaggio simile, seduto nella sua poltrona davanti a un boccale di birra spumeggiante può vederlo chiunque tra queste colline, nel raggio di cinque o sei miglia, purché si capiti al momento giusto, cioè dopo pranzo. Il signor Heathcliff, tuttavia, contrasta in modo affatto singolare con la sua dimora e con un tale stile di vita. L’aspetto è più simile a quello di uno zingaro: il viso è abbronzato, ma l’abito e i modi sono quelli di un gentiluomo; intendo dire di un gentiluomo al modo in cui lo sono molti proprietari di campagna, cioè un po’ trascurato. Eppure, a lui tale negligenza non torna di svantaggio, poiché è persona di bell’aspetto, dal portamento eretto e piuttosto altero. Può darsi che alcuni lo taccino di superbia e volgarità: nulla di più lontano dal vero. Io sento per istinto che la sua riservatezza nasce da un’avversione per qualunque dimostrazione sentimentale troppo vivace, o manifestazione di reciproca gentilezza. Egli ama, oppure odia, nel proprio intimo, con riservatezza, e considera un’impertinenza qualunque segno di amore o di odio altrui. No, forse corro troppo, e gli attribuisco con eccessiva prodigalità delle qualità che pertengono a me, invece che a lui. Il signor Heathcliff ha forse delle ragioni completamente diverse per il fatto di non avere mai una mano libera qualora incontri un conoscente come me. Amo sperare che un tale modo di sentire sia, piuttosto, tutto mio e mio soltanto. A questo proposito, la mia adorata madre era solita dirmi che non avrei mai posseduto una casa di proprietà, e infatti anche la scorsa estate ho dimostrato di non esserne assolutamente degno.

    Mentre mi godevo un mese di bel tempo al mare, finii per ritrovarmi in compagnia di una creatura affascinante; ai miei occhi una vera e propria dea... almeno finché lei non si accorse di me. Non mi «dichiarai» esplicitamente; però se gli sguardi hanno un loro linguaggio, persino un idiota avrebbe indovinato che ne ero perdutamente innamorato. Alla fine ella mi comprese e mi ricambiò col più dolce sguardo che si possa immaginare. E a quel punto cosa feci io? Lo confesso con vergogna: mi ritrassi in me stesso scontrosamente, come una lumaca. Ad ogni occhiata mi sentivo ricacciare sempre più lontano, e divenire sempre più freddo, così che la poverina cominciò addirittura a dubitare dei propri sensi, e confusa da quello che riteneva esser stato un abbaglio, persuase la madre a ripartire. Per via di questa stranezza di carattere mi sono guadagnato la fama di duro di cuore, ma quanto questa sia immeritata solo io posso giudicare.

    Mi sedetti al lato del camino opposto a quello verso cui il padrone di casa si era diretto, e pensai di riempire il silenzio creatosi cercando di accarezzare la cagna che, con fare da lupa, mi si era portata di soppiatto dietro le gambe, con il labbro arricciato e le zanne schiumanti per la brama di mordere. La mia carezza provocò un lungo ringhio gutturale.

    «Fareste meglio a lasciarla stare!» borbottò immediatamente il signor Heathcliff, impedendo con una pedata che la minaccia degenerasse. «Non è abituata alle carezze, e non la teniamo come un cane di casa.» Poi, muovendosi a lunghi passi verso una porta laterale, gridò ancora: «Joseph!»

    Si udì Joseph mugolare indistintamente dalle profondità della cantina, senza però dar segno di salire. A quel punto il padrone gli si precipitò incontro, lasciandomi vis-à-vis con la sua cagnaccia e un paio di orridi e irsuti bastardi da pastore che subito si misero, anch’essi, a sorvegliare ogni mio movimento. Me ne rimasi lì, seduto e immobile, per nulla desideroso di finire tra le loro zanne. Tuttavia, credendo che difficilmente avrebbero compreso il mio tacito insulto, ebbi l’infelice idea di lanciar loro una serie di occhiate e boccacce, sicché una delle mie smorfie irritò la madama tanto che a un tratto me la ritrovai sulle ginocchia. Respingendola a terra, senza perdere un istante riparai dietro il tavolo, cosa che fece balzar fuori l’intera compagnia; mezza dozzina di quadrupedi indemoniati, di varie dimensioni ed età, sbucò dalle proprie tane nascoste precipitandosi verso il centro della stanza. Capii che talloni e lembi di giacca sarebbero stati il loro principale obiettivo, e difendendomi dagli assalitori più grossi con l’attizzatoio alla bell’e meglio, fui presto costretto a invocare a gran voce l’aiuto di quelli della casa, perché si ristabilisse la pace.

    Il signor Heathcliff e il suo servo risalirono le scale della cantina con una flemma che aveva dell’irritante: non credo si fossero dati briga di affrettare il passo, sebbene la stanza fosse tutta un tempestio di guaiti e abbaiamenti. Per mia fortuna un’abitante della cucina mostrò maggior sollecitudine: era una florida donnona che con la gonna rialzata, le braccia nude e le guance infuocate, irruppe in mezzo a noi roteando una larga padella. Tale fu la perizia con cui adoperava arma e lingua che la burrasca si placò all’istante, come per magia, e quando il padrone riapparve sulla scena la donna era divenuta padrona del terreno, solitaria e ancora ansante come il mare dopo che ha infuriato il vento.

    «Che diavolo succede?» disse Heathcliff, guardandomi in una maniera che ritenni molto poco tollerabile, dopo un simile inospitale trattamento.

    «Ecco, appunto: che diavolo succede?» mormorai. «Un branco di porci indemoniati risulterebbe meno diabolico di questi vostri animali. Perché non lanciarmi in pasto alle tigri, a questo punto!»

    «Non se la prendono mai con chi tiene le mani a posto» osservò lui, posandomi la bottiglia davanti e rimettendo la tavola al suo posto. «È un bene che i cani rimangano vigili! Prendete un bicchiere di vino?»

    «No, grazie!»

    «Non siete stato morsicato?»

    «Se così fosse, il colpevole ora avrebbe il mio marchio stampato addosso.» Il viso di Heathcliff sembrò distendersi.

    «Via, via,» disse «siete sovreccitato, signor Lockwood! Ecco, prendete un po’ di vino. Gli ospiti sono così rari in questa casa che io e i miei cani non sappiamo come riceverli. Alla vostra salute.»

    Mi inchinai e contraccambiai l’augurio, iniziando a capire che sarebbe stato sciocco tenergli il muso per via dei modi bruschi di un branco di cagnacci, tanto più che non mi sentivo affatto disposto a offrire a quel burbero un’ulteriore occasione di divertirsi a mie spese, dato che tale era la piega che aveva preso il suo umore. Egli allora, pensando forse, prudentemente, che sarebbe stato da pazzi offendere un buon vicino, abbandonò un poco lo stile laconico e introdusse un argomento che supponeva potesse essere per me interessante – un discorso cioè sui vantaggi e gli svantaggi di una dimora solitaria. Lo trovai molto intelligente nel dibattere alcuni punti, e, prima di tornare a casa mi sentii talmente incoraggiato da proporgli un’altra mia visita per l’indomani. Eppure, evidentemente, non aveva alcun desiderio che una tale intrusione si ripetesse. Ciononostante, ritornerò. È sorprendente quanto più socievole mi senta, se mi paragono a lui.

    II

    Ieri pomeriggio il tempo si era fatto freddo e nebbioso. Avrei quasi preferito starmene nel mio studio, accanto al focolare, piuttosto che avventurarmi attraverso i campi fangosi alla volta di Wuthering Heights. Tuttavia, risalito dopo pranzo con tale proposito (N.B. La ragione per cui mangio tra le dodici e l’una è che non sono mai riuscito a far comprendere alla mia governante, una matrona annessa alla casa proprio come lo sarebbe un mobile, il mio desiderio che il pranzo venga servito alle cinque), appena varcata la soglia scorsi una ragazza che, inginocchiata davanti al fuoco e circondata da scope e secchi di carbone, estingueva le fiamme con dei mucchietti di cenere, sollevando un polverone infernale. Di fronte a questo spettacolo, tornai immediatamente sui miei passi, e preso il cappello, uscii di casa. Dopo circa quattro miglia, arrivai al cancello del giardino di Heathcliff che già cadevano i primi fiocchi di neve: appena in tempo per sfuggire alla bufera.

    Alla sommità della collina la terra era nericcia e indurita dal gelo, ed il freddo faceva rabbrividire. Non riuscendo a togliere la catena, saltai il cancello, e percorso velocemente il sentiero lastricato lungo il quale crescevano dei miseri cespugli di uva spina, battei alla porta fino ad averne le dita indolenzite, ma invano: l’ululare dei cani era l’unica risposta a provenire dall’interno.

    Criminali maledetti! sbottai mentalmente. Ve la meritate la vita da reclusi, con questa vostra stupida aggressività! Ma poi, è mai possibile che anche di giorno si debbano tenere le porte sbarrate..! Va bene, non importa, entrerò ugualmente! e, così deciso, detti di piglio al catenaccio e lo scossi con violenza. Da un rotondo finestrino del granaio si sporse il viso arcigno di Joseph.

    «Che vulite?» urlò lui. «Il padrone sta giù, nell’ovile. Se ddesiderate pallargli fate iggiro del podere.»

    «Non c’è nessuno in casa che mi possa aprire?» gli gridai per tutta risposta.

    «Ci sta solo la padrona, ma pure se continuate co’ tutto stu bbaccano fino a nnotte, state sicuro che quella non vi aprirà.»

    «E perché no? Non potete dirle chi sono? Eh, Joseph?»

    «Iiio? No! Non ci vogghio proprio entrare!» ribatté il viso, e poi scomparve. La neve cominciava a cadere più fitta; afferrai il catenaccio per fare un altro tentativo, ma in quel preciso istante vidi avvicinarsi dal cortile un giovane senza giacca, con in spalla un forcone. Mi fece cenno di seguirlo, e dopo aver attraversato il lavatoio e un tratto di terreno pavimentato dove erano la carbonaia, una pompa ed una colombaia, arrivammo finalmente nello stanzone, accogliente e ben riscaldato, nel quale ero stato ricevuto la prima volta. La luce di un gran fuoco sul quale erano accatastati carbone, torba e legna conferiva alla sala una piacevole luminosità, e accanto alla tavola preparata per una cena abbondante potei scorgere la padrona di casa; una persona di cui non avrei mai sognato l’esistenza. Mi inchinai e attesi di essere invitato a sedermi. Lei mi guardò, e appoggiatasi allo schienale della sedia se ne rimase muta e immobile.

    «Che tempaccio!» esclamai. «Temo, signora Heathcliff, che la vostra porta abbia subito le conseguenze dell’indolenza della vostra servitù. Ho dovuto faticare parecchio per farmi sentire!»

    Non aprì bocca. La fissai. Lei mi fissò, o per meglio dire mi rivolse uno sguardo freddo, indifferente, piuttosto imbarazzante e spiacevole.

    «Sedetevi!» disse il giovane in tono aspro. «Torna presto.»

    Ubbidii, e dopo qualche esitazione chiamai a me quella canaglia di Juno, che a questa seconda visita si degnò almeno di smuovere l’estremità della coda, in segno di riconoscimento.

    «Bella bestia!» ripresi. «Signora, avete forse intenzione di separarvi dai piccoli?»

    «Non sono miei!» disse l’amabile padrona, in modo ancor più scorbutico di quanto avrebbe saputo fare Heathcliff.

    «Ah, i vostri preferiti allora sono lì, fra quelli?» feci io, volgendomi in direzione di un cuscino sul quale posava qualcosa di oscuro, come un groviglio di gatti.

    «Strana idea di preferiti avete!» osservò lei con disprezzo.

    Per mia sfortuna si trattava di un mucchio di conigli morti. Mi portai quindi più vicino al focolare, ripetendo il mio commento sull’inclemenza della serata.

    «Non avreste dovuto uscire» disse lei, alzandosi per togliere dalla mensola del camino due dei barattoli verniciati.

    Se dapprima, nella posizione in cui si trovava, era rimasta al riparo dalla luce, con quella mossa mi offrì una prospettiva più nitida di tutta sé stessa. Era snella, e doveva aver passato da poco la fanciullezza; forme graziose, e il più bel visetto che avessi mai avuto il piacere di ammirare. Lineamenti piccoli, incantevoli; capelli biondi inanellati intorno al collo delicato e occhi che, se avessero avuto un’espressione benevola, sarebbero stati irresistibili. Fortunatamente per il mio cuore sensibile, il solo sentimento che rivelavano era un disprezzo misto a una certa disperazione singolarmente inverosimile per una persona col suo aspetto. Quei barattoli non parevano esser troppo a portata di mano, per cui feci per aiutarla; si volse di scatto verso di me, come un avaro al quale fosse stato offerto aiuto per contare il proprio denaro.

    «Non ho bisogno di voi, li posso prendere da me!» disse seccamente.

    «Chiedo scusa!» mi affrettai a risponderle.

    «Siete stato invitato per il tè?» mi domandò, annodando un grembiule sopra il suo abitino nero e arrestandosi col cucchiaio ricolmo di foglie posato sull’orlo della teiera.

    «Ne prenderei volentieri una tazza» risposi.

    «Siete stato invitato?» ripeté.

    «No» dissi sorridendo. «Mi dovete invitare voi.» Rimise tè, cucchiaio e ogni cosa a posto e tornò a sedersi, corrugando la fronte e spingendo in fuori il labbruccio rosso come un bambino che sta per mettersi a piangere.

    Il giovane intanto aveva indossato una palandrana decisamente logora e, ritto davanti al fuoco, mi guardava astiosamente, proprio come se tra noi due vi fosse un dissidio mortale che avremmo dovuto regolare. Cominciai a dubitare che fosse un servo; l’abito ed il linguaggio erano rozzi, del tutto privi della distinzione che si notava nei signori Heathcliff. I capelli bruni, fitti e ricciuti erano ruvidi e incolti, le basette gli ricoprivano quasi interamente le guance, conferendogli un aspetto selvaggio; le mani erano abbronzate come quelle di un qualsiasi contadino. Eppure aveva il portamento sciolto, quasi altezzoso, e non mostrava la servilità di chi si tiene agli ordini della padrona di casa. In mancanza di indicazioni sicure sulla sua condizione, pensai

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