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La direzione non risponde
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La direzione non risponde

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About this ebook

Un romanzo d’esordio dall’inequivocabile timbro surreale, colorato da qualche intrusione di romanticismo magico, dove viene descritta un’umanità intrappolata e persa, che si aggrappa, per cavarsela, ai paradigmi che conosce meglio senza preoccuparsi della loro congruità. Fino ad arrivare all’apoteosi dell’irrazionalità, qui rappresentata dal turismo industriale che, cavalcando lo spavento collettivo, propone, ovunque, lo stesso modello di divertimento rassicurante, basato rigorosamente sulla finzione. Anche l’avvocato, Amoruso, protagonista di una storia laterale che sfiora le vite degli altri personaggi, pur essendo uomo di potere, convinto di avere in pugno il mondo, alla fine si ritrova a fare i conti con il proprio destino. Fresco, ironico, esilarante ma amaro, questo romanzo breve ha tutta l’aria di un Beckett dove però neanche il tragico trova posto.
LanguageItaliano
Release dateNov 26, 2013
ISBN9788898475490
La direzione non risponde
Author

Silvia Lipschitz

Lipsia è Silvia Lipschitz. Sono nata a Milano nel 1951. La giovinezza trascorsa fra le utopie degli anni ‘70 ha lasciato un segno profondo nella mia psiche. Dismesse le collanine fiorite, mi sono dedicata agli studi di filosofia che mi hanno permesso di diventare prima istruttrice di nuoto in una piscina dell’hinterland milanese e, successivamente, agente di viaggio. L’esplorazione del mondo è stata la mia professione fino a pochi anni fa, quando i conflitti, sempre più diffusi, hanno reso impraticabili gran parte dei luoghi che ho amato. Attualmente gioco a tennis. E scrivo. Nel 2013 ho vinto il Premio letterario Formiche Rosse a Siena con il racconto breve L’amo. Questo è il mio primo romanzo.

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    La direzione non risponde - Silvia Lipschitz

    Prologo

    L’avvocato Amoruso

    Non amava il prossimo ma, diciamo così, se ne occupava.

    Era la notte del 26 ottobre 2009 quando l’avvocato Amoruso precipitò dal terzo ponte del suo yacht e s’inabissò tra i flutti.

    L’avvocato Amoruso era persona rispettata nella sua città. Quando passeggiava lungo il corso principale, i commercianti uscivano dai negozi per salutarlo con deferenza; lui rispondeva a tutti, con un cenno del capo, senza togliersi il cappello.

    Lo chiamavano avvocato perché è uso, nei piccoli centri, dare qualifiche professionali alle persone di riguardo, ma non aveva mai esercitato. Non era neppure laureato. A diciott’anni, rimasto orfano, aveva ricevuto la grazia di un’eredità da un lontano parente emigrato in America, e lui quel tesoro l’aveva accudito e accresciuto nel tempo, con la determinazione di chi, nella sfortuna, in quel denaro era incappato.

    Non amava il prossimo l’avvocato Amoruso ma, diciamo così, se ne occupava.

    Si occupava un po’ di tutti, dei grandi possidenti come dei miserabili. Ai primi veniva in aiuto per risolvere situazioni debitorie inconfessabili, dovute al gioco d’azzardo o a un’amante pretenziosa, agli altri offriva il suo sostegno per le spese di un matrimonio, l’acquisto di un’automobile nuova o, in casi estremi, la sopravvivenza. Da questi contributi traeva un adeguato tornaconto e ciò gli aveva permesso, negli anni, di accrescere il patrimonio iniziale fino a farlo diventare, ora che aveva raggiunto la cinquantina, un’immensa fortuna.

    Non si era mai sposato e viveva da solo. Nel tempo libero dipingeva, ispirandosi agli impressionisti, alla cui pittura aveva aggiunto tratti pesanti per renderla più vicina al suo gusto, un po’ greve.

    Immerso nell’acqua buia perse la cognizione dell’alto e del basso. Rotolò su se stesso, cercando la via per risalire a galla. Il maglione di lana gli impediva di muovere le braccia. Si mise a nuotare in tondo. Non aveva quasi più aria nei polmoni. Nell’attimo che precede la rassegnazione, sentì un dolore lancinante al piede sinistro. Scalciando, aveva urtato qualcosa. Una lunga asta di metallo, ancorata al fondale.

    La piscina

    I nonni si mossero carponi. Dietro di loro le nonne, in ginocchio, procedevano a piccoli avanzamenti, come salissero una scalinata sacra. In mezzo, i bambini strisciavano a passo di leopardo, ridendo tra loro del gioco. Noi, generazione di collegamento, chiudevamo il corteo, in piedi, muti, avanzando a passi incerti nel buio.

    Con l’avanzare dell’età mi ero resa conto che, mentre l’essere manteneva un suo status decoroso, la sua parte visibile perdeva colpi. Per porvi rimedio mi ero iscritta allo Sporting Club.

    Mi chiamo Lipsia. Anche se Lipsia non è il nome che mi hanno dato alla nascita. L’hanno inventato le mie compagne, alle elementari. Si sa che a scuola ci si conosce per cognome e, per risolvere la difficoltà del mio, si sono inventate Lipsia. Per capire cosa intendo dire, basta andare alla fine del libro.

    La vicenda che vado a descrivere è accaduta nel 2008 e, nonostante io sappia già che sarete in molti a contestare la veridicità dei fatti, posso darvi la mia parola che essi si sono svolti esattamente così. Se poi qualcuno insisterà per avere delle prove, lo avviso fin da ora che possiedo centinaia di ricordi che testimoniano la mia buona fede. Li conservo con grande cura, come deterrente, per chi osasse sollevare dubbi.

    Se siamo tutti d’accordo, darei inizio al racconto.

    Quel sabato mattina di fine maggio mi trovavo allo Sporting Club, seduta su uno dei blocchi di partenza della piscina, in attesa di un’illuminazione che mi convincesse a entrare in acqua.

    Alla mia destra, nella prima corsia, aggrappati al bordo della vasca c’erano dieci bambinetti al primo approccio con il mondo del nuoto. Bracciali, ciambella e venti occhi sbarrati. Il futuro è un’ora indigesta.

    Sugli spalti mamme, papà, nonni e nonne seguivano, trepidanti, i loro sforzi, incitandoli con urla e applausi degni di una finale olimpica.

    «Inspirare, giù la testa e… fate le bollicine» ripeteva quell’omone dell’istruttore cercando, senza successo, di addolcire il tono della voce, eredità di una mezza carriera militare e di una forte convinzione, diciamo così, patriottica.

    In risposta arrivarono dieci colpi di tosse con singulto e il primo pianto.

    «Inspirare, giù… bollicine… Giulio cosa fai… torna subito qui!»

    Giulio se ne stava già con un piede sulla scaletta e un’espressione che non lasciava dubbi sulla sua irremovibile decisione di cambiare sport.

    Davanti a me, un gruppo di atleti della Virtus, in allenamento, schiaffeggiava, con spruzzi impietosi, le pance obese di tre diportisti che caracollavano, senza convinzione, nella corsia adiacente. Visti dall’alto, a galleggiare tra i marosi, parevano tre gnocchi a fine cottura.

    Venti vasche era il mio programma – ipotetico – di allenamento che, se ripetuto con impegno e costanza tutte le settimane per tutti gli anni che mi restavano da vivere, mi avrebbe assicurato un fisico da copertina. A futura memoria.

    Indossata la cuffia, entrai in acqua risoluta a raggiungere il mio obiettivo, anche se, va ammesso, lo specchio non mi aveva ancora dato conferma di evidenti modifiche strutturali.

    Dopo una ventina di minuti stavo imboccando la dodicesima vasca. La più difficile: il confine tra la volontà e il crollo. Ogni volta che percorro quel crinale, sono consapevole che il crollo avrà la meglio, perché ha molti più argomenti della volontà.

    Ne elenco alcuni:

    Crollo clinico: Sento che mi stanno venendo i crampi.

    Crollo pratico: Oggi finisco qui, altrimenti faccio tardi.

    Crollo psicologico: Sono un po’ giù di corda, meglio uscire.

    Crollo qualsiasicosamivengainmente, quello odierno: Con quest’umidità non mi si asciuga più il costume.

    Stavo ancora complimentandomi per la splendida scusa, quando si spensero le luci e la piscina rimase totalmente al buio, se si esclude una fioca luminescenza proveniente dai lucernari del corridoio d’entrata.

    Uscii dalla vasca e, nella penombra, vidi che anche gli altri avevano avuto la stessa idea, inclusi i parenti dei bimbi, scesi prontamente dalle tribune. Ci ritrovammo tutti sotto il trampolino alto, di fronte alla paratia che divide la piscina dalle docce.

    Dallo spogliatoio femminile arrivavano strani rumori.

    «Tutti a terra!» urlò l’istruttore che, che imprecando in vari dialetti, si era assunto il comando del manipolo.

    Per primi si buttarono i nonni che avevano sulle spalle qualche ricordo di guerra, a seguire le nonne, che condividevano l’epoca.

    «Avanzate!» ordinò il condottiero, convinto di quello che diceva.

    I nonni si mossero carponi. Dietro di loro le nonne, in ginocchio, procedevano a piccoli avanzamenti, come salissero una scalinata sacra. In mezzo, i bambini strisciavano a passo di leopardo, ridendo tra loro del gioco. Noi, generazione di collegamento, chiudevamo il corteo, in piedi, muti, avanzando a passi incerti nel buio.

    In questa formazione facemmo il nostro ingresso nello spogliatoio femminile, dove fummo raggiunti dal personale della reception e dal trainer della palestra adiacente, accompagnato da un terzetto di volonterosi giovanotti in canottiera, uno ancora con i pesi in mano.

    Al centro della stanza buia c’era un tavolo coperto da un drappo rosso, sul quale brillavano trentatré candele accese. Tante quanti eravamo noi.

    Amalia (Amy, per gli amici. Con la Y. Ci teneva) se ne stava in poltrona, davanti alla finestra, a guardare il traffico del sabato mattina. Proprio di fronte alla sua casa sorgeva un grande centro commerciale con annesso Sporting Club che attirava famiglie e coppiette in vena di shopping. Il viavai del parcheggio, visto dall’alto, assomigliava a uno di quei giochi elettronici degli anni ‘80, la cui prova d’abilità consisteva nel riuscire a incastrare quanti più mattoncini potevi man mano che scorrevano sul monitor.

    Amy si definiva un’artista e il suo campo d’azione consisteva in interventi atti a modificare il senso della realtà, specie quello altrui, anche perché il suo aveva una valenza relativa.

    Uno dei suoi capolavori poteva essere ammirato sulla colonna di fronte all’ascensore, al terzo piano della Rinascente. Lì, in calce al cartello che recitava:

    La Direzione non risponde per eventuali danni a persone o cose…

    aveva aggiunto, con un pennarello rosso:

    Firmato: Dio

    Fino ad ora nessuno si era accorto del suo ingresso nella Storia dell’Arte e l’opera rimaneva orgogliosamente in mostra da più di tre mesi. Ogni tanto lei passava a rimirarsela da varie angolature, come se si trovasse di fronte al Bacchino malato del Caravaggio o a qualsiasi altra meraviglia che vi venga in mente, a vostra scelta. Finché un giorno, all’ennesima visita, trovò una sorpresa. Qualcuno aveva chiosato, in calce:

    prendila così

    Il primo istinto fu di cancellare la scritta anonima, ma si fermò. Con il suo gesto lo sconosciuto aveva espresso la comprensione e il consenso che ogni artista sogna di ricevere. Così la lasciò lì e gliene fu grata.

    Era già quasi mezzogiorno, Amalia si alzò dalla poltrona, si diresse in cucina, prese dall’armadio una borsa di plastica, v’infilò un pareo, una confezione di lumini per scaldavivande, tre bottiglie di spumante e una crostata di mele avvolta in un panno bianco. Poi uscì, attraversò la strada e si diresse al centro commerciale.

    Nello spogliatoio si era fatto silenzio.

    Nell’angolo buio vicino agli armadietti una donna, in piedi, in tuta bianca, ci osservava.

    Si avvicinò con solennità al tavolo, come un prete che inizi a dir messa, e si mise a soffiare lentamente sulle candeline, spegnendole con cura una alla volta.

    Esaurito il compito, si rivolse agli astanti: «Grazie di essere venuti, non vi immaginavo così numerosi! E adesso, fatemi gli auguri!».

    Rimanemmo fermi immobili, senza ben comprendere l’ordine degli eventi.

    Ci vennero in aiuto i bambini, perché ai loro occhi la situazione era del tutto plausibile. Anzi, apparteneva proprio al tipo di mondo che erano abituati ad abitare. Senza un dubbio che li frenasse, si buttarono addosso alla signora cantando: «Tanti auguri a te… tanti auguri a te…».

    E fu così che le restanti ventitré persone, fino a quel momento a cavallo del proprio destino o convinte di esserlo, all’unisono, si misero ad applaudire. Poi la signora estrasse da un borsone delle bottiglie di spumante e una torta.

    «Oh sono così contenta di festeggiare con voi. Brindiamo! A proposito, io sono Amalia, ma chiamatemi pure Amy, con la Y.»

    La cena

    Verso le dieci e mezzo il ristorante si stava svuotando. Oltre al nostro tavolo rimanevano due coppie sulla settantina, in fondo alla sala, che stavano tagliando il traguardo del terzo Fernet e due fidanzatini, nel tavolo a fianco al nostro, in procinto di andare al cinema, se solo si fossero messi d’accordo su quale film vedere.

    Amalia aveva in mente già da tempo di festeggiare il suo compleanno con un po’ di gente intorno. Non che non avesse amiche e amici, ma voleva uscire dal solito giro, inventarsi una nuova ambientazione. Così, un pomeriggio, davanti alla finestra, osservando il viavai del centro commerciale adiacente allo Sporting Club, le era venuta l’idea di coinvolgere un po’ di quelle persone, anagraficamente sconosciute, ma della cui esistenza condivideva alcuni momenti. Come per esempio quella mamma lì, che accompagnava i due bambini alla lezione di nuoto. O quei due ragazzoni col borsone, che andavano a rifinire gli addominali.

    Così aveva studiato un piano. Non era tutta farina del suo sacco: lo schema l’aveva copiato da un romanzo famoso, nel quale un serial killer norvegese s’intrufolava nelle palestre e faceva strage di donne votate al pilates.

    Il giorno dopo era andata allo Sporting Club e, con la scusa di chiedere informazioni sugli abbonamenti, si era guardata un

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