Le cicatrici del porto sicuro "Il diario di un sopravvissuto"
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Anteprima del libro
Le cicatrici del porto sicuro "Il diario di un sopravvissuto" - Soumaila Diawara
UNA TESTIMONIANZA NECESSARIA
Fuga
Una geografia del coraggio. Una testimonianza necessaria per la memoria presente e futura della violenza sistemica che nel 21° secolo sta tormentando le vite di milioni di persone in fuga. Un'analisi storico-politica dei nessi tra neocolonialismo, guerre e migrazioni.
È questa la densità nella quale s'immergono i lettori e le lettrici di questo libro. Un racconto che va seguito attraverso le strade, le città, le oasi, i sentieri e i pericoli del territorio africano compreso tra Burkina Faso, Mali, Algeria e Libia; il passaggio verso l'Europa con la traversata disperata del Mediterraneo centrale e una serie di luoghi del sistema d'accoglienza italiano delle persone richiedenti asilo dalla Sicilia a Roma. Un'analisi che collega sempre la vicenda individuale, i fatti diretti e quotidiani che accadono all'autore del testo, con il contesto storico, politico, militare e sociale nel quale una parte della biografia di Soumaila Diawara si è formata.
Le vite delle persone che migrano non si possono comprendere se si separa l'emigrazione dall'immigrazione o, addirittura, se si guarda solo all'immigrazione, dunque all'arrivo e inserimento in un territorio e in una società straniera, cancellando o dimenticando la vita trascorsa nelle aree di partenza e transito. È questo un insegnamento fondamentale del sociologo algerino Abdelmalek Sayad per capire le migrazioni ed è un metodo che accompagna questo libro, nel quale il contesto di emigrazione non viene mai dimenticato e s'intreccia continuamente con l'attualità del contesto d'immigrazione. D'altronde, se una scissione di questo tipo è impossibile nella realtà della vita delle persone, sebbene pretesa dal discorso pubblico dominante sulle migrazioni, lo è ancora di più per chi, come Soumaila Diawara, ha subito il torto di essere accusato per motivi politici e dovere fuggire per evitare il carcere o la morte. Le ragioni della fuga tendono a non esaurirsi mai, perché il torto subito è troppo grande per farle cadere nell'oblio. E questa presenza è ancora più forte se si collega con le violenze patite e viste subire durante il viaggio in cerca di un rifugio.
Violenze
Violenze del viaggio. Violenze della permanenza in Libia. Violenze della traversata in mare. Violenze, seppure solitamente non cruente, del sistema di accoglienza in Italia. È questa costante della violenza a interessare un'ampia parte delle migrazioni e dei processi di fuga contemporanei: una realtà cancellata dal dibattito pubblico, dalle notizie dei media, dalle immagini dei telegiornali, se non per comparire in modo saltuario e improvviso per farsi spettacolo e, così, essere privata di qualunque possibilità d'impatto politico o, per lo meno, etico.
È la violenza, ad esempio, dei campi di detenzione in Libia. È la violenza della mancanza di alternative ai viaggi via mare o alla miseria dell'attesa per un futuro migliore o, almeno, in salvo, che s'allontana continuamente. È la violenza dei luoghi da cui si scappa, spesso attraversati da guerre o conflitti armati di lungo periodo per l'accaparramento di terre, miniere, pozzi petroliferi, ma anche dall'avanzata di malattie a causa dei disboscamenti o dalla diffusione di forme feroci di patriarcato.
Se guardate da questo punto di vista, le migrazioni cambiano completamente significato. Le parole di Stato del controllo delle frontiere, del contrasto dei clandestini e dei trafficanti, dell'irregolarità e della mancanza di documenti, dei pattugliamenti con navi e droni, dei centri di espulsione e rimpatrio, della difesa dei confini, delle migrazioni tollerate se utili alle economie nazionali o agli equilibri demografici, degli accordi con gli Stati terzi per respingere chi vorrebbe emigrare, delle politiche molto restrittive sui visti si convertono in altro. Nella loro ovvietà e banalità diventano le parole (e le politiche) della guerra alle persone in fuga; della legittimazione, se non promozione, della violenza; della repressione di diritti e speranze; della reclusione e della paura imposte agli altri, a chi è nato in zone del mondo sacrificate e sacrificabili. Dal punto di vista di chi migra o tenta di migrare le parole di Stato sono parole di violenza. Per chi è bloccato nei centri di detenzione libici, nei campi nati attorno ai centri hotspot nelle isole greche, nei quartieri o nelle fabbriche in cui dormono e lavorano i rifugiati in Turchia o sulla collina di Gourougou in Marocco, in attesa di fronte al muro di Melilla, queste parole e politiche determinano un mondo ostile e vite sofferte: una realtà quotidiana in cui non c'è giustizia e gli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità sono, appunto, ideali, suoni vuoti, privi di valore, fantasie demolite.
Soggettività
Il punto di vista di chi migra è, dunque, determinante per capire che cosa accade nelle esperienze di mobilità spaziale degli esseri umani. Assumerlo vuol dire cambiare completamente il modo di comprendere questo