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La spada sfoderata dell'Islam: Utopia di un viaggio nel Mediterraneo
La spada sfoderata dell'Islam: Utopia di un viaggio nel Mediterraneo
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La spada sfoderata dell'Islam: Utopia di un viaggio nel Mediterraneo

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About this ebook

Nel terzo giorno della creazione il Signor Iddio così disse: «Si radunino tutte le acque in un sol luogo e appaia l’asciutto.» E chiamò l’asciutto Terra, ed il luogo di raccolta di tutte le acque Mari (Genesi 1,9 - 1,10) e quando finalmente si attardò a guardare il lavoro compiuto ne rimase soddisfatto: L’enormità del mare! Le terre che lo lambivano! I venti che lo percuotevano, e che alzavano onde poderose stagliate su un orizzonte perforato da fulmini e saette. Partiti da Troia sulle rotte dei Fenici, siamo giunti a Gaeta attraversando il Mediterraneo in barca a vela. Ed è la storia dell’uomo che si intreccia con le storie di mare, e le storie di mare arrivano a noi attraverso i giornali di bordo.
LanguageItaliano
Release dateNov 22, 2021
ISBN9788833469157
La spada sfoderata dell'Islam: Utopia di un viaggio nel Mediterraneo

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    La spada sfoderata dell'Islam - Francesco Di Chiappari

    spada-islam_fronte.jpg

    La spada sfoderata dell’Islam. Utopia di un viaggio nel Mediterraneo

    Seconda parte

    di Francesco Di Chiappari

    Direttore di Redazione: Jason R. Forbus

    ISBN 9788833469157

    Pubblicato da Ali Ribelli Edizioni, Gaeta 2021©

    Narrativa – Intrecci

    www.aliribelli.com – redazione@aliribelli.com

    È severamente vietato riprodurre, in parte o nella sua interezza, il testo riportato in questo libro senza l’espressa autorizzazione dell’Editore.

    LA SPADA SFODERATA DELL’ISLAM

    Utopia di un viaggio nel Mediterraneo

    Francesco Di Chiappari

    Seconda parte

    AliRibelli

    Indice

    Capitolo I

    Il mare che non divide

    Capitolo II

    La donna che gli salvò la vita

    Capitolo III

    Jordhan

    Capitolo IV

    La spada sfoderata dell’Islam

    Capitolo V

    Il Dio di Husami

    Capitolo VI

    Lepanto

    Epilogo

    Ma misi me per l’alto mare aperto

    sol con un legno e con quella compagna

    picciola da la qual non fui diserto.

    Dante, Inferno, canto XXVI (100-102)

    A Riccardo Pennesi,

    guardandoci negli occhi.

    La spada sfoderata dell’Islam

    è un’opera di narrativa, anche se molti riferimenti affondano nel mito e nella storia.

    Questo mare è mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà. Viaggiare nel Mediterraneo significa incontrare il mondo romano in Libano, la preistoria in Sardegna, le città greche in Sicilia, la presenza araba in Spagna, l’Islam turco in Yugoslavia.

    Fernand Braudel

    Capitolo I

    Il mare che non divide

    Navigare necesse est, vivere non est necesse. Plutarco, Pompeii, 50.

    Sei la mano armata di Allah che nel tuo coraggio ha visto l’arma per sconfiggere gli infedeli.

    In viaggio, 3 agosto 2017.

    Gli edifici che si slanciano intorno al porto Grande di Alessandria si videro scomparire non appena poggiammo oltre punta Càlaki, all’estremo d’occidente dell’isola di Pharo, e sulla spinta di un vento caldo proveniente dal deserto guadagnammo il mare aperto con la sola randa issata in testa d’albero. Era il primo mercoledì di agosto del 2017, e dovevamo arrivare a Malta nel più breve tempo possibile. Riccardo Pennesi sarebbe dovuto rientrare con una certa urgenza. Qualche settimana per godersi la famiglia e poi di nuovo a lavoro. Un recente studio sulla «Salvaguardia dei litorali dalle mareggiate», ritenuto interessante dalla Protezione Civile dell’Emilia Romagna, doveva essere completato con disegni e relazioni per accedere ai finanziamenti disposti dalla regione.

    Alessandria d’Egitto ci aveva stregati, e lo aveva fatto con l’aspetto caotico e un po’ rétro dei suoi quartieri a ridosso del lungomare. Ne avevamo percorso vicoli e piazzette, visitato chiese e moschee, rimanendo ligi alle regole stabilite per i luoghi di culto e di preghiera. Naturalmente non rinunciammo affatto alla promessa fatta a Jordhan e, con un fuoristrada noleggiato presso un’agenzia turistica locale, per di più completo di autista, riuscimmo ad arrivare a Giza in prima serata. Vedere il meraviglioso spettacolo delle piramidi sotto il chiarore della luna piena è un’esperienza irripetibile. Sembrava venirci addosso per quanto fosse a portata di mano, e rivolgendole lo sguardo da una postazione privilegiata (sdraiato tra le piramidi di Chefren e Micerino), ebbi come la sensazione di riconoscerci «la matta», quella che i pescatori di Gaeta dicono di vederci sgambettare ad ogni luna piena. Una matta senza arte né parte, che su una slitta di cristallo si butta a capofitto lungo i pendii scoscesi dei crateri tutta imbiancata di zucchero a velo.

    Che meraviglia la fantasia!

    La scelta del percorso per Malta fu sottoposto a discussione. Nessuno di noi conosceva le caratteristiche di quei mari, e con la carta nautica tenuta distesa sul tavolo da carteggio provammo a tracciare due possibili rotte somiglianti solo in parte.

    La prima rotta procedeva ad occidente fin verso il confine libico di Sollum (Capo Trabusco). Da qui, puntando a settentrione, avremmo raggiunto l’isola di Creta traversando le rotte commerciali che coinvolgono il canale di Suez. Da Creta, poi, navigando secondo il parallelo di latitudine 35° (gradi) e 54’ (primi) nord, avremmo raggiunto Malta – solitario smeraldo nell’azzurro del Mediterraneo – percorrendo altre 310 miglia marine.

    Tragitto stimato: 690 miglia complessive; soste intermedie destinate all’approvvigionamento: Kafr Sabir, Sollum e Plakias, a meridione di Creta. Il secondo itinerario, sempre diretto ad occidente, costeggiava l’Egitto e la Libia fino a Misurata. Da qui, puntando a settentrione con rotta nord 2° (gradi) ovest, avremmo raggiunto Malta attraverso un percorso complessivo di circa 880 miglia marine. Soste intermedie: Kafr Sabir, Sollum, Bengasi e Misurata.

    Quale dei due tragitti scegliere per la traversata?

    Personalmente suggerii di puntare su Malta «via Creta». Avremmo traversato il Mediterraneo temprandoci in esso sia come uomini, sia come marinai. L’altro itinerario invece, quello «via Misurata», era stato il preferito di Filippo e Gianluigi. «Per quanto più lungo è meno interessante del primo, avremo la costa egiziana e libica sempre a portata di mano», avevano affermato entrambi. Jordhan, dal canto suo, era rimasto indifferente, visti i trascorsi burrascosi che aveva avuto con il mare. Fu Riccardo Pennesi a mettere un punto fermo alla discussione, e chiamando la stazione meteorologica di Kafr Sabir si fece trasmettere le previsioni meteo marine riferite a tutta la settimana.

    «All right, thank you», concluse interrompendo la comunicazione, e indicò a tutti noi l’andamento dei venti secondo le informazioni ricevute.

    «Venti moderati da sud-est per i prossimi quattro giorni», e tracciò la rotta che sembrava la più conveniente per raggiungere Malta.

    «Buon vento a tutti», aggiunse per consuetudine marinara. «Ci muoviamo per Creta.»

    Alcuni anni fa nell’Africa sud sahariana.

    «Mi chiamo Jorsuf Dhani Muabdi, terzogenito di Faika, della famiglia dei Muabdi Nghali. Rastrellato con quattro fratelli da un villaggio sperduto nei pressi di Batha, nel sud-est dell’Etiopia, sono arrivato fino a voi stremato, dopo aver vissuto otto lunghissimi anni negli abissi più profondi dell’inferno. Non conoscevo il mare, non sapevo bene che cosa fosse. Nessuno tra gli anziani del villaggio me ne aveva mai parlato, neanche quando all’interno dell’Agàl, seduti intorno al fuoco ad arrostire carni di Zebus, ci raccontavano storie di antenati partiti per terre lontane e ritornati a riferire. Nessuno si era mai imbattuto in qualcosa che rassomigliasse al mare, e neppure i giovani guerrieri che percorrevano i pascoli appresso agli armenti ne avevano sentito parlare. Nessuno ne immaginava le forme, le reali dimensioni, il sapore salato delle sue acque. Conoscevano la savana nei dettagli, gli animali della savana, il clima torrido della savana, ma nulla sapevano del mare. L’unico ad averlo fatto, che aveva provato a dircene qualcosa era stato Mbato Amin Karey. Ne aveva scorto le sembianze percorrendo l’altopiano somalo del Karkaar, quando contrabbandava avorio per un trafficante yemenita.

    «Occupa tutto lo spazio che si può scorgere girando la testa da una parte all’altra», aveva detto con le braccia aperte per alludere all’infinito, «e riflette i raggi del sole in uno scintillio di gemme preziose quando il tramonto è ormai alle porte. Il lago Tana, e tutte le acque piovane che si raccolgono nel suo bacino, ne rappresenta solo un’idea, una piccolissima e miserabile idea.»

    Mi chiamo Jorsuf Dhani Muabdi, terzogenito di Faika, della famiglia dei Muabdi Nghali. Sono stato rastrellato da un villaggio sperduto nei pressi di Batha per mano di un gruppo di miliziani al servizio di «Al-Shabaab», una setta di guerriglieri musulmani che si nutrono di potere mascherandosi dietro il paravento dei combattenti per la libertà.

    Portato a Bohaso (un campo di formazione paramilitare e di indottrinamento religioso) sono stato addestrato come giovane jihadista e costretto ad imparare a memoria i versetti del Corano. Li avrei dovuti recitare percorrendo la strada della redenzione. Un condannato a morte, questi ero diventato. Un giovane militante jihadista destinato ad uccidere miscredenti e cristiani immolandosi ad Allah.

    «Solo così potrai aspirare ad un posto di favore nei suoi cieli infiniti. Più grande il sacrificio, maggiore la gloria nell’Altissimo», blateravano per indurmi al fanatismo più estremo.

    Ed ero poco più che un bambino, quando con un giubbotto imbottito di tritolo fui mandato a morire lì, nei pressi del grande albergo DusitD2, a Nairobi.

    «Sei il prescelto Jorsuf, il predestinato», continuavano a fare per incoraggiarmi. «Sei la mano armata di Allah che nel tuo coraggio ha visto l’arma per sconfiggere gli infedeli.» Un condannato a morte, questi ero diventato!

    Un martire della causa, un ragazzo bomba da immolare sull’odiato sagrato dell’occidente cristiano.

    Guerre ingiustificate e senza scampo; guerre che si consumano nell’indifferenza più assoluta delle nazioni più evolute e dell’ONU. L’importante è vendere le armi, fare affari miliardari scambiando strumenti di morte con ricchezze minerarie, petrolio e diamanti. E per farlo da indisturbati miscredenti generano confusione, istigano alla morte, favoriscono il formarsi di bande criminali che si combattono l’un l’altra patteggiando per i signori della guerra e per se stessi. Un circolo vizioso che predispone singole etnie, intere comunità e stati confinanti, a contrapposizioni feroci e disumane spacciate per «guerre di libertà». Ne sono derivate liste di arruolamento perennemente aperte, con oltre 150 gruppi paramilitari tra jihadisti, separatisti, anarchici o semplici mercenari, alimentati da un nutrito numero di bambini soldato. La Somalia, l’Eritrea, l’Etiopia, le dittature militari e le guerre civili, ne sono solo una conseguenza. E nel bel mezzo del calderone pieno zeppo di ogni condimento malefico: carestia, morte, e sistemi di governo basati su tribù che martirizzano altre tribù, nascondendosi dietro contrapposizioni cristiano-islamiche alimentate da company internazionali che foraggiano economicamente i capi banda. E lo fanno sotto gli occhi del mondo civile, gli stolti, impunemente; ed il mondo civile, che dovrebbe intervenire per salvare vite umane, finge. Finge di non vedere, di non sapere, di non accorgersi che si stanno approfittando delle risorse dei territori africani per spartirsele tutte intere. La Somalia, dopo la conquista dell’indipendenza, non ha conosciuto un solo giorno di pace.

    Mi chiamo Jorsuf Dhani Muabdi, terzogenito di Faika, della famiglia dei Muabdi Nghali. Rastrellato da un villaggio sperduto nei pressi di Batha, nel sud-est dell’Etiopia, sono arrivato fin da voi stremato, dopo aver vissuto otto lunghissimi anni negli abissi più profondi dell’inferno. Trasportato su un vecchio fuoristrada a Nairobi, mi sono avvicinato all’edificio con tutta calma e, non appena alcune macchine di lusso si sono fermate presso l’albergo DusitD2, ho raggiunto la postazione che mi era stata assegnata: sotto le foglie di una pianta ornamentale di banane a sinistra dell’ingresso. Dalle macchine sono scesi molti uomini dall’aspetto austero: sceicchi, generali, uomini di affari, con un nutrito numero di dignitari e agenti di scorta. Era giunto il momento dell’espiazione ed io, il soldato predestinato alla vita eterna, colui che avrebbe indirizzato la mano di Allah contro gli infedeli, ero pronto e rassegnato. Neanche il botto avrei sentito per la violenza dell’esplosione. Non dipendeva da me l’innesto del meccanismo, non governavo io la scelta dell’attimo fatale. Io ero la messinscena, il portatore sano dell’orrenda sciagura, ed ero sistemato lì, presso l’albergo DusitD2, a Nairobi, sotto una pianta ornamentale di banane a sinistra dell’ingresso.

    L’esplosione l’avrebbe comandata qualcun altro, qualcuno che nemmeno conoscevo. Avrebbe attivato l’innesto attraverso il cellulare, componendo il numero stabilito dal sistema esplosivo. Tutto si sarebbe consumato in un batter di ciglia, ed avremmo assistito ad una strage, ad una grande grandissima strage.

    «Più grande il sacrificio, maggiore la gloria nei cieli» e, nell’attesa che tutto si compisse, pensai intensamente alla mia famiglia, ai miei fratelli, alle sorelle, e alla vita che conducevo in quel piccolo villaggio a sud-est dell’Etiopia. Mio padre, Thessene Abdjai, ha generato sedici figli da tre differenti mogli: Faika (mia madre), Daja e Ameba; inoltre possiede animali e armenti che scorazzano liberi nel cortile, quattro Zebus dalle corna appuntite che producono latte, e tre cani Saluki addestrati per la guardia.

    Si vive così nel nostro villaggio, di caccia e pastorizia. Il lavoro dei campi è poco praticato per l’assenza di acqua. Alcuni anni fa – me li ricordo bene perché giocammo a palla nello spiazzo davanti al villaggio – sono arrivati degli operatori stranieri per scavare un pozzo fuori dal recinto delle capanne. Appartenevano ad un Ente Solidale di sviluppo intergovernativo proveniente dalla Germania. Hanno trivellato il suolo per alcuni giorni e sono andati via. Tutto inutile. Dobbiamo aspettare la stagione delle piogge per abbeverare la terra. È così che si vive quaggiù, regolando il trascorrere della vita all’attesa che succeda qualcosa; che il tramonto cedi il passo alla notte e l’alba al nuovo giorno. È così che viviamo; quattro nuclei familiari all’interno del villaggio, e occupiamo otto capanne circolari protette da un recinto di robusti assi di Hagenia, intrecciati con numerosi rametti tenuti insieme da fango ed argilla.

    Rastrellato nei pressi di Batha assieme a quattro dei mie fratelli, sono arrivato fin qui da solo e, credetemi, nulla pretendo se non il rispetto per la vita che mi è stata rubata senza che mai l’avessi chiesto.»

    Nel terzo giorno della creazione il Signor Iddio così disse: «Si radunino tutte le acque in un sol luogo e appaia l’asciutto.» E chiamò l’asciutto Terra, ed il luogo di raccolta di tutte le acque Mari (Genesi 1,9-1,10) e quando finalmente si attardò a guardare il lavoro compiuto ne rimase soddisfatto:

    L’enormità del mare!

    Le terre che lo lambivano!

    I venti che lo percuotevano, e che alzavano onde possenti stagliate su un orizzonte perforato da fulmini e saette.

    Il mare.

    È stato l’alambicco della vita, l’origine di ogni forma cellulare, l’officina organica di tutte le specie evolute e che nel tempo arcaico di milioni di anni hanno individuato l’habitat per potersi sviluppare: chi nelle acque, chi sulle terre emerse, chi nell’alto dei cieli (quando ancora i suoi componenti gassosi sfiammavano di rosso e di turchino lungo la fascia del sole che tramonta).

    Il mare.

    E conserva molte delle sue caratteristiche ancestrali il mare, rimanendo una delle parti più selvagge della natura indomita e battagliera. Il mare che crea, che preserva, il mare che distrugge, sgretolando e cospargendo letti di ghiaia laddove è necessario o più gli aggrada.

    Lungo le coste basse, ad esempio, con l’aiuto delle correnti, del vento, e della marea.

    Il mare.

    E si concede ai suoi amanti con sentimento e devozione, il mare. Ma se si accorge che qualcuno ne abusa o se ne approfitta, sono guai. Allora si arruffa, si aggroviglia, si trasforma in vortici di inaudita potenza, che gli esperti climatologi chiamano trombe marine. Le vedi comparire laggiù, senza alcun preavviso e, gravide dell’energia scambiata con il cielo, aggrediscono il litorale scaricandovi addosso la propria ira.

    «È il respiro della Terra che prende forma», dicono gli ambientalisti più sfegatati. Un respiro affannoso, viscerale, spesso cavernoso, che affida al mare il compito di ammonire gli uomini affinché adoperino atteggiamenti responsabili verso la «Grande Madre Natura», oggi visibilmente in affanno.

    Il mare.

    E quando un tempo se ne temevano i misteri, e lo si rispettava per la forza delle sue onde e dalle correnti, lui ci gratificava, e gratificava soprattutto gli uomini arditi ai quali concedeva l’opportunità di navigarlo, alla ricerca di nuovi orizzonti da scoprire. E ciò che all’inizio era sembrato un ostacolo, una barriera insormontabile tra coste lontane, è diventato un elemento di coesione, una risorsa in più, senza la quale non avremmo imparato a navigare, a muoverci, a comunicare. E il mare ci cullò, poi ci trasportò, e quindi avvicinò culture differenti che si scambiarono nei saperi e si fortificarono nelle idee. Ne nacque una generazione di uomini e donne più consapevole, con sguardi alti e fieri, che seppero erigere i capisaldi del mondo che si stava formando. E costruirono porti e approdi, magazzini e granai, centri di cultura e di pensiero, e tutte quelle strutture che furono alla base delle grandi città di mare.

    «Mi chiamo Jorsuf Dhani Muabdi, terzogenito di Faika, della famiglia dei Muabdi Nghali. Rastrellato con quattro fratelli da un villaggio sperduto nei pressi di Batha, nel sud-est dell’Etiopia, sono arrivato fino a voi stremato, dopo aver vissuto otto lunghissimi anni negli abissi più profondi dell’inferno.

    Il tritolo, quel giorno, non esplose affatto, e la responsabilità del fallito attentato venne fatta ricadere su di me, su Jorsuf Dhani, colui che non era riuscito ad armare la mano di Allah contro gli infedeli. E pagai cara quella colpa; la dovetti scontare per mesi, soprattutto per volere di Bwana Marsi, il capo mercenario dei terroristi – per tutti «Ceghe», il matto – come se fosse dipeso da me il cattivo funzionamento del meccanismo di innesco dell’esplosivo. Insultato, fustigato, tenuto in disparte, venni rinchiuso nel recinto con gli animali; bevevo con gli animali, mangiavo con gli animali, pulivo lo sterco degli animali, e l’odio che montava, che mi cresceva dentro, che alimentava la filiera interiore della mia inconsistenza. Avevo più o meno undici anni allora, una maglietta di cotone slabbrata sul collo, dei sandali infradito consumati fino al midollo, e numerose ferite sul corpo, le cui cicatrici mi marchiano ancora la pelle. Ed era il tempo in cui nel mio villaggio gli anziani mi avrebbero concesso il bheoka (il primo gradino verso la giovinezza) segnandomi la fronte ed il viso con la terra ocra di Pjghe, necessaria a rendermi immune dalle paure dello spirito. Nel corso della cerimonia avrei conosciuto la mia futura sposa, e affidato all’esperienza dei cacciatori adulti – tra i quali il maggiore dei miei fratelli Kabe – per imparare a gestire gli armenti, acquisire le prime abilità nella caccia, a recuperare le radici profonde di manioca (o di yuca), prima ancora che la siccità le rendesse del tutto inservibili. Ed invece me ne stavo lì, rinchiuso nel recinto con gli animali a espiare una colpa non commessa. Ero quasi giunto allo stremo della resistenza fisica e mentale quando mi tirarono fuori per mettermi alla prova. Dovevo mantenere i rapporti tra alcune cellule dormienti nell’ambito del distretto di Doha. Nessuno avrebbe fatto caso a me, ad un ragazzino trasandato di appena undici anni, e mi sarei potuto muovere agevolmente senza l’assillo di essere spiato, seguito, controllato. Fui anche l’orecchio teso della jihad, una sorta di infiltrato nei luoghi affollati. Avevo il compito di ascoltare, memorizzare, riferire. Per ogni notizia carpita, vagliata e confermata, avevo diritto ad una piccola gratificazione; diversamente digiuno e fustigazione, e il recinto degli animali sempre pronto ad ospitarmi. E mi trattarono così per anni, con bastone e carota, e l’assurda mannaia del ricatto: «Ne va della sopravvivenza del tuo villaggio», facevano per spaventarmi quando me ne parlavano, «della vita della tua gente. Se ci deludi ancora li faremo fuori, tutti.» E sopportai in silenzio, e feci ciò che mi dicevano di fare in silenzio, e divenni spietato, invisibile, operativo. Imbracciai il fucile e presi a sparare, e quando il Ceghe me lo ordinava: «Allah akbar» gridavo, intanto che sparavo.

    «Dobbiamo scacciarli dai nostri territori», si giustificavano nelle loro messe in scena, ma sapevo benissimo che si trattava di una guerra tra bande di terroristi; un modo come un altro per rastrellare ricchezze attraverso la violenza e la sopraffazione. Non potevo fare altro che obbedire, e obbedii. Una volta partecipai all’assalto contro alcuni automezzi che da Khartum erano diretti ad Addis Abeba. All’uscita di Famak – un villaggio di disperati la cui sopravvivenza è garantita da un’enorme discarica a cielo aperto – gli automezzi si fermarono e depositarono decine di contenitori di materiali tossici che il gruppo terroristico Osman conferiva dietro i compensi delle Company occidentali che non badavano a spese. Liberati i cassoni da quel mucchio di nefandezze: scarti di lavorazioni industriali, residui chimici complessi, solventi esausti di aziende petrolchimiche, prodotti farmaceutici scaduti, gli automezzi imboccarono un sentiero polveroso e poco battuto che conduceva in Etiopia, evitando ogni controllo della polizia di frontiera. Giunti che furono presso lo slargo degli elefanti – località che io stesso segnalai al Ceghe, per averla sentita nel corso di una conversazione al mercato di Doha – gli automezzi furono caricati di armi, munizioni e ordigni bellici di ogni tipo da destinare a famigerati gruppi armati della tribù dei Murle che assieme ad altre tribù locali agivano lungo la fascia di confine tra il Sudan e il Kenya.

    Un traffico di armi enorme, incontrollato, che arricchiva proprio tutti: i produttori internazionali che vi lucravano da tempo; i broker e gli intermediari locali che stabilivano le condizioni di mercato; i terroristi del gruppo Osman che, oltre a rifornirsi in proprio, ne rivendevano una parte ai ribelli del Kenya, che per procurarsi i denari necessari all’acquisto del materiale bellico depredavano, saccheggiavano, traevano in ostaggio chiunque potesse rappresentare una fonte di guadagno dietro il versamento di un riscatto.

    Nel corso del tragitto di ritorno, mentre gli automezzi erano impegnati a guadare il fiume Al-Azraq in una zona con scarsa spinta della corrente, le cellule armate di Al-Shabaab, con un’azione di guerriglia paramilitare, e migliaia di proiettili esplosi a tiro incrociato, trucidarono tutti i miliziani Osman di scorta agli automezzi e si impossessarono del carico d’armi contrabbandato in Etiopia. Schierato io stesso nei ranghi della terza cellula armata assieme ad altri ragazzi soldato, dovetti sparare, sparare, e continuare a sparare, fino a farmi ardere

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