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Il Fiore della Quintessenza
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Il Fiore della Quintessenza

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About this ebook

"Immagina l'intero universo racchiuso in un punto microscopico che viaggia lungo un petalo. Immagina sedici petali con centinaia di universi che s'intrecciano. Stami e Pistilli che si allungano dai vertici di un Ipercubo e zampillano nella Quinta Dimensione. Ecco, ora vedrai una corolla. Immagina strane voci che raccontano sedici storie di mondi incredibili. Remote frequenze. Proiezioni parallele. Crocevia del Sense of Wonder. Ora sentirai la musica del Multiverso. Ecco, ora vedrai un Fiore della Quintessenza."

Antologia che raccoglie sedici racconti inediti scelti tra i migliori autori di fantascienza in Italia.
Storie che aprono le porte della percezione verso mondi in cui è sempre facile perdersi.
In queste nuove, surreali dimensioni le regole che conosciamo non valgono più, se non per avere un termine di paragone.
LanguageItaliano
Release dateNov 25, 2021
ISBN9788833469010
Il Fiore della Quintessenza

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    Il Fiore della Quintessenza - AA VV.

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    Il Fiore della Quintessenza

    a cura di Sergio Mastrillo

    Autori: Donato Altomare, Serena M. Barbacetto, Tea C. Blanc, Lorenzo Davia, Davide Del Popolo Riolo, Linda De Santi, Irene Drago, Alessandro Forlani, Ernesto Gastaldi, Laura Marinelli, Maico Morellini, Ilaria Petrarca, Giovanna Repetto, Riccardo Vezza, Andrea Viscusi, Salvatore Vita

    Postfazione di Sandro Battisti

    Direttore di Redazione: Jason R. Forbus

    Progetto grafico e impaginazione di Sara Calmosi

    ISBN 9788833469010

    Pubblicato da Ali Ribelli Edizioni, Gaeta 2021©

    Narrativa – Mondi Possibili

    www.aliribelli.com – redazione@aliribelli.com

    È severamente vietato riprodurre, in parte o nella sua interezza, il testo riportato in questo libro senza l’espressa autorizzazione dell’Editore.

    Il Fiore della Quintessenza

    a cura di Sergio Mastrillo

    Donato Altomare, Serena M. Barbacetto, Tea C. Blanc, Lorenzo Davia, Davide Del Popolo Riolo, Linda De Santi, Irene Drago, Alessandro Forlani, Ernesto Gastaldi, Laura Marinelli, Maico Morellini, Ilaria Petrarca, Giovanna Repetto, Riccardo Vezza, Andrea Viscusi, Salvatore Vita

    Postfazione di Sandro Battisti

    AliRibelli

    Indice

    Introduzione

    Metafisica di Parilliòn

    Incipit

    CONDANNA A MORTI

    Donato Altomare

    SALDI DA URLO ALLA FINE DEL MONDO

    Linda De Santi

    WORASMUS

    Andrea Viscusi

    GINEPRAIO

    Giovanna Repetto

    PER PICCINA CHE TU SIA

    Alessandro Forlani

    PARADRAMA

    Tea C. Blanc

    PIRATI DEI CALABI-YAU

    Lorenzo Davia

    COLORI PRIMARI

    Ilaria Petrarca

    SUSSURRI

    Davide Del Popolo Riolo

    VITAE

    Laura Marinelli

    CON UN PO’ DI FORTUNA

    Maico Morellini

    LEARNING TO FLY

    Riccardo Vezza

    CONVERGENZA

    Irene Drago

    MULTIVERSE ROULETTE

    Salvatore Vita

    DEBUGGER

    Serena M. Barbacetto

    SIMMETRIE

    Ernesto Gastaldi

    Postfazione

    di Sandro Battisti

    «Se questo è il migliore dei mondi possibili,

    allora dove sono gli altri?»

    Voltaire, Candido

    Introduzione

    Se dovessimo risalire alla prima volta in cui il concetto di multiverso è stato utilizzato in letteratura, dovremmo tornare al lontano 1934, quando Murray Leinster scrisse il racconto Sidewise in Time, prendendo spunto dal termine coniato quaranta anni prima da William James.

    Qualche anno dopo, Jack Williamson pubblicò The Legion of Time e, solo successivamente, il fisico Bryce DeWitt reinterpretò la teoria che Hugh Everett aveva chiamato L’interpretazione della meccanica quantistica, inserendovi tre semplici parole: a molti mondi.

    Questo per dire di come la fantascienza giochi quasi sempre un ruolo di anticipazione sulla scienza, così come ha sempre fatto la filosofia con la matematica.

    La pluralità dei mondi è un concetto che già duemilasettecento anni fa era in voga tra gli atomisti greci. Un’astrazione che anche Copernico e Giordano Bruno affrontarono successivamente, in epoca rinascimentale.

    Quando si parla di Universi Paralleli, non si può scindere il concetto dei vari piani dimensionali, dai viaggi nel tempo o dalle infinite intersezioni del multiverso.

    E se parliamo di diramazioni e possibili mondi sulla linea dello spazio-tempo, non possiamo esimerci dal citare Dick, Anderson e Turtledove, i padri dell’ucronia.

    Eppure, il concetto del multiverso ha condizionato anche la letteratura di altri generi, se pensiamo alle potenze extradimensionali di Lovecraft, al Campione Eterno di Moorcock o agli strani portali di Lewis.

    Al filone narrativo degli universi paralleli possiamo associare anche tutta la letteratura dei viaggi nel tempo.

    Da Dostoevskij a Dickens a Mitchell, da Bellamy a Wells, passando per Salgari e Borges, fino ad arrivare a Sheckley, Bradbury, Heinlein e Lem.

    E se vogliamo citare un’opera rappresentativa sugli universi paralleli, nello specifico, non possiamo dimenticare Neanche gli Dei di Isaac Asimov. Il grande autore ci mostra il suo parauniverso con un dettaglio verosimile. Laddove le interazioni tra i Morbidi e i Duri, le due specie dominanti, e il diverso funzionamento della fisica e della chimica, sono trovate alienanti e suggestive.

    Ma anche altri autori hanno affrontato il tema, non solo in chiave fantascientifica. Basti citare Lewis Carroll e seguire Alice e il Bianconiglio nel Paese delle Meraviglie; oppure Ursula Le Guin, che ci ha guidati fino alla confluenza di Werel, passando attraverso i suoi mondi incantati, eppure sempre affilati riflessi della nostra società.

    E non possiamo trascurare La Torre Nera, crocevia del multiverso di Stephen King; oppure lo squarcio di Clive Barker, che in Schiavi dell’inferno crea la violenta dimensione dei supplizianti sulla base di un concetto antico quanto il mondo: il limbo infernale.

    Sono innumerevoli gli scrittori che hanno dato sfogo all’immaginazione, cercando di colmare il vuoto lasciato dalla razionalità riguardo al misterioso concetto del multiverso.

    La lista degli autori che hanno trattato i filoni degli universi paralleli, infatti, fa diventare questo tema un vero e proprio sottogenere, se calcoliamo le opere pubblicate fino ai giorni nostri.

    Da Tommaso Landolfi a Michael Crichton, dai fratelli Strugackij a Neil Gaiman.

    Un’infinita varietà.

    E variegati sono i racconti di quest’antologia, che si esprime in molteplici declinazioni della fantascienza. Non troverete Ucronie tra queste pagine, dove Soft Sci-Fi, Bizzarro Fiction, Science Fantasy, Speculative Fiction, Space Opera e altri sottogeneri si alternano, intrecciano e fondono come in un’orchestra.

    Un volume che porta le firme di molti vincitori dei più importanti premi italiani di fantascienza, tra maestri narratori, sceneggiatori internazionali e giovani promesse. Penne importanti che affrontano il tema nei modi più eterogenei.

    Dalla filosofia del paradosso all’invenzione eugenetica, dalla digressione metafisica all’entanglement quantistico, fino a toccare i tasti più dolenti del paradigma introspettivo.

    Questo progetto nasce unicamente sul concetto di astrazione del multiverso, un tema che sarà affrontato da diversi punti di vista, stili e prospettive.

    Sedici storie del sense of wonder.

    Le bolle, le stringhe, i molti mondi e le storie consistenti non sono altro che una parte infinitesimale delle sue illimitate interpretazioni.

    Così come nello spettro dimensionale delle ucronie possono esistere infinite copie quasi perfette del nostro mondo, che corrono e s’intrecciano sulla linea dello spazio-tempo verso altre direzioni, concepite e interpretate dalle proiezioni della nostra psiche in altri piani temporali, allo stesso modo e con le stesse possibilità, possono plasmarsi ed esistere universi a noi sconosciuti e indecifrabili, illeggibili, se non attraverso i codici delle menti che li percepiscono.

    Fisici e matematici ne teorizzano l’esistenza, filosofi e narratori ne carpiscono l’essenza, mostrandoci le sue infinite possibilità.

    Con le loro chiavi dorate aprono porte, finestre e cancelli verso mondi in cui è sempre facile perdersi.

    E molto spesso, in queste nuove, surreali dimensioni, le regole che conosciamo non valgono più, se non per avere un termine di paragone.

    Sulla base del mistero secolare, di una serrata selezione e di tanta passione per il genere è nato questo progetto.

    S. M.

    Metafisica di Parilliòn

    Il multiverso di Parilliòn è un Fiore sull’abisso della pazzia.

    La sua sezione si presenta come una margherita, in realtà è un crisantemo ermafrodito.

    La corolla è composta da sedici insiemi di universi paralleli, sedici petali ellissoidali.

    Ogni petalo nasce nell’ovario, dove s’incrociano il maggior numero di segmenti e dove c’è la più alta concentrazione di energia oscura. All’interno di ogni petalo ci sono sedici Varchi dimensionali, metà dei quali possono fondersi con il petalo adiacente, successivo e precedente. Questi ultimi generano i crocevia, intersezioni tra piani paralleli affini. I Varchi che si muovono lungo l’ellissi del petalo (otto) hanno la possibilità d’incrociare altri Varchi, se l’energia dei rispettivi ovari è sufficiente a generare un conflitto dimensionale.

    Ne viene che la corolla contiene sedici al quadrato universi paralleli, e di conseguenza il Fiore, nella sua globalità, raccoglie sedici sezioni, quindi altrettante corolle. Le sedici sezioni compongono il Fiore. Dunque si dirà che il Fiore della Quintessenza contiene sedici al cubo universi paralleli.

    L’otteratto all’interno di ogni sezione rappresenta lo spazio-tempo quadridimensionale unificato. I suoi vertici generano le proiezioni da cui scaturisce la corolla, la curvatura della quinta dimensione che rappresenta l’energia oscura.

    Ognuna delle sedici sezioni del Fiore è formata dalla proiezione dei vertici di un ipercubo i cui segmenti sono rappresentati da stami e pistilli. Vettori, segmenti e proiezioni dell’ipercubo sono la parte interna del Fiore.

    I petali nascono dagli ovari, che nella proiezione dell’ipercubo stesso rappresentano i sedici crocevia interni.

    Il tesseratto dello spazio-tempo ha quattro dimensioni e l’energia oscura negli ovari genera la quinta dimensione, che è composta dai sedici petali della corolla.

    Con la strumentazione di Parilliòn non era possibile accedere alle frequenze delle altre Sezioni non adiacenti perché le interferenze dei flussi plasmatici dei Varchi vicini agli Ovari, con la conseguente instabilità atomica del quarto stato della materia, rendevano impossibile il passaggio di un segnale riconoscibile e decifrabile.

    Solo otto Varchi ellittici diventano Crocevia sul Petalo, dunque la ricerca di Parilliòn è limitata a tre Sezioni. Le Superfrequenze interessate saranno sedici coordinate dimensionali sulle ventiquattro limitate a tre Petali comunicanti. L’insieme delle sedici Sezioni contiene sedici Varchi al cubo e viene denominato Fiore della Quintessenza.

    La teoria di Parilliòn contempla la possibilità che il Fiore della Quintessenza si ripeta in maniera esponenziale. Tanti Fiori quanti sono quelli connessi alla membrana medianica frattale. Ogni Fiore avrà un numero di Petali pari alla proiezione ortogonale del tesseratto da cui scaturiscono. Gli studi di Parilliòn confermano che il nostro universo si trova in un comunissimo Fiore a sedici Sezioni, duecentocinquantasei Petali, quattromilanovantasei Varchi dimensionali.

    Il Multiverso è quantificabile in un Fiore della Quintessenza alla sedicesima.

    Anthony Bodegard

    Incipit

    Reperto A112/V – Archivio Terza Base Columbus – Marte

    Stralcio – Discorso del Prof. Anthony Bodegard al Concilio delle

    Accademie, poco prima di suicidarsi nei bagni del teatro Jonathan Swift.

    […]

    I primi esperimenti sul teletrasporto approvati dall’Istituto sono stati un disastro epocale. Centinaia di animali, all’inizio, poi decine di persone.

    Senza dimora, coloni, reietti, furono sacrificati sull’altare del progresso. Quando, dopo secoli, si riuscì a imbrigliare il gravitone e a teletrasportare il primo uomo incolume da un anello all’altro, ormai tutti avevano dimenticato la mesta processione delle cavie che continuavano a entrare nei laboratori dell’Istituto senza farne più ritorno.

    Dopo la consacrazione della Nuova Era e l’utilizzo consolidato del teletrasporto, ci fu un ricercatore, un certo dottor Raul Parilliòn, che cominciò a studiare l’anomalia formatasi tra l’anello sorgente e l’approdo ricettore.

    In tutti quei secoli, nessuno si era accorto che la continua manipolazione della membrana medianica aveva finito per causare una variazione nel rapporto tra materia e materia oscura.

    All’epoca si pensava che i soggetti morissero all’istante, proiettati nel multiverso quantistico come la polvere in uno spiffero. Si sbagliavano.

    Il dottor Parilliòn dimostrò, contro ogni ragionevole dubbio, che ognuna di quelle vittime, ogni cavia animale, vegetale o umana che fosse, si era evoluta in qualcosa d’altro.

    Si diceva che Parilliòn fosse entrato in contatto con sedici di queste entità e che riuscisse a comunicarci con precisione matematica.

    Le sue ricerche hanno gettato le basi per le future scoperte di quel multiverso che ora è esclusiva di ricchi e potenti. Trovate geniali che sono andate oltre ogni piano di speculazione. Le sue superfrequenze gli permisero di contattare sedici convergenze di tre petali della corolla, la sedicesima sezione di ciò che oggi conosciamo come Fiore della Quintessenza.

    La sua intuizione lo portò al vertice delle proiezioni, nell’increspatura anomala dello spazio-tempo. E si dice che le misteriose entità lo tenessero informato nei minimi particolari sulle questioni dei loro mondi, attraverso storie incredibili.

    Nei rapporti dell’epoca, si asseriva che costoro fossero creature straordinarie, più simili a spettri che a esseri viventi.

    Fu allora che i pezzi grossi dell’Accademia iniziarono a storcere il naso.

    Molti dei suoi colleghi lo derisero, credendolo pazzo, altri invece lo appoggiarono, ma con un certo distacco.

    Buona parte dei più illustri scienziati del tempo erano convinti che gli studi di Parilliòn fossero fondati, ma nessuno di loro si sbilanciò; alcuni per timore di ritorsioni professionali, altri per il terrore di dover ammettere l’esistenza di esseri superiori che potevano stare ovunque e in qualsiasi tempo. Entità senzienti che da altri universi paralleli potevano accedere sul loro piano, attraverso un limbo intermedio.

    Spiriti che potevano andare a spasso nella membrana medianica senza riuscire a essere mai né umani né dèi.

    Lui li chiamava I Latori della Quintessenza.

    Fu così che, il giorno prima, Raul Parilliòn era l’esimio ricercatore, e il mattino dopo era diventato l’ennesimo sacrificio sull’altare della conoscenza.

    Gli ultimi amici e colleghi lo abbandonarono ai suoi studi giusto in tempo per non impazzire. Il dottor Parilliòn, invece, impazzì per davvero.

    Morì solo, nel suo studio sotto l’Antenna, con la mente dispersa tra le Frequenze e i Bagliori, come li chiamava lui.

    Dopo il passaggio delle toghe nere, dei suoi studi decennali non rimase altro che qualche appunto delirante, scritto in terza persona e inciso sotto i quattro piedi della scrivania:

    Sedici entità, il dottore contattò.

    Loro sono altrove, nel mai.

    Loro sono qui, nel sempre.

    Sedici storie, il dottore ascoltò.

    S. M.

    Frequenza NT1 – Prima Sezione – Ottavo Petalo – Quarto Varco ellittico

    CONDANNA A MORTI

    Donato Altomare

    Il Pendolo

    Il giudice De Feo passeggiava nervosamente davanti alla sua scrivania in lucido teak nero. Non l’amava per nulla, era l’antitesi del suo concetto di tavolo da lavoro, ma quella stanza, con tutti i mobili che la incupivano, era una sorta di eredità. Così l’aveva trovata, così l’avrebbe lasciata alla fine del suo mandato di Giudice Supremo della Sezione Penale. Lanciò uno sguardo al grande orologio a pendolo ultramoderno addossato alla parete sinistra e sospirò. Era ovviamente fermo, ma lui era lì per decidere se rimetterlo in funzione.

    Qualcuno bussò discretamente alla porta.

    «Avanti.»

    Il sensore acustico recepì il comando riconoscendo la sua voce e fece scattare l’apposita serratura. La porta scivolò sulle guide scomparendo nella parete.

    Entrarono tre persone.

    Per prima attraversò l’uscio la Presidente della Giuria. Era una donna di mezza età, dalla carnagione molto scura con occhi azzurri che spiccavano sul volto. De Feo la conosceva bene, aveva già lavorato con lei e ne aveva grande stima. Dietro di lei due uomini. Anche questi li conosceva. C’era il Delegato del Presidente dello USI, l’Unione Stati Italiani, con delega piena sulle decisioni di importanza anche strategica, e don Luca, il rettore dei cappellani di tutte le prigioni degli stati italiani.

    Il Giudice, con un gesto, li fece accomodare alle poltrone davanti alla tetra scrivania, poi raggiunse la sua e si sedette. Con la mano sfiorò la fotocellula e l’ambiente si illuminò di una sfavillante luce azzurrina. La luce cominciò ad assumere consistenza per poi adagiarsi sulle pareti, sul pavimento e sul soffitto dando all’ambiente la stessa luminosità di un’alba senza sole.

    Ovviamente non gli sfuggì l’occhiata che i tre avevano dato al pendolo appena entrati.

    Erano lì per quello.

    «Signori,» cominciò De Feo con voce piena e molto musicale «la stanza è perfettamente insonorizzata. Ciò che diremo non sarà registrato in alcun modo, per cui non ne resterà traccia se non nella memoria personale. Certo conoscete la ragione che mi ha spinto a convocarvi. Confesso che non ci ho messo molto a decidermi. È la seconda volta che lo faccio da quando il Presidente mi ha conferito il mandato di Giudice Supremo, e per la seconda volta sono assolutamente convinto che dovremo rimettere in movimento il Pendolo.» Tacque come a raccogliere qualche impercettibile reazione nei suoi ospiti, ma nessuno fece alcun commento, per cui proseguì: «Il processo ormai è concluso, aspetto soltanto che la giuria si esprima. Non è mia intenzione conoscere in anticipo il suo pronunciamento, sarebbe contro legge, ma in quarant’anni di processi cruenti per delitti orribili, non credo di averne visto uno come quello che abbiamo esaminato. Aspetterò ovviamente la sentenza, ma prima che si torni in quell’aula, ho bisogno del vostro conforto su quella che mi pare l’unica inappellabile decisione.

    Vi rammento che tutti noi dobbiamo essere concordi sulla eventuale messa in funzione del Pendolo, basta che uno solo sia contrario perché la Porta del Multiverso resti chiusa. Confido che la decisione sia unanime. Vi ascolto».

    C’era un ordine preciso di intervento in quelle particolarissime, anzi molto rare, occasioni. Quindi gli sguardi si rivolsero alla Presidente della Giuria che, a denti stretti, mormorò: «Nessuna pietà. Lo si faccia». Era visibilmente scossa.

    «La mia è soltanto una presenza formale» intervenne subito il Delegato del Presidente. «Non vedo alcun rischio per i nostri Stati Uniti, per cui do il mio consenso.»

    Tutti gli sguardi si posarono su don Luca. Era l’osso più duro. Il suo viso impassibile non lasciava trasparire nessuna emozione, certo ne aveva visti di orrori nella sua lunga carriera. Per i criminali era l’estrema àncora di salvezza, colui che poteva decidere della vita e della morte.

    Il suo silenzio durò più di un minuto, poi l’intero volto s’aggrottò e finalmente parlò: «Io sono un servo di Dio, e sono un uomo. Come servo di Dio devo supplicare pietà, ma come essere umano non posso averne. In me c’è una contesa straziante che certamente potrete capire e che potrebbe non avere una soluzione. Ma se Dio avesse voluto sprecare pietà per un simile essere abominevole l’avrebbe fatto tramite voi e non tramite il suo vicario in Terra».

    «Quindi?» Intervenne De Feo temendo che la decisione prendesse la piega sbagliata.

    «Quindi, signor Giudice Supremo, accetterò la decisione della maggioranza facendo mia la vostra volontà.»

    De Feo trasse un sospiro di sollievo.

    «La decisione allora è presa?»

    I tre annuirono senza neanche respirare.

    De Feo si alzò e raggiunse il Pendolo ponendosi alla sua sinistra: «Delegato» chiamò.

    L’uomo si alzò e mise mano al giustacuore. Con calma tirò fuori una chiave cristallina, fatta di diamante puro artificiale, poi raggiunse il Pendolo ponendosi alla sua destra. Intanto anche il Giudice Supremo aveva tirato fuori una chiave identica. La infilò nell’apposita serratura a sinistra del quadrante, mentre il Delegato, faceva lo stesso infilando la sua chiave nella serratura a destra.

    Riportarono gli sguardi sugli altri due. Che annuirono.

    Allora, senza più alcuna incertezza, girarono le chiavi contemporaneamente.

    Si udì il rumore di un meccanismo che si mette in moto. Suono non reale, solo registrato, vista l’altissima tecnologia dell’orologio. Il Pendolo si mosse all’improvviso e cominciò a ondeggiare. Le lancette dell’orologio disposte casualmente ruotarono e si misero sulle dodici in punto.

    Il Pendolo si sarebbe fermato dopo l’esecuzione della sentenza.

    De Feo scosse il capo, quasi sconvolto da quella decisione che aveva tanto sostenuto, poi emise un lungo sospiro. Ormai non si poteva tornare più indietro.

    «Bene, signori, vi ringrazio.» Raccolse la toga nera e concluse: «Possiamo tornare nell’aula per la sentenza».

    La sentenza

    Il verdetto lo si conosceva sin dall’inizio di quel sofferto e disgustoso processo. Il Giudice Supremo era in aula, seduto allo scranno più alto in accigliata attesa. La gente presente nella grande aula rumoreggiava e borbottava a bassa voce. Ovunque giornalisti che prendevano appunti vocali. L’atmosfera era tesa, pesante.

    La giuria prese posto. Soltanto la Presidente rimase in piedi guardando il Giudice.

    «Avete il verdetto?»

    «Sì, vostro onore.»

    «All’unanimità?»

    «Sì, vostro onore.»

    Il responsabile dell’aula raggiunse la Presidente della Giuria, prese il foglietto che lei gli porgeva e lo consegnò al Giudice Supremo. Era un metodo antichissimo e lo si era conservato per tradizione.

    L’anziano togato lesse il biglietto e lo posò sul ripiano della scrivania, poi strinse le labbra annuendo. Non potevano esserci dubbi in merito. Si girò verso la gabbia: «L’imputato si alzi».

    L’uomo, un quarantenne quasi calvo, occhiali da miope, volto inespressivo scurito da un accenno di barba non si mosse quasi non avesse sentito le parole del Giudice. Di certo anche lui conosceva l’esito di quel processo. Le due robuste guardie carcerarie che gli erano a fianco lo afferrarono per le braccia e lo sollevarono di peso.

    Il Giudice tornò a guardare verso la Presidente della Giuria e chiese: «Riguardo l’accusa di violenza verso le cinque bambine, come la giuria ha giudicato l’imputato?».

    «Colpevole, vostro onore.»

    Breve bisbiglio nella sala. Il Giudice lanciò un’occhiataccia al pubblico, poi tornò a chiedere: «Riguardo l’accusa di omicidio delle cinque bambine, come la giuria ha giudicato l’imputato?»

    «Colpevole, vostro onore.»

    Ancora il brusio, ma più contenuto.

    «Avete stabilito quante morti?»

    «Cinque, vostro onore, una per ogni bambina.»

    «Grazie a lei e a tutti i componenti della giuria. Capisco che non è stato facile assistere a questo processo. Il vostro alto senso civico è stato di notevole aiuto alla giustizia.» Restò qualche istante in silenzio, poi riportò lo sguardo sull’uomo che continuava a mantenere un’espressione vacua. Il Giudice aveva temuto sino all’ultimo di scorgere qualche traccia di pentimento nel suo volto, nel caso avrebbe dovuto alleviargli la pena, concedendogli le attenuanti generiche, ma per fortuna non era stato così. Sembrava che la condanna a morti non lo riguardasse. Il Giudice Supremo si schiarì la voce e continuò: «Essendo stata esclusa da parte dei medici incaricati qualsiasi forma di insanità mentale, verificato che lei ha compiuto quei gesti aberranti con assoluta coscienza e premeditazione, la condanniamo a cinque morti. Ha qualcosa da aggiungere in sua discolpa?».

    L’uomo restò immobile, sguardo fisso nel vuoto, labbra leggermente socchiuse per respirare. Non disse nulla, non fece nulla.

    Il Giudice ordinò: «Portatelo via».

    Il condannato seguì le due guardie carcerarie che, dopo averlo ammanettato, lo tirarono via dalla gabbia e l’accompagnarono fuori dall’aula.

    Il togato fece un cenno al boia che si avvicinò e prese il foglietto che il Giudice gli porgeva. Era ben vestito, in completo nero, sembrava un docente universitario. Non disse nulla né fece commenti, si limitò a un secco cenno d’assenso. Il Giudice invitò i componenti della giuria a lasciare le panche. Il loro compito era terminato. Poi si alzò e a capo basso sparì ingoiato da una porticina laterale.

    Il parlottio dopo la sentenza si era acquietato. La gente stava uscendo dall’aula in maniera ordinata. Qualcuno aveva borbottato: «Troppo poche cinque morti… troppo poche».

    Tutto avrebbe avuto inizio alle ore 24.

    Quando il Pendolo avrebbe scoccato il primo rintocco.

    Prima morte

    Gli fu portato l’ultimo pasto che il condannato rifiutò.

    «Sarebbe vergognoso se mi vomitassi addosso. Ho una dignità da salvaguardare» bofonchiò con tracotanza.

    Le guardie carcerarie lo fissarono con disgusto. Persino gli altri assassini incalliti delle celle vicine tentarono di sputargli addosso.

    Aveva passato la notte sveglio, a borbottare in continuazione frasi sconnesse che non potevano certo essere una preghiera, frammentandole con sogghigni isterici.

    Con gli occhi sempre fissi nel nulla.

    Il Pendolo, anche se nessuno lo poteva vedere, segnava le dodici meno un quarto.

    Tutti trattenevano il fiato in attesa del suo unico rintocco. Che sarebbe avvenuto allo scoccare delle dodici esatte. Alla prima morte.

    Giunsero le quattro guardie delegate alla scorta, precedute dal boia sempre nel suo elegante completo nero e dal suo aiutante. Infine giunse anche don Luca. Il condannato a morti lanciò un’occhiataccia al prete che, nonostante tutto, continuava a mormorare una preghiera invocando da Dio il perdono per quell’uomo. Ma anche il prete, in cuor suo, sperava che Dio in quel momento avesse altro a cui pensare.

    Il condannato fu fatto uscire dalla cella e la blasfema processione si diresse con passo cadenzato verso la parte più estrema del braccio delle morti.

    Verso la camera delle morti.

    Il cappio era immobile. Sembrava rigido quasi fosse stato inamidato. Il boia salì la scaletta che portava al patibolo e controllò la corda che si piegò docilmente sotto le sue mani esperte. Il nodo scorsoio, ben insaponato, scorreva facile. Saggiò l’antiquato comando a leva dell’apertura della botola e annuì soddisfatto. Attese che il suo aiutante si infilasse sotto la botola, poi fece un cenno alle guardie. Una di loro prese il condannato e lo spinse un po’ rudemente sulle scale. L’uomo non fece alcuna resistenza. Salì gli scalini e raggiunse il patibolo mettendosi al centro della botola, sotto il cappio che era giusto all’altezza del suo capo.

    «Ti consiglio di non irrigidire il collo.»

    Non era pietà. Anzi. Il boia sapeva che automaticamente il condannato l’avrebbe fatto. E ciò avrebbe comportato più tempo prima che il collo si spezzasse e lui morisse. Più tempo significava più dolore.

    Gli infilò il cappio e lo strinse. Anche in quel caso, se l’avesse lasciato un po’ lento, lo strappo sarebbe stato fatale quasi subito. Per cui lo sistemò ben stretto. Sentì i muscoli dell’uomo irrigidirsi e nel suo intimo sogghignò soddisfatto. Ma la sua espressione era fredda. Professionale.

    Lanciò uno sguardo allo spesso vetro che costituiva una delle pareti della camera delle morti. Oltre, una decina di persone assistevano al corso della giustizia. C’era il Giudice Supremo, la Presidente della Giuria, i genitori della prima delle bambine uccise, due giornalisti, un medico, il direttore del carcere, il Delegato del Presidente e don Luca.

    Il Giudice assentì col capo.

    Il boia si spostò di lato alla botola e afferrò il comando a leva. Borbottò a bassissima voce: «Questo per Valeria che hai violentato e poi strozzato». Guardò l’orologio digitale da parete. Mancavano quindici secondi alle dodici in punto. Abbassò la leva.

    Quindici secondi sarebbero stati sufficienti per la sua morte.

    Il condannato precipitò sotto la botola che si era aperta. La corda si tese, il cappio strinse il collo. D’istinto, l’uomo tentò di resistere, agitandosi e dimenandosi come un pesce all’amo, ma il peso stesso del suo corpo avrebbe avuto ragione dell’inutile tentativo di resistere. Scalciò, tentò di liberarsi le mani bloccate dalle manette dietro la schiena. Lanciò un lamento mentre il cappio stringeva sempre di più. Ma non moriva. Stava soffrendo atrocemente, ma non moriva. All’improvviso ebbe un’oscena erezione e i pantaloni si bagnarono. Ma non moriva. Allora il boia fece un cenno al suo tirapiedi. L’aiutante si aggrappò ai piedi del condannato e si appese con tutto il suo peso. Si udì un lamento strozzato. Poi il collo si spezzò.

    Il condannato lanciò un urlo di dolore, infine privo di vita si rilassò. Collo piegato, viso distorto dalla sofferenza, denti stretti con la mascella serrata dall’ultimo spasimo. Pantaloni bagnati.

    Il Pendolo scoccò il suo primo rintocco.

    Oltre il vetro una donna piangeva sommessamente.

    Un uomo mormorava: «È poco… troppo poco».

    Tutti si alzarono e andarono via.

    Il boia e il suo aiutante restarono a guardia del giustiziato.

    Il cielo s’illuminò. L’universo del Multiverso a bolle cominciò a gonfiarsi per poi esplodere in una luminosissima notte fatta di miliardi e miliardi di stelle colorate.

    Quell’universo non esisteva più.

    Un altro ne aveva preso il posto.

    Ma nessuno se ne accorse.

    Il Pendolo continuava a ondeggiare.

    Non era cambiato assolutamente nulla nel nuovo universo.

    A parte una condanna a morti.

    Primo risveglio

    C’era il buio intorno a lui. Nero buio che attraversava le palpebre chiuse e si insinuava nel suo cervello.

    D’istinto portò la mano alla gola. La sensazione di dolore intenso lo costrinse a sollevarsi a sedere e a lanciare un grido. La sua mente rivide istante per istante ogni attimo della sua esecuzione e sentì la corda che gli stringeva il collo.

    Riprovò tutto il dolore e nuovamente urlò.

    «Finiscila, bastardo!»

    Dal corridoio oltre la cella la voce roca attirò la sua attenzione.

    Strano, pensò, l’inferno doveva essere più luminoso, rossastro.

    Tacque mentre continuava a strofinarsi il collo alla ricerca di un segno.

    «Crepa!» di rimando.

    «Vedo che ti sei svegliato.»

    Aprì gli occhi. La luce della sua cella fu quasi dolorosa.

    «Cazzo sei?»

    «Il tuo demone custode» gli rispose con un ghigno la guardia carceraria.

    Il condannato tacque. Non aveva voglia né di parlare né di ridere. Si rese conto di aver dato a quell’individuo troppa soddisfazione e tornò a chiudersi in quel mutismo che aveva caratterizzato tutto il processo, dal momento del suo arresto.

    «Scricchiola il collo?»

    Silenzio.

    Anche perché il dolore non gli stava dando requie.

    Seconda morte

    La processione era identica alla precedente. Quattro guardie, il boia sempre ben sbarbato e in nero, il suo aiutante il cui intervento come tirapiedi rammentò al condannato il dolore provato mentre la corda gli spezzava il collo e il prete che continuava a salmodiare una litania incomprensibile.

    Pensò che lo facesse apposta per allontanare Dio.

    Percorsero il lungo corridoio tra gli altri condannati, alcuni dei quali lo guardavano con disgusto, e raggiunsero la camera delle morti.

    Lo scenario ovviamente era diverso dal precedente. Lui sapeva che quella morte avrebbe avuto a che fare col sangue, la seconda bambina l’aveva sgozzata col coltello una volta che aveva abusato di lei, ma non si aspettava ciò che vide.

    Era una ghigliottina.

    C’era tutto, la lucida lama che sarebbe calata sul suo collo scorrendo tra le apposite guide ben lubrificate, la lunga panca sulla quale distendersi a pancia in giù e la cesta che avrebbe accolto la sua testa decollata.

    La cosa non gli dispiacque. Tutto sarebbe finito in un attimo. Soltanto il tempo di un amen.

    Il boia controllò che la lama scorresse bene tra le guide e, quando si ritenne soddisfatto, ordinò al suo aiutante di avvicinare di più la cesta per evitare che la testa finisse fuori. Poi guardò oltre la parete trasparente. Le stesse persone stavano assistendo alla pena. Solo i genitori erano cambiati.

    Il Giudice fece il consueto cenno d’assenso.

    Il boia ordinò a due guardie di portargli sopra il condannato che aveva sempre le manette a stringergli i polsi dietro la schiena. Ma non lo distesero sul tavolaccio a pancia in giù, bensì sulle spalle. Così avrebbe potuto vedere la lama precipitare verso il suo collo.

    Lui ebbe un tuffo al cuore. L’idea non gli piaceva per nulla. Ed era certo quella la ragione per cui lo stavano ghigliottinando al contrario. Tentò di sollevarsi a sedere forzando gli addominali, ma fu subito ricacciato all’indietro dalle due robuste guardie che gli passarono le cinghie intorno al petto, alla vita e alle gambe. Infine, gli chiusero la gogna sul collo. Ora non poteva più muoversi. Una delle due guardie gli mormorò: «Questo, verme, è per Santina».

    Lui gli lanciò un’occhiata strana. Non più spavalda come alla prima morte, ma non disse nulla.

    Santina… Rammentò il sangue… tutto quel sangue… e lui che con sadica indifferenza si chiedeva quanto sangue potesse contenere quel piccolo corpicino. Lo scoprì lasciandola morire dissanguata dentro una tinozza.

    Ricordò d’essere rimasto indifferente a quello spettacolo.

    Quindici secondi. Il boia tolse la frizione e la lama, vibrando un tantino, precipitò luccicante verso il collo scoperto.

    Lui lanciò un grido di spavento.

    La lama lo raggiunse e tagliò la carne.

    Ma si bloccò. Aveva inciso il collo di lato tagliandogli la carotide, ma non l’aveva decapitato.

    Con indifferenza il boia tirò su la lama e la rifece calare.

    Anche questa volta il condannato sentì il metallo penetrargli nel collo, ma fermarsi quasi a metà. Il sangue colava da tutte le parti mentre la testa si piegava di lato restando in parte attaccata. Il dolore che provava era forte, tanto da spingerlo a lanciare piccole urla. Il fiato però non giungeva in gola, mentre il sangue continuava a zampillare seguendo il pulsare del cuore con sempre meno spinta.

    Ecco cosa si provava a morire dissanguato.

    Quanto sangue conteneva il suo corpo? Non l’avrebbe mai saputo.

    Il capo era reclinato da un lato.

    Il boia tirò su per l’ultima volta la mannaia. Ma restò immobile. In attesa.

    Pian piano il sangue diminuiva, la vita gli sgocciolava via come il suo sangue. Il dolore gli stordiva il cervello.

    Ecco cosa si provava a morire dissanguato.

    Stava per chiudere gli occhi arrendendosi alla morte quando sentì un rumore che veniva dall’alto. La lama della ghigliottina stava precipitando verso il suo collo per completare l’opera. Per completare la giustizia.

    Tentò un ultimo roco lamento. Venne fuori un rantolo che accompagnò la testa nella cesta.

    Quando raggiunse il fondo, i suoi occhi ancora si muovevano.

    Il Pendolo scoccò due rintocchi.

    Il secondo universo ondeggiò. Non si gonfiò come il precedente, ma si dipinse di striature rossastre, quasi ad annunciare una prossima giornata di sole.

    Poi si lacerò, come sotto una lama che lacera la carne.

    E brandelli sanguigni caddero dall’alto ingoiati dalla terra, dal mare e da ogni cosa costruita dall’uomo. Per pochi secondi.

    Poi tornò tutto normale. Nulla di diverso nel nuovo universo.

    Se non la sorte del condannato.

    Secondo risveglio.

    Bianco. Accecante.

    Aprì gli occhi. E urlò portandosi la mano al collo. Poi alla testa che sembrava stesse per scoppiargli.

    Il dolore del collo tagliato si sovrappose a quello del collo spezzato.

    I suoi lamenti lasciarono indifferenti le sbarre e le mura della prigione, ma fecero gioire gli altri reclusi che in silenzio assoluto lo sentirono piangere e soffrire.

    Quanto sangue c’era nel corpo della bambina?

    Il suo demone custode lo stava osservando oltre le sbarre. In compiaciuto silenzio.

    «Bastardi… bastardi…»

    Ancora una volta parlò poco mentre le mani non più ammanettate si stringevano intorno al collo e gli occhi quasi accecati dalla luce bianca rivedevano la lama luccicante che scendeva affamata della sua vita.

    E sentiva la corda stringere e la lama tagliare.

    E sentiva dolore. Un terribile dolore.

    Il Pendolo continuava a ondeggiare.

    Terza morte

    La processione sembrava procedere al rallentatore. Tutto era fatto per aumentare l’ansia del condannato che, ben lungi dall’ostentare l’indifferenza della prima morte, guardava di sottecchi le guardie che lo scortavano. Ricordava la sua terza vittima, Fabiola, una bambina dai luminosi riccioli neri. Rammentava quando l’aveva toccata dappertutto una volta drogata. E spogliata. E violata. Eppure non provò il consueto brivido di piacere, anzi ebbe come un moto di repulsione. Pentimento? No, non provava alcun pentimento, solo repulsione.

    Una volta che aveva abusato di lei, l’aveva bruciata. Viva anche se incosciente.

    Fu così che si chiese: che morte gli avevano riservato?

    Una bella pira, un rogo da strega. Anzi da stregone.

    Sorrise. Una guardia si accorse del suo sorriso e resistette a fatica alla tentazione di infilargli lo sfollagente tra i denti e farglieli sputare uno a uno. Così non avrebbe mai più sorriso.

    «Non riderai a lungo, carogna.»

    Tutti intorno sentirono quelle parole, ma nessun mostrò di averle udite.

    Raggiunsero la camera delle morti in un tempo che a lui parve lunghissimo.

    «Facciamola finita, non tiratela a lungo.»

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