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Matematici di profilo
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Matematici di profilo

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Chi sono i matematici che, dall'antichità fino ai giorni nostri, hanno creato la scienza che ormai permea la nostra vita quotidiana? Quali sono le storie che si celano dietro ai nomi associati a regole e teoremi che ricordiamo dai banchi di scuola?
Pitagora e Archimede, Galileo e Cartesio, Leibniz e Newton, il princeps mathematicorum e la femme savante che si nasconde dietro un nome maschile, un rivoluzionario ventenne che muore in un misterioso duello, i creatori di nuovi mondi geometrici, i deputati e i senatori dell'Italia risorgimentale, la 'principessa della scienza' col nome ereditato da un re medioevale, un genio ispirato da una dea indiana, il più grande logico dopo Aristotele, il figlio dell'impero britannico che decifra i messaggi dei nazisti. Sono alcuni dei profili raccolti in questo libro.
Raccontano le vicende di uomini e donne, forse non molto noti al grande pubblico, che hanno avuto un ruolo decisivo nella storia della cultura e della società occidentale.

La matematica pura è, a suo modo,
la poesia delle idee logiche.
Albert Einstein

LanguageItaliano
PublisherIlSole24Ore
Release dateNov 25, 2021
ISBN9788863459234
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    Matematici di profilo - Umberto Bottazzini

    1. Pitagora

    Chi era Pitagora? Il matematico dell’antica Grecia che ha scoperto il teorema che tutti abbiamo imparato a scuola, verrebbe subito da dire. Un filosofo, una figura poliedrica che appartiene più al mito che alla storia, dirà forse qualcuno. O anche uno sciamano, un mago e riformatore politico. E ancora un fisico e musico, taumaturgo e capopopolo. Una specie di santone a capo di una vera e propria setta esoterica che non escludeva le donne. Difficile rispondere. Tanto più che Pitagora non ci ha lasciato alcuno scritto, non si sa neppure se mai ne è esistito uno, e solo una parte esigua delle informazioni che ci sono pervenute sono a lui contemporanee o di poco posteriori (cfr. il mio Pitagora. Il padre di tutti i teoremi, Il Mulino, Bologna 2020). La sua figura si colloca nell’epoca di transizione da una cultura orale a quella scritta, in un secolo che è stato definito miracoloso, il secolo di Budda e Confucio, di Lao-Tse, di Talete, Anassimandro e dei filosofi ionici. Tra il 570 e il 480 a.C. circa, sostengono le testimonianze più antiche. Le biografie che ci sono giunte sono tuttavia opera di autori posteriori di secoli, come Diogene Laerzio, Porfirio di Tiro e Giamblico di Calcide che di Porfirio era stato allievo. E tutte dipendono in larga misura da Nicomaco di Gerasa (II sec. d.C.). Comunemente si ritiene che Pitagora sia nato nell’isola di Samo. Altri autori invece attribuiscono a Pitagora un’origine tirrenica, se non etrusca. In ogni caso, agli occhi dei Greci Pitagora sarebbe stato di origine barbara, approdato a Crotone dalle coste della Lidia, ritenuta il luogo d’origine degli Etruschi che avrebbero colonizzato l’Italia centrale. Una mitica origine etrusca destinata ad essere ripresa con connotazioni decisamente italiche in alcune pagine di Giambattista Vico. Si racconta che Pitagora abbia fatto viaggi di istruzione in Egitto, presso i Caldei e nelle regioni del vicino Oriente che si affacciano sul Mediterraneo. Le fonti concordano nell’attribuire qualità straordinarie al sapiente sbarcato sulle coste calabre. È capace di por fine a un’epidemia di peste, di far cessare vento e tempesta, di calmare le onde del mare. Parla agli animali, e ha capacità divinatorie fuori dall’ordinario. Tra le molte virtù ha anche quella dell’ubiquità, tanto da esser stato visto a Crotone e Metaponto nello stesso giorno e alla stessa ora. Molte fonti attribuiscono a Pitagora e ai pitagorici un ruolo rilevante nell’attività politica e legislativa nelle città della Magna Grecia. Lo stesso Pitagora viene presentato come maestro di vita, autorità morale e religiosa, riformatore e legislatore. Ma a Crotone le cose alla fine si misero male per Pitagora, costretto a lasciare la città per trovare rifugio a Metaponto dove morì, dopo un digiuno di quaranta giorni secondo alcuni, per altri trucidato dagli inseguitori al limitare di un campo di fave, davanti al quale si era arrestato. Diceva infatti che bisognava guardarsi dalle fave, ed era meglio esser catturato che calpestarle. Una storia del tutto inattendibile se si dà credito ad Aristosseno, che vantava la conoscenza degli ultimi pitagorici. A suo dire Pitagora non era affatto vegetariano, amava cibarsi di maialini da latte e teneri agnellini, e tra i legumi apprezzava soprattutto le fave. Per Eraclito era il principe degli ingannatori, l’iniziatore della schiera di coloro che ingannano con le loro chiacchiere, per Empedocle, invece, un uomo di straordinario sapere dotato di un’immensa ricchezza d’ingegno. Pitagora diceva che l’anima è immortale e trasmigra in altre specie di esseri animati, che in fondo si devono considerare della stessa specie tutti gli esseri che hanno vita. Una dottrina che viene messa alla berlina nelle satire di Luciano e nelle commedie di Shakespeare, ma contribuisce a giustificare la sorprendente affermazione di Bertrand Russell: C’era un serpente nel paradiso filosofico, e il suo nome era Pitagora. Perché mai Pitagora nella subdola veste del serpente tentatore? Perché nell’originario paradiso filosofico greco, nato come una rivolta contro la religione, nella filosofia della natura dei filosofi ionici dove secondo Russell regnava la Ragione (con la R maiuscola), Pitagora ha introdotto la mela del peccato, una forma di orfismo, la dottrina della reincarnazione in un processo di educazione dell’anima nell’eterno ritorno alla sua origine divina, un insieme di detti oracolari e credenze religiose sul mondo ultraterreno, di misteri e rituali divini ai quali era stato iniziato negli anni di formazione. Nondimeno Russell riconosce a Pitagora un ruolo che, nel bene e nel male, nessun altro ha avuto nella sfera del pensiero. Con lui ha avuto inizio la matematica intesa come procedimento deduttivo e dimostrativo intimamente connessa con una peculiare forma di misticismo. Ne I sonnambuli, Arthur Koestler ricorre a un’immagine di rara efficacia. La scena del sesto secolo è come quella di un’orchestra in attesa, con ogni musicista intento sul proprio strumento. Poi si fa un silenzio carico di tensione, il direttore entra sul proscenio, tre colpi di bacchetta e dal caos di suoni scaturisce l’armonia. Il maestro è Pitagora, la cui influenza sulle idee, e dunque sul destino dell’umanità, è stata probabilmente più grande di chiunque prima o dopo di lui. Mentre infatti Platone e Aristotele, Euclide e Archimede sono, agli occhi di Koestler, pietre miliari lungo il percorso della cultura occidentale, Pitagora sta all’inizio, là dove si decide quale direzione la strada prenderà. In realtà, né Platone né Aristotele, né Euclide e Archimede parlano di Pitagora come matematico o filosofo della natura, e tantomeno in fonti più antiche si trovano testimonianze dirette in tal senso. Oggi siamo molto meno disposti di Russell o Koestler a dare credito all’immagine di Pitagora matematico e scienziato che ci è stata tramandata. La fama di Pitagora come inventore della matematica e delle scienze matematiche della natura è spiegabile come una distorsione di prospettiva, ha scritto Walter Burkert nel suo fondamentale studio su Pitagora e il pitagorismo che ha orientato le ricerche più recenti. Le scoperte matematiche che la tradizione attribuisce a Pitagora sono prive di qualunque fondamento. Non ho il minimo dubbio che ogni connessione tra la teoria elementare dei numeri e Pitagora sia puramente leggendaria e di nessun valore storico, ha affermato senza mezzi termini il grande studioso di matematica antica Otto Neugebauer. Che dire dunque del teorema sui triangoli rettangoli che porta il suo nome e si insegna in tutte le scuole del mondo? In realtà era noto agli antichi Babilonesi molti secoli prima che il migrante di Samo approdasse sulle coste calabre, così come ai Cinesi e agli Indiani. È stato Vitruvio ad attribuirlo a Pitagora nel De architectura, pur se nel caso particolare di un triangolo rettangolo di cateti 3 e 4, e ipotenusa 5. E da allora è stato ripetuto. Di quel teorema, che caratterizza la geometria euclidea, si conoscono più di quattrocento dimostrazioni. Quell’antico teorema che sembrava caratteristico di una struttura molto particolare si è poi rivelato modello di moltissime strutture, ha detto una volta il matematico italiano Ennio De Giorgi. E nel secolo scorso i matematici hanno mostrato che proprietà degli spazi euclidei a tre e più dimensioni come il teorema di Pitagora si potevano addirittura estendere in maniera opportuna a spazi a infinite dimensioni come gli spazi di Hilbert, in una straordinaria sintesi di algebra, geometria e analisi che si è rivelata di importanza fondamentale in meccanica quantistica.

    2. Euclide

    Una vera e propria impresa scientifica e letteraria, che trova difficilmente paragone anche fuori dai confini del nostro paese. Non si saprebbe come altrimenti definire l’imponente volume di oltre 2.700 (!) pagine, nel quale Fabio Acerbi ha raccolto le opere di Euclide (Tutte le opere, Bompiani, Milano 2007) che ci sono pervenute, in traduzione italiana con a fronte il testo greco della classica edizione curata da Heiberg e Menge. Altrettanto imponente è l’introduzione di Acerbi, che in oltre 750 pagine delinea il quadro storico e concettuale in cui si collocano i testi euclidei, e ne traccia la storia successiva fino a noi. La fonte principale della matematica pre-ellenistica, scrive Acerbi, è costituita dai testi di Aristotele. Anche le informazioni che ci forniscono autori più tardi come Simplicio sono spesso a margine di commenti a opere aristoteliche. Emblematica, da questo punto di vista, è l’analisi di un testo di Simplicio relativo alla quadratura delle lunule, le figure geometriche ottenute considerando per esempio un cerchio e le semicirconferenze costruite sui lati di un quadrato iscritto nel cerchio. Commentando un breve passo della Physica aristotelica, Simplicio dilaga in una lunghissima digressione sulla quadratura delle lunule da parte di Ippocrate di Chio, che si basa su una Storia della geometria di Eudemo andata perduta e costituisce il frammento più importante di matematica pre-euclidea. Dopo aver riportato integralmente quel testo di Simplicio, Acerbi si impegna in un’accurata analisi linguistica, per riuscire a disincagliare il relitto di Eudemo dai commenti di Simplicio, e matematica, per cercare di far luce su una questione forse disperata, quella del legame che intercorre tra la quadratura delle lunule e i (vani) tentativi di quadratura del cerchio. Tra i numerosissimi passi di argomento matematico sparsi nel corpus aristotelico Acerbi riporta in particolare ampi stralci degli Analytica posteriora dedicati alla questione dei principi, che forniscono utili riferimenti per chiarire "quali assunzioni indimostrate fossero presenti in raccolte di Elementi precedenti" quelli euclidei. Di certo, infatti, gli Elementi di Euclide non furono l’unico testo di quel tipo scritto nell’antichità, e trattati analoghi erano stati redatti fin dal V secolo. Sulla collocazione cronologica dell’opera di Euclide, dice Acerbi, possediamo dati scarsi e in linea generale poco affidabili e nessuna informazione sulla sua vita. Studi recenti hanno poi messo in discussione l’opinione comune che Euclide sia vissuto all’epoca di Tolomeo I, così come il suo legame con il Museo di Alessandria. L’analisi delle evidenze disponibili gli suggerisce di far slittare in avanti di qualche decennio, rispetto al 300 a.C., il periodo in cui fiorì Euclide, che risulterebbe così quasi un contemporaneo di Archimede. Inoltre, appare del tutto infondata la credenza che esistesse una attività di insegnamento istituzionalizzata di alto livello presso il Museo, nella quale Euclide fosse impegnato. Altrettanto azzardato, sostiene Acerbi, è ritenere che gli Elementi fossero stati originariamente concepiti come un manuale. Comunque sia, non c’è dubbio che gli Elementi siano uno dei testi più influenti nell’intera storia dell’umanità, secondo solo alla Bibbia. Un testo che per oltre duemila anni ha costituito il modello del ragionamento deduttivo e del rigore matematico. Tutto il sistema euclideo è basato su poche semplici nozioni comuni e cinque postulati. I primi tre assicurano la possibilità di effettuare costruzioni geometriche elementari (congiungere due punti con un segmento, prolungarlo quanto si vuole da entrambe le parti, tracciare una circonferenza con centro e raggio dati). Il quarto postulato afferma che gli angoli retti sono tutti uguali fra loro. Di ben maggiore complessità concettuale è il quinto, il cosiddetto postulato delle parallele: se due rette tagliate da una trasversale formano angoli dalla stessa parte la cui somma è minore di due angoli retti, allora prolungate illimitatamente si incontrano da quella parte. Su di esso si basa la costruzione di un quadrato, e quindi la dimostrazione del teorema di Pitagora e del suo inverso – se in un triangolo la somma dei quadrati costruiti su due lati è uguale al quadrato costruito sul terzo lato, allora il triangolo è rettangolo – con cui si chiude il Libro I degli Elementi. Il secondo Libro è di evidente ispirazione pitagorica, così come attribuita alla scuola pitagorica è la scoperta di grandezze incommensurabili tra loro come la diagonale e il lato di un quadrato. Con quella scoperta l’infinito irrompe nella matematica. Il rigoroso metodo adottato da Euclide per trattare quelle grandezze è basato sulla teoria delle proporzioni creata da Eudosso di Cnido. Rapporti e proporzioni stanno alla base di tutta la matematica, e si potrebbe forse dire che la stessa idea di ragione (dal latino ratio) si è andata elaborando nei secoli a partire dall’idea di logos matematico. Anche se la teoria delle proporzioni finisce per nasconderne i risvolti numerici e gli algoritmi di approssimazione elaborati per trattare grandezze incommensurabili tra loro, è proprio nell’abbracciare insieme grandezze commensurabili e incommensurabili che risiede la profondità e l’originalità della teoria euclidea esposta nel V Libro degli Elementi. Secondo molti commentatori, anche il contenuto dei libri VII, VIII, IX risale almeno ai tempi di Pitagora se non prima, mentre gli ultimi tre libri trattano la geometria solida e culminano con la dimostrazione che i poliedri regolari sono solo cinque, i cinque solidi platonici. Quando si guarda all’intero corpus euclideo, ci si rende conto che le opere di Euclide sono molto disuguali dal punto di vista stilistico e del rigore matematico. Quest’ultimo, osserva Acerbi, è carente nelle opere di matematica applicata (ammesso che siano veramente euclidee) come i Fenomeni e, in qualche misura, anche l’Ottica, opere che presentano una certa commistione tra aspetti fenomenici e geometrici, oltre che caratteristiche assai diverse dagli Elementi e dai Data, dotati invece di una impressionante monoliticità lessicale e stilistica, senza confronti nell’antichità. Con un’ipotesi che lo stesso Acerbi definisce fantasiosa, si potrebbe azzardare di avere a che fare con un Euclide bifronte, che muta registro stilistico e tralascia il rigore che lo ha reso celebre nei secoli quando esce dall’ambito puramente geometrico.

    3. Archimede

    La trama sembra quella di un giallo. È la storia rocambolesca di un palinsesto medioevale, che ha portato alla riscoperta di uno dei testi più importanti dell’intera matematica. La storia raccontata da R. Netz-W. Noel (Il codice perduto di Archimede, Rizzoli, Milano 2007) comincia a New York nell’ottobre del 1998 quando, in un’asta della casa Christie’s, viene aggiudicato per due milioni di dollari un manoscritto bruciacchiato, divorato dalla muffa e quasi illeggibile. Appena visibili sotto un testo di preghiere cristiane si intravedono tracce di parole cancellate e disegni geometrici. Per quanto in pessime condizioni, è il più antico manoscritto conosciuto contenente testi di Archimede, tra i più grandi matematici della storia, che – racconta Plutarco – nel 212 a.C. trovò la morte per mano di un soldato quando i legionari romani guidati dal console Marcello irruppero entro le mura di Siracusa, la sua città natale schierata coi Cartaginesi, ponendo fine a un assedio durato due anni. Le opere di Archimede sono giunte a noi attraverso tre codici, i codici A e B oggi scomparsi, e il codice C. Il codice B ancora nel 1311 si trovava nella biblioteca pontificia di Viterbo, mentre il codice A, prima che se ne perdessero le tracce nel 1564, risultava in possesso di un umanista italiano. Grazie a copie di questi codici, i matematici del Rinascimento vennero a conoscenza delle opere del grande siracusano. Del codice C essi ignoravano l’esistenza. La notizia della sua sensazionale scoperta nel 1906 a Costantinopoli, ad opera del filologo danese Ludvig Heiberg, finì sulla prima pagina del New York Times. In un libro di orazioni, scritto su una pergamena che conteneva altri testi, si celava il trattato in cui Archimede svela il suo Metodo meccanico per la scoperta di teoremi geometrici. Quel codice sembra essere stato realizzato a Gerusalemme nel 1229, e quindi finito nel vicino monastero di San Saba nel XVI secolo per poi riapparire a Costantinopoli e, qualche tempo dopo il ritrovamento di Heiberg, scomparire di nuovo per ricomparire infine all’asta di Christie’s. Oltre al Metodo, esso contiene anche un altro testo archimedeo, Sui corpi galleggianti, mentre in uno dei fogli peggio conservati del palinsesto c’è l’inizio di un ulteriore testo archimedeo, del quale Heiberg era riuscito a decifrare ben poco. Ha a che fare con un gioco chiamato per la sua difficoltà Stomachion, ossia mal di stomaco, un rompicapo simile al tangram, in cui si tratta di comporre 14 tessere in modo da costruire un quadrato. Lo scopo di Archimede era di calcolare il numero dei modi in cui è possibile farlo, ossia 17.152 secondo i matematici che si sono cimentanti nel calcolo! Sembra che Archimede si divertisse a proporre agli amici problemi la cui soluzione comporta numeri enormi. Tra loro c’era Eratostene di Cirene, che ha legato

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