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Tutto a posto
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Tutto a posto

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About this ebook

L’indagine sulla morte di un Onorevole della Repubblica in odore di mafia rivela il piano di un mafioso vecchio stampo che, scampato ad un attentato, vuole vendicarsi eliminando la nuova cupola. Si tratta di una lotta tra due mafie: quella arcaica e tradizionale e quella moderna da colletti bianchi, altrettanto spietata. Nuove strategie con vecchie tecniche. Un coraggioso giovanissimo testimone viene eliminato, ed inizia l'ecatombe.
LanguageItaliano
Release dateNov 21, 2013
ISBN9788898475711
Tutto a posto
Author

Alfio Caruso

Alfio Caruso nasce a Catania nel 1950. Dopo la laurea esordisce nel giornalismo scrivendo per Il Corriere della sera e nel 1974 è fra i fondatori del Giornale. Negli anni Ottanta lavora al Corriere e alla Gazzetta dello sport, rispettivamente come caporedattore e vicedirettore, nel 1995 diventa co-direttore del Messaggero, mentre nel 1996 è direttore editoriale della Nazione, Resto del Carlino, Giorno. Parallelamente alla sua carriera giornalistica sviluppa una carriera letteraria scrivendo romanzi, thriller e saggi sulla storia italiana e sulla mafia. Ha pubblicato le sue opere con Leonardo, Rizzoli, Longanesi, Einaudi e Neri Pozza.

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    Tutto a posto - Alfio Caruso

    Uno

    Di sere come quella continuano a comparirne tante. Sere tiepide, indolenti, che una volta si consumavano passeggiando sotto i lampioni del grande viale e che ora si consumano in casa, al chiuso, nell’illusione di essere al riparo. Ma è appunto un’illusione: in questa città il mare addolcisce la natura, non gli uomini.

    Eppure quella sera nelle vie silenziose, fra palazzi che proiettavano una cupa oppressione, Giovannino pedalava di buona lena, ansante, sudato, rosso in volto dall’eccitazione. I genitori credevano che fosse a giocare in cortile, lui invece non aveva resistito alla tentazione di usare la bicicletta. La sua prima bicicletta, gliel’aveva portata la befana.

    Era uscito di nascosto. «Vado a giocare giù» aveva gridato verso le stanze in cui c’erano il papà e la mamma. Dal cortile, invece, si era spinto in istrada, una pedalata dopo l’altra fino a essere completamente assorbito da un’ebbrezza sconosciuta. E poi volete mettere l’emozione di una disubbidienza che lo faceva sentire eguale agli adulti?

    La sensazione di libertà lungo quelle vie fiocamente illuminate un po’ lo esaltava, un po’ l’impauriva. Sforzava le gambe ingoiando aria con la bocca aperta. Gli occhi velati per lo sforzo e per la tensione intravedevano appena le masse scure di residenze imbruttite dall’incuria e dagli anni. Scorrazzava nelle strade vuote e la felicità era tanta che il cuore sembrava schizzargli dal petto. Ma dietro la felicità stava in agguato la paura di esser scoperto, di perdere quel pezzettino di mondo appena conquistato.

    Avvertì che i minuti passavano e che era tempo di tornare a casa. Non scelse il percorso più breve, allungò pur di sbucare nella grande piazza dove troneggiava il maestoso albergo tinto di verde dai riflessi della fontana. Giovannino guardò l’albergo con ammirazione sconfinata, chissà quale vita vi pulsava dentro. Sognò che un giorno, dopo esser diventato un medico famoso in America, sarebbe ritornato e anziché dormire a casa avrebbe dormito lì, in stanze sicuramente enormi con camerieri pronti ad accontentare ogni suo desiderio.

    Solitudine e silenzio circondavano Giovannino. Ne venne intimorito come capita a un bambino di undici anni. Ambiva a essere considerato grande, si atteggiava a piccolo ometto, tuttavia fu sollevato scorgendo l’auto della polizia con i fari accesi e i quattro poliziotti dai mitra a tracolla.

    Ai poliziotti, ai controlli era abituato. Un’abitudine che condivideva con i felici abitanti della città nella quale le sirene e i pianti erano diventati i suoni più abituali. La chiamavano scuola di vita e a questa scuola i bambini crescevano in fretta imparando a tenersi distanti dai poliziotti e dai controlli. Non era sfiducia, non era antipatia, era semplice precauzione. Norme elementari per non morire male e magari in giovane età, come la prudenza necessaria per attraversare la strada. Mai fidarsi dei semafori, soprattutto quando lampeggiava il verde. Era il momento migliore per essere travolti da quelli che passavano, protervi e strafottenti, con il rosso. Se non passi con il rosso che uomo sei?

    Giovannino vedendo i poliziotti frenò e subito gli sovvennero le raccomandazioni della madre: appena vedi assembramenti cambia direzione; non t’immischiare; poliziotti e carabinieri sono persone perbene, guai, però, se ci facciamo proteggere da loro, dobbiamo proteggerci da soli e sai, chiedeva ogni volta la madre, qual è la maniera migliore di proteggersi da soli? Farsi sempre i fatti propri, rispondeva cantilenante Giovannino.

    I poliziotti gli piacevano, gli piacevano da impazzire quelli in borghese con i pistoloni che spuntavano da sotto giacche e giubboni. I suoi amici già sbirciavano le ragazze in moto o sedute in macchina; lui, quando credeva di aver individuato un poliziotto, fissava petti, fianchi e caviglie per controllare se sbucava fuori qualcosa. Aveva imparato ad amarli guardando la tv e quando morivano per mano dei cattivi gli scappava da piangere.

    I quattro agenti dall’altra parte della piazza tenevano i mitra in bell’evidenza, si muovevano con spavalderia. Avevano alle spalle un mazzo di alberi. Proprio gli alberi ispessivano l’oscurità. Giovannino guardò attorno: non c’era anima viva e rimpianse di non essere a casa. Si voltò un’ultima volta: gli agenti avevano bloccato una grande auto nera. Un breve parlottio, poi le portiere vennero aperte e gli occupanti uscirono. Uno, due, tre, quattro, anche un quinto passeggero, una persona anziana che si muoveva con minor scioltezza degli altri…

    No, no, no, mormorava Giovannino pedalando forsennatamente verso casa, verso quella che gli appariva la salvezza. Aveva vissuto un sogno, un brutto sogno che per fortuna sarebbe svanito fra le braccia di papà e di mamma.

    Il telefono squillò e Mastrogiacomo ebbe un sobbalzo. Dalla poltrona di pelle dentro la quale era sprofondato corse per evitare che Maria si svegliasse. Era la questura.

    «Giudice» disse il centralino «un’altra strage, vicino piazza Verga, un’Alfa 164 con quattro morti e forse manca il quinto, il più importante…»

    «Il quinto chi?»

    «Sembra che siano la macchina e gli uomini dell’onorevole Rapisarda» spiegò la voce con un bell’accento emiliano.

    «Avete controllato a casa?»

    «Gliel’ho detto, sembra che ci fosse anche l’onorevole» ripeté con pazienza il centralino.

    «La mia macchina è in arrivo?»

    «Gliel’ho già mandata» lo rassicurò il centralino.

    Mastrogiacomo andò in camera da letto, infilò un gilè e una giacca, aprì l’armadio per afferrare una cravatta. La prese, la ripose, la riprese e se l’infilò in tasca. Poteva servire; al caso, l’avrebbe messa sfruttando lo specchietto retrovisore. Senza specchio sbagliava regolarmente il nodo.

    Andò da Matteo; leggeva sdraiato sul letto. Gli disse di badare a Giovanna e Maria, di fare soprattutto attenzione a Maria che aveva di nuovo problemi con l’asma.

    «Se riprende a tossire» precisò Mastrogiacomo «dalle lo sciroppo che ha accanto.»

    Matteo acconsentì con il capo senza sollevarlo dal giornale. Mastrogiacomo s’interrogò, e lo faceva per la centesima volta da quando Teresa era andata via, se fosse giusto rovesciare sui ragazzi una parte di quei problemi che solitamente risolvono i genitori. Ma non aveva voglia né di rinunciare a loro, né di dar loro una nuova madre. Aveva compiuto tutte le sue scelte in funzione di Teresa e dei figli; le sue scelte però non erano bastate per tenere Teresa e adesso gli sembrava che non bastassero neppure per regalare un’esistenza felice ai figli. Sì, il trasferimento era l’unica soluzione. Il giorno in cui aveva presentato la domanda si era sentito un vigliacco, ma da quel giorno erano spariti i bruciori di stomaco. Negli ultimi anni ne era stato torturato. Gentile, il medico, gli aveva spiegato che erano disturbi psicosomatici; Mastrogiacomo se la faceva sotto dalla paura di avere un cancro.

    Quando giunsero davanti alla 164 i morti avevano gli occhi spalancati. Il brigadiere Sciavarello lasciò il metro e i gessetti.

    «Dottore» disse «questi non se l’aspettavano di essere ammazzati. È come se fossero stati schierati per un controllo. Una raffica a testa, e chi s’è visto s’è visto.»

    «Notizie di Rapisarda?» chiese Mastrogiacomo.

    «L’auto risulta appartenere alla moglie. Quelli della volante 3 sono andati nella villa dell’onorevole e hanno saputo che era uscito assieme a questi poveracci.»

    «Chi sono?» Mastrogiacomo indicò quei corpi sui quali il sangue aveva fatto scempio degli abiti.

    «Tutti incensurati, tutti armati e con il porto d’armi in regola. Non hanno avuto neppure il tempo di rendersi conto di ciò che stava avvenendo. A occhio e croce, direi la scorta personale dell’onorevole. Stasera non è servita.»

    Dunque, siamo giunti a Rapisarda, pensò Mastrogiacomo. Ricomincia un’altra carneficina e, nei mesi che impiegheremo per capire chi uccide e perché, loro avranno rifatto gerarchie e alleanze. Colpire l’onorevole Antonino Rapisarda era proprio impensabile, tranne per chi l’aveva pensato. Aveva conosciuto Rapisarda il mattino in cui, dopo il ritorno in città, aveva preso servizio da sostituto procuratore. Amava il suo ruolo di giudice a latere presso la seconda sezione di Milano, ma Teresa sosteneva che non reggeva Milano, la nebbia, i milanesi. E lui l’aveva accontentata. Un altro sbaglio, si disse, e stavolta, caro Giacomo, l’hai pagato. L’importante era però che non la pagassero i ragazzi.

    «Donati, ma sei sicuro che è proprio questa la strada? Non s’arriva mai.» Mastrogiacomo si stirò nei limiti consentiti dal sedile.

    «Dottore mi sono informato» disse l’autista «la villa dell’onorevole è nella nuova zona residenziale, verso la collina. Vuole che metta la sirena e andiamo?»

    «Andiamo senza mettere la sirena. Per una volta cerchiamo di non farci riconoscere.»

    I saloni della villa erano illuminati e già visti da fuori ostentavano lusso. Nell’arredamento risaltava il bello dei soldi e degli architetti. Mastrogiacomo sedette su un divano Luigi XVI, un Riesener dai bordi dorati, attento suo malgrado a non sgualcire la seta rosa, la stessa con cui erano tappezzate le pareti che si pavoneggiavano con tele di De Pisis e disegni di Kandinskij. Aveva chiesto d’incontrare la signora Rapisarda. Mentre fissava i quattro lampadari di Murano a gocce che scendevano dall’alto soffitto, si presentò il maggiordomo.

    «La signora si scusa, non è in condizioni di ricevere» spiegò con affettazione. «Abbiamo dovuto chiamare il medico che ora le sta somministrando un ansiolitico. Ritengo peraltro che la signora non sappia nulla di importante per le indagini. Posso essere utile io?»

    «E lei che cosa sa?» disse brusco Mastrogiacomo. «Sa perché hanno rapito l’onorevole? O sa come facevano a sapere che l’onorevole sarebbe passato proprio da piazza Verga?»

    «L’onorevole ha ricevuto una telefonata sulla linea che ha nello studio.» Il maggiordomo sembrò confessarsi.

    «Che ora era?»

    «Saranno state le venti e trenta. Al momento di mettersi a tavola con la signora.»

    «E dopo quanto è uscito l’onorevole?»

    «Circa mezz’ora… non più di mezz’ora.» Il maggiordomo titubò.

    «Dica per cortesia alla signora se può ricevermi. Bastano pochi minuti, quelli necessari ad avere un paio di chiarimenti.»

    Il maggiordomo voltò le spalle senza rispondere, sparì dietro una porta di mogano scuro e massiccio.

    Si presentarono in gruppo, quasi che avessero ricevuto una convocazione. Il questore Melito, il sindaco Gullace, un paio di ometti dai maglioni chiari, uno addirittura bianco, che risaltavano sotto giacche scozzesi. Proprio gli ometti andarono con noncuranza a poggiare le chiappe su uno sfavillante armadio medagliere opera di Pietro Piffetti, con intarsi di legni vari e di avorio. E quello con il maglione bianco per stare più comodo fece sfregare sui marmi del pavimento i piedi di un tavolino d’epoca, pure di Piffetti, sottile e slanciato, lavorato da cima a fondo con avorio e madreperla. Il bello si addice all’onorevole, fu la riflessione di Mastrogiacomo.

    A interrompere la riflessione giunse Gaspare Pietrosanti, da pochi mesi presidente della corte d’appello. Una nomina a sorpresa che aveva permesso alla città di spettegolare sulle amicizie e sui potenti appoggi del magistrato. Pettegolezzi che diventavano riverenze e ossequio appena appariva l’alta figura del presidente.

    «Ci sono elementi?» s’informò Pietrosanti più per dovere che per curiosità.

    «Non molti. Forse c’è di mezzo una telefonata. Ma il collegamento è esile, tutto da provare. Una brutta storia e temo che dovremo prevedere un epilogo ancora più brutto.»

    «La città aspetta risposte precise e inequivocabili. Dobbiamo dare segnali chiari della nostra presenza».

    «E come? Facciamo suonare tutte le sirene alle volanti?» Mastrogiacomo si pentì appena chiuse bocca.

    «Mastrogiacomo, la sua ironia mi sembra completamente fuori luogo. Si metta in moto, interroghi, indaghi, trovi indizi che possano tranquillizzare l’opinione pubblica.»

    Gli ospiti arrivavano a ondate, quattro-cinque per volta. Sfoderavano l’aspetto di circostanza che non sempre nascondeva il sonno incombente. Mastrogiacomo si concesse un sorrisino. Veniva raggruppandosi il partito che aveva spolpato uomini e cose trasformando una città piena di speranze e di ambizioni in una casba. Annotava volti invecchiati fra inchieste giudiziarie mai concluse e scempi regolarmente compiuti. Era cresciuto in compagnia delle loro foto puntualmente ospitate dal quotidiano locale: fiere, rassegne, inaugurazioni, comizi. Dal numero di colonne degli articoli e dei titoli riguardanti le loro imprese – dall’inaugurazione di un autosalone a un convegno sul carciofo siciliano – erano deducibili potere, fortune, tramonti. Articoli e titoli spiegavano molto più delle rare informative che gli passavano sotto gli occhi.

    In vent’anni la città era stata violentata e squartata. Erano sorti quartieri privi persino di una tabaccheria, di un pizzicagnolo. Gli allacciamenti della luce, dell’acqua, del gas dipendevano dalle bizze e dal tornaconto dei capetti che sedevano nel consiglio comunale. Assieme al degrado si era sviluppata una generazione di ragazzi che aveva una sola capacità di espressione: la violenza. Tutti avevano subito in silenzio, nessuno si era ribellato, in tanti avevano cercato di aggregarsi al corteo dei vincitori. Mastrogiacomo la giudicava una città di conniventi, di complici più o meno volontari. Due mesi dopo essere stato insediato, aveva considerato l’ipotesi di andar via.

    L’attenzione del giudice fu calamitata dalle movenze affaticate dell’avvocato Gullace, il sindaco: con la sua aria da vecchio zio transitava da un gruppetto all’altro dispensando ora un sorriso, ora un sussurro, la mano affettuosamente poggiata sul destinatario della sua saggezza spicciola. Gullace era l’ombra di Rapisarda, gli doveva tutto, anche il gran ceffone in faccia rimediato per proteggerlo dall’ira di Tano Pisciacozzo. Oh come aveva goduto la città per quello schiaffone che l’anziano boss avrebbe voluto rifilare al rampante politico. Gullace si era frapposto e aveva un po’ rovinato la festa ai concittadini, ma il suo compito era proprio quello di fare da schermo sempre e comunque.

    In capo a pochi mesi tutto era stato messo a posto. Don Tano Pisciacozzo era sparito, scomparso nel nulla. Quelli che avrebbero voluto saperne qualcosa erano spariti a loro volta. Gullace aveva ricevuto il primo mandato da sindaco. Rapisarda era approdato al parlamento con la spinta di oltre 110 mila preferenze. Tra un festeggiamento e l’altro, il neoonorevole aveva manifestato il desiderio di recarsi dai familiari di Pisciacozzo per esprimere dispiacere e disappunto. Pisciacozzo era stato uno dei grandi elettori di Rapisarda, forse il primo a comprendere le potenzialità del dottorino in legge che odorava di sacrestia e di casino. La sparizione di don Tano aveva depresso Rapisarda che però si era guardato bene dal formulare qualsiasi domanda. Certi mezzi non gli garbavano, lui preferiva la discussione pacata, la possibilità di mediare. Tutto questo avrebbe voluto dire ai parenti di don Tano in una visita riservata e lontana da occhi indiscreti, ma i pochi sopravvissuti della famiglia Pisciacozzo avevano rifiutato ogni contatto.

    Mastrogiacomo ebbe bisogno d’aria e puntò verso le grandi vetrate che davano sul giardino.

    «A questo punto, con il metrò leggero come ci comportiamo?» chiese un piccoletto con una giacca bordò di due misure più grande. «La commissione provinciale dovrebbe esprimere un parere vincolante fra due giorni. E non c’è soltanto il metrò leggero, c’è anche l’Ente Fiera, e Nino si era impegnato, ci aveva dato garanzie precise che stavolta non ci sarebbero stati scherzi…»

    «Bisogna sospendere tutto» rispose Gullace. «Dobbiamo mostrare pazienza e lungimiranza, attendere il ritorno di Nino.»

    «Quale ritorno?» obiettò un tipo dal vestito carta da zucchero e scarpe talmente impolverate da nascondere l’originario colore marrone. «Ci conviene essere preparati al peggio. Qui, signori miei, bisogna dirselo, Nino può non tornare più. E noi che facciamo? Ci fermiamo?»

    Gli altri che stavano ad ascoltare in effetti si fermarono, timorosi che Mastrogiacomo scivolando in mezzo a loro potesse udire.

    Il giudice aveva udito, tuttavia la necessità di respirare era assoluta. Subiva improvvisi mancamenti. Si toccò il polso per valutare il battito, il ritmo cardiaco gli sembrò irregolare. Avrebbe cercato il dottor Gentile e in cambio si sarebbe sorbito i soliti sfottò. Aprì un balcone, calpestò l’erbetta, spinse lo sguardo su quelle luci sparse fino al mare. Rapisarda anche nello scegliersi il posto dove abitare aveva voluto la città ai piedi.

    Il maggiordomo riapparve, una smorfia di sopportazione gli increspava il labbro superiore. Guardava con sdegnata indifferenza i presenti e con evidente disgusto le loro scarpe colpevoli, comunque, di calpestare i preziosi tappeti cinesi di lana e seta che ricoprivano vasti tratti del salone. Il maggiordomo dava l’idea di provare sofferenza fisica per i pappagalli e per gli altri uccelli che popolavano i tappeti e che non avevano difesa sotto quei passi scomposti.

    «La signora può riceverla, se vuole, per favore, seguirmi.»

    Mastrogiacomo riattraversò il salone dietro quel raro esemplare di una razza in via di estinzione. Il maggiordomo fendeva il fiume dei sussurri con inutile sussiego; nessuno aveva tempo e voglia di guardarlo.

    Ada Rapisarda nonostante i sessant’anni non aveva perso i bagliori della passata avvenenza. Passeggiava nervosamente lungo il corridoio in cima alla scala di legno. Vide Mastrogiacomo, si fermò e tese la mano. Impettita, il volto austero. Condusse Mastrogiacomo verso un divano fine Settecento inglese dalla sfarzosa trama di seta dorata, frutto della maestria artigianale di Duncan Phyfe. Sul muro di fronte, un culone che persino Mastrogiacomo riconobbe essere di Guttuso. Ai lati del divano altri tappeti, due Birjand di un rosso cupo alleggerito da disegni floreali. Mastrogiacomo ammirava in silenzio l’eleganza che lo circondava. Gli era passata l’ansia di fare domande.

    «Dottor…»

    «Mastrogiacomo, signora.»

    «Ora ricordo. Ho letto bene di lei, del suo impegno contro la delinquenza. Si occupa lei delle indagini, è vero? Ha notizie? Lo troverete vivo?»

    «Signora siamo all’inizio. Stiamo cercando di orientarci. Ha idea di come facessero a conoscere l’itinerario che l’onorevole avrebbe seguito?»

    «Non so nulla, dottor Mastrogiacomo. Sono la classica moglie che ha sempre e soltanto badato alla casa. Immagino che lei sarà sposato e mi capirà.»

    Mastrogiacomo avrebbe voluto capire, ripensò a Teresa, alla sua scarsa predilezione per la casa. Teresa amava teneramente i bambini, ma tale sentimento non le aveva impedito di impegnarsi con accanimento nell’ufficio di indagini sociologiche. I ricordi legati alla moglie turbarono il giudice, la signora Rapisarda intuì di aver toccato un tasto delicato e tacque in segno di rispetto. Riempì la pausa accendendo una sigaretta.

    «Signora, scusi la domanda, suo marito aveva ricevuto minacce, manifestava timori?» Mastrogiacomo accarezzò il bordo del divano.

    «Che io sappia, no. Io, però, so poco. Taluni giornali non hanno risparmiato accuse a mio marito, hanno accennato a oscuri legami. A me non risultano.»

    «Lei escluderebbe tutto?»

    «Cosa vuole che le risponda? Sì, escluderei tutto. Qualcosa però dev’essere successo, in caso contrario non avrebbero ucciso quattro uomini, non avrebbero rapito mio marito.»

    «Ecco signora, chi erano gli uomini che accompagnavano suo marito?»

    «Le guardie del corpo. Poveri ragazzi che avevo imparato ad apprezzare, di alcuni conoscevo le mogli, i figli. Sono a pezzi ma voglio andare a trovarli, ho il dovere di prendermi cura dei loro bisogni.»

    «Come mai suo marito usava guardie del corpo, addirittura quattro?»

    «Mio marito è un uomo molto in vista e molto esposto. Era una precauzione elementare. Lei conosce in questa città uomini pubblici che si muovano senza protezione?»

    «L’onorevole avrebbe avuto diritto a una scorta di poliziotti, questi invece erano privati cittadini.»

    «Dottor Mastrogiacomo, mio marito aveva un alto senso dei suoi doveri. Quando poteva, non voleva incidere sulle casse dello stato e preferiva pagare di tasca propria. Stasera era una di queste occasioni.»

    «Il maggiordomo ha accennato a una telefonata arrivata su una linea privata, prima di cena. Secondo lei può esserci un collegamento? Posso chiederle se l’onorevole le ha rivelato qualcosa sulla telefonata, sulla persona che l’ha fatta?»

    «Assolutamente nulla.» Ada Rapisarda chiuse anche lo spiraglio più piccolo.

    «Le aveva annunciato che sarebbe uscito?»

    «Durante la cena mi ha detto che aveva bisogno di tornare in ufficio.»

    «Suo marito ha l’ufficio verso il mare, dalla parte opposta della città rispetto al luogo dell’agguato.»

    «Cosa vuole che le dica? Forse gli era venuta voglia di una passeggiata.»

    «Signora, chi poteva indurre l’onorevole a uscire all’improvviso, magari convincendolo a raccontarle una piccola bugia?»

    La domanda spinse la moglie dell’onorevole a piantare i propri occhi in quelli del commissario. Erano occhi ancora fascinosissimi.

    «A che cosa si riferisce?» chiese con voce divenuta metallica. «A una donna o a qualcos’altro?»

    «Le do la mia parola che non desidero assolutamente ferirla. Ho molto ammirato il suo controllo, ma io ho bisogno di aggrapparmi a qualcosa. Suo marito non andava in ufficio, invece a lei aveva detto che ci andava. Non pensava questa sera di uscire, tant’è vero che non aveva a disposizione la scorta ufficiale, e invece all’improvviso è uscito. Quella telefonata era una trappola di cui l’onorevole non sospettava nulla, è costata la vita a quattro persone e mette in grave pericolo anche quella di suo marito. Signora, è proprio sicura di non avere nient’altro da dirmi?»

    «Sì.» La signora Rapisarda troncò il colloquio.

    Mastrogiacomo non le credette, sebbene fosse certo che nulla di ciò che poteva dirgli avrebbe avuto un peso. Ma si rifiutava di credere che una donna intelligente potesse ridursi a un ruolo di contorno. Possibile che fosse rimasta all’oscuro della lunghissima, frenetica, chiacchierata attività pubblica di Rapisarda? E lei sempre lì, buona, amorevole, interessata alla casa e alla famiglia… Possibile che ignorasse le avventure galanti del marito, il cui letto aveva rappresentato una tappa obbligata per le mogli di chi implorava appoggio? No, si disse il giudice, Ada Rapisarda non stava proteggendo il passato di suo marito, si stava preoccupando del futuro, di non turbare gli equilibri nei quali i due figli maschi muovevano i primi passi.

    Rientrò nel salone ancora più affollato. Venivano distribuiti tartine al salmone e calici di champagne. La visita di rispetto e di partecipazione assomigliava a una riunione di partito e d’affari. Nei pressi di un secrétaire con la serranda a cilindro intarsiata di finissime losanghe madreperlacee, un altro Riesener, i due figli dell’onorevole dialogavano fitto con Gullace che a intervalli regolari acconsentiva con tutto il corpo. Quattro morti più Rapisarda scomparso significavano che erano in corso alcuni aggiustamenti, alla polizia sarebbe toccato ripulire di nuovo le strade dai cadaveri. Un cambiamento comunque si era verificato: l’onorevole Antonino Rapisarda non era più tra coloro che decidevano ma tra coloro sui quali si decideva. Ammesso che non fosse stato già deciso.

    Due

    Un sentore di rose sfatte. Fu quello che guidò il risveglio di Rapisarda. Un sentore più forte delle narici secche, della gola arsa e del sapore dolciastro che impregnava la bocca. L’onorevole aveva la testa pesante, una gran voglia di acqua, e quell’odore gli martellava i sensi, la memoria; s’accorse lentamente di stare disteso sul letto. Socchiuse gli occhi. Era stordito e il sentore di rose sfatte aveva portato a galla il ricordo delle anguste sale dove padre Sapienza accatastava i fiori appassiti di santi e di madonne nella parrocchia dei Santissimi Apostoli.

    La chiesa dei Santissimi Apostoli era sormontata da un campanile a pennacchio, il rintocco fuori orario avvertiva i ragazzi che lo spiazzo dietro la sacrestia era a disposizione di chi voleva giocare con il pallone. Non c’erano né porte né linee, tutto veniva arrangiato alla bell’e meglio per dare sfogo alla passione e alla volontà di cancellare gli anni della guerra, che continuava oltre lo Stretto. Di padre Sapienza si raccontava, dapprima sottovoce poi in modo sempre più aperto, che fosse stato fra i primi aderenti al partito popolare. Caduto il fascismo, il parroco aveva avviato una personale opera di proselitismo politico. Per conquistare i ragazzi usava un meraviglioso pallone di cuoio, frutto di qualche misterioso miracolo.

    Come tanti altri, anche Nino Rapisarda era stato attratto dal pallone in quell’autunno piovoso del 1943. Per lui erano mesi di grande inquietudine. I bombardamenti che avevano preceduto lo sbarco alleato gli avevano consentito di prendere la licenza liceale senza affrontare lo spauracchio degli esami e mantenendo la media del nove. I voti così alti davano diritto a non pagare le tasse universitarie, ma restava l’ostacolo dei libri. L’università lo attirava, tuttavia non aveva il coraggio di sottoporre la famiglia ad altri quattro anni di sacrifici.

    L’esser nato primo di cinque fratelli aveva assicurato a Nino la possibilità di studiare ed egli alla predisposizione naturale aveva aggiunto un impegno spasmodico: dalla prima elementare alla terza liceo era volato ottenendo libri e iscrizione gratuiti. Quel giorno di giugno in cui era rientrato con la pagella della terza liceo, suo padre l’aveva abbracciato in lacrime. «Ora Ninuzzo potrai cercarti un posto sicuro in banca. L’ingegnere Saporito mi ha garantito una bella lettera di presentazione.» L’ingegnere Saporito era il comandante dei vigili del fuoco, il diretto superiore del maresciallo Filippo Rapisarda. Ma con l’arrivo degli americani, Saporito era stato messo a riposo. Niente lettera, niente banca. Nino aveva respirato di sollievo. Dove trovare, però, i soldi per l’università?

    Fra una partita e una novena, fra una gita domenicale in montagna e una processione del Corpus Domini, padre Sapienza aveva offerto la soluzione. Alcuni signori dabbene avevano versato consistenti offerte per consentire ai movimenti giovanili del nuovo partito di assegnare borse di studio a chi le meritava.

    «Devo iscrivermi al partito?» aveva domandato preoccupato Nino che da qualche settimana frequentava una certa casa in una certa via vicino al porto.

    «All’inizio non è necessario» aveva risposto padre Sapienza. «Ci sono tante maniere di servire la chiesa e le sue idee. Studia, laureati, sii d’esempio cristiano al prossimo. Se poi avverti nella tua anima il desiderio di batterti per la povera gente, potrai caricarti sulle spalle quest’altro compito.»

    La risposta aveva tranquillizzato la coscienza di Nino, occupata da pensieri ben differenti. Per quanto la signora Luigia gli praticasse lo sconto beltà, il giochino in quella certa casa di quella certa via vicino al porto costava, e costava caro. Così Nino si era acconciato a dare una mano quasi tutte le sere a Pippu ’u furmaggiaru nel rifare i conti della bottega. Però fra la mezza lira che gli dava Pippu ’u furmaggiaru e le monete che riusciva a infilarsi in tasca lui, non metteva assieme più di un paio di visite settimanali alle disponibili e profumate ragazze della signora Luigia. Talmente disponibili e talmente profumate che lui avrebbe voluto visitarle un paio di volte al giorno.

    L’onorevole riaprì gli occhi con dolore. Aveva quasi perso l’orientamento. I ricordi, il dormiveglia avevano procurato una benevola sensazione di conforto. Sarebbe stato piacevole tornare indietro di mezzo secolo. Gli parve di soffocare ma non riuscì ad articolare la voce. Il gran formicolio di mani e di piedi lo costrinse a compiere movimenti dai quali dedusse che non l’avevano legato al letto. Svanivano gli effetti dell’anestetico e tornavano le vivide immagini del rapimento. Quante ore prima era successo? Cercò con la destra il Baume & Mercier che portava molto largo sulla sinistra. Scrollando il braccio riuscì a tirarlo fuori dalle maniche di cappotto, giacca, camicia. Mezzanotte. Ebbe un brivido non per l’ora ma perché aveva ancora l’orologio. Gli morì dentro la speranza di esser stato sequestrato per un riscatto.

    E se tentassi di fuggire? I goffi movimenti che compì per sollevarsi gli dettero il senso dell’impotenza. Sentì rumor di chiavi. Il buio interrotto da una luce lontana e in quella luce vide nuvole di fumo. Lo scatto di un interruttore, una lampada esplose negli occhi di Rapisarda che li stropicciò a lungo prima di scorgere ciò che non avrebbe voluto scorgere.

    «Vito Cascio!» Doveva essere un’esclamazione, fu un grido strozzato.

    «Chi non muore si rivede» disse Vito Cascio. «E se lei mi rivede, caro onorevole, vuol dire che io non sono morto.»

    Rapisarda stava seduto a mezzo sul letto alle prese con i bottoni del cappotto che resistevano all’assalto delle mani. Escluse che potesse essere una chiesa. Doveva essere il retrobottega di un’agenzia funeraria o qualcosa di simile. Conosceva bene quel sentore di rose sfatte, era comunque un annuncio di morte. Gli avevano accennato che Cascio si muoveva bene nel mondo dei defunti. Parecchie tombe erano state svuotate e trasformate in comodi rifugi di ricercati e di sostanziosi carichi di droghe. Molti proprietari di agenzie funerarie erano suoi comodi paraventi. Per anni le bare e le lapidi di marmo avevano costituito il mezzo più comodo e più sicuro per far viaggiare dalla Sicilia agli Stati Uniti i sacchetti di polvere bianca.

    Attraverso le lenti appannate, l’onorevole intravide un armadio e due sedie. Cascio stava dritto e possente a pochi passi, l’ampio viso color mattone, i capelli perfettamente a posto che s’infoltivano sulle tempie, un abbigliamento elegante. L’aspetto di un uomo sereno. Fumava con godimento. Le palpebre abbassate tradivano la massima concentrazione.

    «Cascio, che cos’è questa sceneggiata?»

    «E lei, quattro uomini ammazzati per causa sua, li chiama una sceneggiata?»

    «Che cosa vuole?»

    «Io credo che lei sia in possesso di un paio di notizie che mi servono. Voglio quelle.»

    «Ne è sicuro? Le notizie che ho io, lei sicuramente le ha avute prima di me. Cascio, lei deve aver preso un abbaglio, un terribile abbaglio. Io con le sue storie non c’entro.»

    «Onorevole non scherziamo.» Cascio aveva una voce profonda, il tono perentorio di chi era abituato a essere ascoltato, non ad ascoltare. «Io non sono istruito come lei. Non ho studiato, non ho una laurea, non siedo da una vita in parlamento. Ma ho frequentato quelli del suo ambiente, i veri signori, i ricconi. Mi ritenga un uomo di mondo, che cerca di non sfigurare al suo cospetto. E allora, fra uomini di mondo stiamo qui a perder tempo con tante frasi inutili? Rapisarda voglio i nomi degli amici che hanno deciso sei mesi fa di uccidermi perché non accettavo i vostri accordi.»

    «Ma chi le ha potuto dire una simile stronzata?» E nel pronunciare questa frase Rapisarda cercò di recuperare un contegno, forzò l’interrogativo, aggiustò gli occhiali che erano scivolati sul naso.

    «Attento alle parolacce, onorevole. Cosa ne penserebbero i suoi amici, parlo dei suoi amici privati, quelli che non compaiono nelle foto assieme a lei, di essere definiti uomini che dicono stronzate? Una volta ammazzavamo senza dare spiegazioni, adesso ne vogliamo dare troppe e finisce che uno dice più di quello che dovrebbe dire. Qualcuno dei suoi amici era così sicuro di me morto e di lei vivo che, per dare maggiore forza alle parole, disse che la decisione di farmi fuori fu presa a casa sua.»

    «Impossibile.»

    «Sarà impossibile, ma questo suo amico così affermò. Ci fu chi sentì e ci fu chi riferì. Ammazziamo Cascio, disse uno, e non incontreremo più ostacoli con la parte della cupola che non è d’accordo con noi. È Cascio, disse un altro, l’unico che si oppone al cambiamento delle strategie e delle alleanze, allora è Cascio che deve morire. Ma Cascio non è morto. Avete fatto venire dall’America il killer, ma voi dell’America non sapete più di tanto. Per essere troppo furbi, siete stati troppo scemi. Il contratto per uccidermi vi conveniva stipularlo qui in Sicilia, magari risparmiavate qualche soldo. Sì, non si meravigli. So cosa sta pensando, ma il botto c’è stato, la macchina di Cascio è saltata in aria. Avete mandato a controllare, dentro c’erano i resti di un uomo ormai irriconoscibile anche a sua madre.»

    «E chi era?» chiese preoccupato Rapisarda.

    «Era un poveraccio che aveva esaurito l’olio nella lampada della vita. Mi è toccato andarmene per un po’ dall’altra parte dell’oceano. Ma è servito. Mi sono concesso una bella vacanza presso i miei amici colombiani. Onorevole, lei non lo può immaginare, io non mi ero mai preso una vacanza, si sta bene in vacanza. Ho deciso che d’ora in avanti me le concederò. La vita è breve, non è vero onorevole? Meglio arrivare all’appuntamento con la morte soddisfatti, senza rimpianti. Chissà se quel tizio di Cincinnati ha avuto rimpianti quando due sere fa gli hanno piantato un candelotto di dinamite nel culo. Per me sarebbe stato un onore essere ammazzato da uno nato in mezzo ai grattacieli. Chissà se per lui è stato un onore essere ammazzato da uno nato in un paesino dove le case erano costruite con il tufo. Sono gli scherzi del destino. Non è vero onorevole?»

    Rapisarda era sopraffatto dal terrore. Le rivelazioni di Cascio l’avevano inebetito. Per la prima volta era un pupo di pezza che un altro muoveva a piacimento. Ricordava la riunione. Lui aveva espresso parere favorevole, ma non alla soppressione di Cascio. Aveva convenuto che era il momento d’investire in maniera pulita quell’enorme massa di denaro. Ai suoi occhi c’era la possibilità di riconvertire migliaia di miliardi che sennò sarebbero rimasti inutilizzabili. Tutti ne avrebbero tratto beneficio: il mercato, le aziende, specialmente quelle siciliane per le quali erano previsti fondi neanche immaginabili fino a pochi anni prima; e i possessori di fortune messe insieme in maniera molto accidentata. D’altronde Balzac non aveva spiegato che alla base di ogni fortuna c’è un crimine? La stessa immagine dell’isola ne avrebbe guadagnato cancellando così finalmente un secolo di lutti e d’insulti. E poi bisognava chiudere con la droga e con le sue vittime. La droga non si controllava più, un tumore che minacciava le famiglie e lo stato. Per questo l’onorevole Antonino Rapisarda aveva votato per il piano di riconversione, ma non aveva votato per l’uccisione di Cascio.

    La storia, considerò sconsolato Rapisarda, si ripeteva. Trent’anni prima qualcuno aveva tolto di mezzo Tano Pisciacozzo, dopo che questi aveva tentato di schiaffeggiarlo, e la voce pubblica gli aveva affibbiato la sparizione di Pisciacozzo. Adesso qualcuno aveva stabilito di togliere di mezzo Cascio, dopo che egli aveva promesso un appoggio incondizionato alle nuove strategie d’investimento, e Cascio era persuaso che fosse tutta opera sua.

    Cascio era lì, vivo, tranquillo, perfino sornione. Gli occhi parlavano per lui. Rapisarda realizzò che a rendere irrevocabile la sua condanna a morte c’era un particolare a cui là per là non aveva prestato molta attenzione. Cascio gli si era mostrato e Cascio, secondo taluni, era come la Madonna: non appariva quasi mai.

    Ricordò che l’aveva visto in una sola occasione, un’occasione buffa. Un paio d’anni prima Rapisarda era stato obbligato a tagliare il nastro d’inaugurazione dell’Eden bar-pasticceria, ritrovo elegante situato in una delle piazze più antiche e prestigiose. All’improvviso qualcuno gli aveva dato di gomito e sussurrato in un orecchio di guardare nell’angolo a sinistra. Gli era stato chiesto se riusciva a inquadrare, naturalmente senza farsi notare, quell’uomo prestante e ombroso, vestito di scuro e circondato da alcuni figuri non propriamente decorativi. Sì, aveva risposto infastidito Rapisarda, e allora? Quell’uomo – il sussurro era divenuto ancora più flebile – aveva nome e cognome in cima alla lista dei ricercati: era Vito Cascio.

    «Mi ucciderete?»

    La domanda di Rapisarda rimbalzò senz’effetto su Cascio che trasse con cura una sigaretta da un portasigarette d’oro, l’accese e sedette a gambe accavallate.

    «Su questo non ci piove.»

    «Cascio ragioni. Io non ho mai chiesto la sua condanna a morte. Si presentarono da me per saggiare la mia posizione e io dissi che forse era meglio investire in attività lecite sganciandosi dai colombiani e dal traffico della droga. Esistono opportunità notevoli di riciclare tutto il denaro. Per voi significherebbe…»

    «Voi, noi! Capisco, lei è diverso. E gli affari che ha fatto con noi? E i voti che noi le abbiamo procurato? Begli alleati ci siamo scelti!»

    «Mi faccia finire, poi giudicherà. Giudicherà anche sul voi e sul noi. Lo vuol capire che esistono le condizioni per pensare in grande? Ci sono fior di aziende da acquistare. Ma non le interesserebbe vivere come gli altri? Senza la pressione della polizia, dei politici, del governo statunitense che è intenzionato ad andare fino in fondo? Io ho fornito un parere tecnico, non ho pronunciato sentenze di morte. Non la conoscevo neppure, perché dovevo preoccuparmi di lei?»

    «Perché, vivo io, i suoi piani non sarebbero passati. Belle parole le sue, convincenti, affascinanti. Investiamo nelle fabbriche, compriamo pacchetti azionari e così tutto il potere passa a quelli come lei, e quelli come me possono andare a farsi fottere. Io voglio continuare i miei affari allo stesso modo e con la stessa gente. Io voglio parlare guardando in faccia quelli con cui parlo, con voi non è mai stato possibile e non lo sarà mai.»

    «M’impegno io a trovare una soluzione di compromesso. Farò da tramite con i suoi avversari, spiegherò i suoi motivi. Si fidi di me.»

    Cascio tacque. Alzò la mano e la mosse come a dire avanti. Entrarono due tipi robusti, l’abbigliamento rammentò a Rapisarda i contadini che da ragazzo scorgeva, attraverso le finestre, recarsi all’alba nei campi. Portavano pantaloni di fustagno e camiciole di lana a quadretti.

    I due nuovi, entrati senza profferire parola, s’avvicinarono a Rapisarda e lo sdraiarono rudemente sul letto. Il più alto aprì l’armadio ed estrasse una lunga corda. Incrociarono i polsi dell’onorevole, li

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