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La storia dei Papi: Tra il regno di Dio e le passioni terrene
La storia dei Papi: Tra il regno di Dio e le passioni terrene
La storia dei Papi: Tra il regno di Dio e le passioni terrene
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La storia dei Papi: Tra il regno di Dio e le passioni terrene

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«Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa». È questa promessa di Gesù all’apostolo Pietro, iscritta a caratteri cubitali all’interno della cupola della basilica di San Pietro, a Roma, che incontriamo all’origine della storia appassionante di una dinastia di sommi sacerdoti che si è prolungata per via non ereditaria sino ai nostri giorni. Roma, la città imperiale e la città dei martiri, è la grande protagonista di questa storia. Il potere e la gloria, la grazia e il peccato, la generosità e l’ambizione, la santità e la concupiscenza si mescolano in stretto intreccio in personaggi, politiche, programmi e passioni.
Nella storia delle diverse dinastie che hanno regnato lungo i secoli è difficile trovarne una paragonabile a quella dei papi: per la personalità di molti di loro e per il fascino sconcertante e la provocazione che promanano dalle loro vicende, dai loro sogni e dalle loro sconfitte. Ma anche per la persistenza dei loro ideali, nonostante le loro infedeltà.
In queste pagine si dipana la storia della grandezza, della religiosità e del peccato di uomini i cui atti non sempre furono modello di virtù e santità, di quella coerenza e di quella fedeltà che essi stessi predicavano ai propri fedeli, ma che, in ogni epoca, sono rimasti decisivo punto di riferimento per i cristiani. È la storia del Cattolicesimo, ma, di fatto, anche storia dei nostri Paesi e della nostra cultura.
LanguageItaliano
PublisherJaca Book
Release dateJul 15, 2021
ISBN9788816802988
La storia dei Papi: Tra il regno di Dio e le passioni terrene
Author

Juan María Laboa

È uno dei principali studiosi di storia della Chiesa contemporanea. Docente di Storia della Chiesa presso l’Università Pontificia Comillas di Madrid, ha fondato e diretto la rivista spagnola «XX Siglos de Historia de la Iglesia» ed è autore di numerosi saggi e articoli. Fra i suoi titoli pubblicati da Jaca Book ricordiamo: Storia della carità nella vita del cristianesimo (2012), Gesù a Roma (2013), Atlante storico della carità (2014); Atlante storico del monachesimo orientale e occidentale (2016); Paolo VI. Papa della modernità nella Chiesa (2018); L’intollenza nella Chiesa (2020).

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    La storia dei Papi - Juan María Laboa

    I

    ROMA IMPERIALE ED ETERNA (30-417)

    «Sono cittadino romano», dichiarò con orgoglio l’apostolo Paolo di Tarso al prefetto romano di Cesarea di Palestina, rivendicando il proprio diritto a essere giudicato con equità nella capitale dell’impero, e sfuggire così alla vendetta religiosa e culturale degli Ebrei che lo perseguitavano con astio. Certamente Paolo era e si sentiva ebreo ma, come le altre migliaia di abitanti di ogni stirpe e nazione del Mediterraneo, godeva della cittadinanza romana con tutti i suoi diritti e privilegi. Per i primi cristiani Roma rappresentava l’inquietante imitazione della Babilonia descritta nell’Apocalisse, pagana e peccatrice; allo stesso tempo, però, come per qualsiasi altro cittadino dell’impero, suscitava anche ammirazione e inconfessabile attrazione.

    Sin dall’inizio, in realtà, Roma fu una città multietnica, che accoglieva le mentalità, gli dei e le culture dei popoli più diversi. La cronaca di Roma mostra una città stupefacente e potente, allo stesso tempo manifestazione di una civiltà e di un Impero che si confondono in essa. Con sorprendente capacità di integrazione e straordinaria libertà si riversavano e condensavano nelle sue strade le forme culturali, le manifestazioni religiose e i costumi dei diversi popoli. Per altri versi, la città imperiale seppe dominare, assorbire e coordinare l’Italia e il mondo mediterraneo, imponendo il suo stile, il suo diritto, la sua organizzazione e il suo modo di vivere. Essere cittadino romano era un onore e una gloria, anche se parallelamente tale orgogliosa appartenenza non limitava né riduceva l’attaccamento e l’identificazione con la cultura specifica di ciascuno.

    Nell’imponente città, armoniosamente disposta sui sette mitici colli, risaltavano i maestosi templi, dedicati alle divinità più importanti, e i magnifici edifici dove si accentravano le funzioni e gli organi del governo. Sul Palatino sorgeva il tempio dedicato ad Apollo, sul Campidoglio era venerato Giove: al suo tempio si recavano gli eserciti vittoriosi dopo aver percorso la mitica Via Sacra, per depositare sull’altare i trofei ottenuti nelle battaglie. Tra i due templi le vestali, nobili e caste, tenevano sempre vivo il fuoco eterno dedicato alla dea Roma. Nel centro della città uno slanciato edificio, riccamente decorato con marmi e metalli preziosi, coperto da una cupola immensa, ospitava le rappresentazioni delle diverse divinità venerate nell’impero. Ancora oggi possiamo ammirare questo Pantheon, pur senza marmi e oro, trasformato in una chiesa cristiana dove sono sepolti il pittore rinascimentale Raffaello e i re Vittorio Emanuele II e Umberto I, primi sovrani dell’Italia riunificata. Non lontano si trovavano i vari palazzi imperiali e il Senato, centro della grandezza e del potere romani. Il Circo Massimo e il Colosseo, il Circo Vaticano e quello di Domiziano, i teatri e le sontuose terme soddisfacevano le necessità di una popolazione conscia della propria importanza, composta da famiglie patrizie e senatoriali selezionate, da un ceto militare numeroso e dal popolo, i cui membri andavano dai poveri liberi ai numerosissimi schiavi.

    Le statue, per la maggior parte di origine greca, le colonne, generalmente commemorative, i palazzi e gli edifici pubblici, spesso colossali, rivestiti quasi sempre di marmo, mostravano una città superiore a tutte le grandi urbes che l’avevano preceduta: era una capitale degna del mondo allora conosciuto. Da Roma partivano, con istruzioni precise, i governanti delle nazioni sottomesse, e a Roma si recava chi desiderava godere dei suoi lussi, chi cercava lavoro e favori o chi voleva semplicemente risolvere i propri problemi.

    A Roma tutto sembrava essere organizzato, saldamente stabilito e dominato dalla legge. Sotto l’imperatore Augusto la prosperità parve persino aumentare ed ebbe inizio un periodo di pace tanto lungo da dare l’impressione che la pax romana fosse così solida da poter durare in eterno.

    In questo periodo di pace, nella periferica Palestina, nacque Gesù Cristo, la cui vita si svolse nei primi tre decenni della nostra era (fu crocifisso durante il regno di Tiberio). La sua Resurrezione rafforzò e incoraggiò a tal punto i suoi pochi discepoli da spingerli ad annunciare la buona novella in tutte le parti del mondo, persino oltre i confini romani. Furono sempre malvisti e maltrattati, ma non si lasciarono mai intimorire e ogni nuova persecuzione sembrava dar loro nuove energie.

    In un noto passo della sua Vita di Claudio, lo storico Svetonio commenta: «Cacciò da Roma quei Giudei che, istigati da Cristo, provocavano continui disordini», attribuendo a Cristo, o meglio ai suoi discepoli, i subbugli che incessantemente turbavano la vita della comunità ebraica di Roma, e che culminarono nell’espulsione decretata da questo prudente imperatore nell’anno 49. Questo testo testimonia anche sia la precocità della presenza cristiana nella capitale dell’impero, sia la confusione esistente presso chi era estraneo al Giudaismo circa la differenza tra gli Ebrei e i primi cristiani: differenze radicali, anche se le due religioni si influenzeranno reciprocamente per molto tempo.

    La prima notizia sicura dell’esistenza di una comunità cristiana a Roma viene da una lettera di Paolo ai Romani, in cui annunciava il suo arrivo in città (57 ca.), e lodava questa comunità per la sua fede e la sua massiccia attività. Nella primavera del 61 Paolo fu portato a Roma come prigioniero per essere giudicato, ma sembra che godette di libertà di movimento sufficiente a permettergli di far visita e confermare nella fede i primi gruppi di cristiani. Gli Atti degli Apostoli, storia degli inizi cristiani, parlano della sua instancabile predicazione del messaggio di Cristo.

    Nel 64, un violento e devastante incendio distrusse gran parte della città: l’incendio era stato provocato dall’imperatore Nerone che, in seguito alla violenta reazione del popolo e per distrarre l’attenzione, decretò la persecuzione dei cristiani. Nerone era consapevole che il compito gli veniva facilitato dal fatto che il popolo rifiutava e odiava la nuova setta. Notissimo è il testo di Tacito: «Per soffocare ogni diceria, Nerone spacciò per colpevoli e condannò a raffinatissime pene quelli che il volgo, detestandoli per le loro nefandezze, chiamava cristiani». È in questo contesto che Pietro e Paolo subirono il martirio, descritto dal presbitero Clemente Romano nella sua lettera ai cristiani di Corinto, alla fine del I secolo.

    Nulla si sa del periodo romano dei due apostoli, ma dal primo momento la comunità cristiana di Roma li considerò entrambi fondatori, e si ritenne loro erede. Questi apostoli incarnavano due aspetti e due tendenze: una più giudaizzante, maggiormente legata ai riti e ai costumi ebraici, l’altra tipica dei pagani convertiti, più autonoma e più libera rispetto a dette tradizioni. Alcuni decenni più tardi i cristiani romani unirono le due figure, indicando entrambi come le due colonne portanti della Chiesa di Roma. Il martirio di Pietro assunse da subito un valore speciale: il suo ruolo privilegiato nella capitale dell’impero servì, di conseguenza, a giustificare il diverso ruolo di Roma nell’universo cristiano, non perché Pietro fosse stato il fondatore della comunità cristiana di Roma, ma perché lui, che aveva ricevuto da Cristo l’incarico di rafforzare i suoi fratelli nella fede, era stato martire in questa città.

    Le leggende nate in seguito divennero tradizioni devote radicate, come per esempio la storia del Quo vadis Domine? («Dove vai, Signore?»), l’incontro tra Pietro, che stava lasciando Roma per sfuggire alla cattura, e Gesù che si recava in città a prenderne il posto ed essere nuovamente sacrificato: sulla via Appia, fuori dalle mura, c’è una piccola cappella in ricordo di questo avvenimento. Non è invece una leggenda il fatto che la comunità primitiva non dimenticò mai i luoghi dei sepolcri di Pietro e Paolo.

    Il martirio di entrambi rimase vivo nella testimonianza di numerosi membri della comunità romana. Questo è il senso della lettera del sinodo di Arles (314), indirizzata al vescovo Silvestro di Roma, quando afferma che i vescovi dell’Urbe si trovano nel luogo «in cui siedono quotidianamente gli apostoli, e il loro sangue versato testimonia senza fine la gloria di Dio». La Chiesa di Roma traeva la sua importanza, quindi, dalla testimonianza data dal sangue degli apostoli martiri.

    Tutte le fonti documentarie e i dati conosciuti indicano che la comunità cristiana di Roma aveva caratteristiche più giudaiche rispetto ad altre comunità fondate e influenzate da san Paolo. In questa città troviamo un collegio di presbiteri, organizzazione comunitaria di governo sul modello della sinagoga ebraica, a dispetto della tradizione paolina che faceva dipendere la comunità dall’autorità di vescovi e diaconi. Ancora nel 140 il noto Pastore di Erma afferma che i presbiteri continuavano a governare la comunità romana, probabilmente a causa dell’influenza ancora predominante delle tradizioni ebraiche e per la scarsa coesione interna della comunità romana, in netto contrasto con quanto succedeva ad Antiochia e in generale in Asia, dove erano i vescovi a governare con autorità, assistiti dal collegio dei presbiteri.

    Perché questa mancanza di coesione all’interno di una comunità tanto antica? Il prestigio di Roma, centro del mondo, andava senza dubbio a vantaggio dei cristiani della città, e il privilegio di custodire la tomba degli apostoli giustificava e sosteneva tale prestigio presso i fratelli di altre regioni. A poco a poco, dopo la distruzione della «Chiesa madre» di Gerusalemme nell’anno 70, la Chiesa di Roma divenne il punto di riferimento per tradizione e dignità, in un Cristianesimo sviluppatosi come una specie di federazione di comunità autonome e indipendenti, pur molto unite dalla stessa fede in Cristo: spesso era considerata anche come la Chiesa di maggiore autorità di tutta la Cristianità. È questo ciò che intendeva l’apologeta Tertulliano quando scrisse, sul finire del II secolo: «Questa Chiesa di Roma, quanto è beata! Furono gli Apostoli stessi a versare a lei, col loro sangue, la dottrina tutta quanta».

    Per altri versi Roma era un insieme di emigranti venuti da tutte le province dell’impero, e la neonata comunità cristiana era composta da gente di ogni provenienza, razza, cultura e tradizione. La maggior parte era orientale, ma non mancavano Africani, Spagnoli, Galli, Traci… Si provi a immaginare quanto dovesse essere difficile la convivenza di gruppi cristiani di tante etnie, lingue e tradizioni diverse, con peculiarità proprie sia liturgiche sia dottrinali, soprattutto considerando il fatto che il Cristianesimo era in un continuo processo di elaborazione e definizione dei propri riti e della struttura organizzativa, e la comprensione e la spiegazione della dottrina potevano divergere a seconda dei luoghi e della formazione filosofica e teologica di chi guidava le varie comunità. Senza dimenticare poi i 50.000 Ebrei residenti in città, raccolti intorno a una dozzina di sinagoghe; il che spiega il forte influsso delle tradizioni ebraiche sul primo Cristianesimo romano e, allo stesso tempo, la facilità con la quale potevano nascere dissensi e opposizioni tra i suoi membri.

    Una tale molteplicità di origini geografiche e intellettuali spiega la varietà delle interpretazioni e formulazioni delle dottrine tra le quali i contemporanei dovevano scegliere, a volte con difficoltà, quelle che consideravano più vere e concordi con la tradizione, determinandone l’ortodossia e la fedeltà all’insegnamento di Gesù.

    Per queste ragioni è molto probabile che la coesione e l’armonizzazione capillare dei cristiani romani fosse più debole del dovuto, e che ci fossero notevoli differenze tra i membri del collegio presbiterale, in quanto esso rappresentava la complessa pluralità esistente nell’ampia comunità romana. Forse questa mancanza di coesione, questo pluralismo ancora poco articolato, ritardò la trasformazione del sistema organizzativo collegiale in un episcopato monarchico. Di fatto, per più di un secolo non ci sono indicazioni dell’esistenza di vescovi che dirigessero in maniera monarchica la comunità di Roma.

    La successione apostolica

    La massa in parte indefinita dei cristiani non si trasformò in una società organizzata e cosciente fino a che non furono introdotti due elementi in questo Cristianesimo disperso e spesso confuso: una professione di fede – il Credo –, costitutiva della comunità e accettata da tutte le Chiese come espressione della tradizione degli apostoli; e un governo episcopale sufficientemente forte da ricondurli all’unità. Tuttavia, la comunità romana, nonostante le difficoltà affrontate, seppe rafforzare e sviluppare con coerenza la propria personalità e il proprio prestigio.

    In polemica con gli eretici marcioniti, valentiniani e gnostici, e per dimostrare la propria fedeltà all’insegnamento degli apostoli, la Chiesa basò l’autorità e la fedeltà della sua dottrina e del suo insegnamento sulla successione di questi testimoni, la via di relazione più pubblica e ininterrotta con Gesù a disposizione della Chiesa. La fede era un insegnamento ereditato e fedelmente trasmesso, come un lascito. Gli apostoli erano i responsabili autorizzati alla trasmissione della dottrina di Gesù, e i vescovi, loro successori in linea diretta, erano i custodi più affidabili di tale lascito. In questo modo i vescovi acquisirono e concretizzarono progressivamente la propria autorità unica nella comunità; vennero così compilate liste episcopali delle comunità: le più importanti, naturalmente, erano quelle che potevano vantare un’origine apostolica e dimostrare la successione ininterrotta dei vescovi a partire da Pietro.

    Alla fine del II secolo, il famoso teologo Ireneo scrisse un rapporto sui vescovi di Roma, dalle origini della Chiesa fino ai suoi giorni:

    Pietro e Paolo,

    Lino,

    Anacleto,

    Clemente,

    Evaristo,

    Alessandro,

    Sisto,

    Telesforo,

    Igino,

    Pio, Aniceto, Sotero ed Eleuterio. Fino a Pio, per noi sono soltanto nomi; non conosciamo nulla di questi personaggi ed è possibile che si tratti di semplici presbiteri. Che cosa vuol dire ciò? Semplicemente che i documenti che ci restano del primo secolo del Cristianesimo indicano che erano i presbiteri a governare collegialmente la comunità romana. La Lettera ai Corinzi di Clemente, il primo documento cristiano che ci sia pervenuto a parte il Nuovo Testamento, fu scritta da un presbitero romano per i cristiani di Corinto, coinvolti in dispute e dissensi interni. In realtà la lettera è anonima e il suo autore la scrive in nome e con l’autorità della Chiesa romana. Richiamando l’attenzione dei cristiani di Corinto, corregge il loro modo di agire e ci fa anche capire che la Chiesa romana era diretta e amministrata da un insieme di presbiteri, che però non necessariamente avevano lo stesso rango.

    Alcuni decenni più tardi, intorno all’anno 140, il Pastore di Erma, pur parlando di vescovi e diaconi, dice espressamente che erano i presbiteri a presiedere il governo della comunità. La presenza di un’autorità collegiale di presbiteri a Roma per gli specialisti è prova della presenza persistente dell’influenza giudaica, dal momento che già a quel tempo quasi tutte le Chiese esistenti erano governate da vescovi. Il passaggio a una comunità monarchica, diretta da un vescovo, si produrrà solo in seguito. Per questo sembra che Ireneo, nel preparare la citata lista, abbia indicato come unico vescovo quel presbitero che, di volta in volta, era il più autorevole e famoso del collegio.

    Simone, detto Pietro

    Simone il pescatore, il discepolo di Cristo che compare più volte e nei momenti più importanti dei Vangeli e degli Atti degli Apostoli, alla morte del Maestro diventa uno dei cardini della nuova religione. Nel Nuovo Testamento viene chiamato 51 volte Simone, 9 volte Cefa e 154 volte Pietro. Cefa e Pietro significano «pietra, roccia» in armeno e greco, a ricordo delle parole di Gesù: «Su questa pietra edificherò la mia Chiesa».

    Era sposato, e a volte sua moglie lo accompagnava nei suoi viaggi missionari (1 Cor 9,5). Nel Nuovo Testamento compaiono quattro elenchi di apostoli e in tutti e quattro Pietro è il primo. Il suo ruolo di primo piano è manifesto nel corso delle diverse narrazioni dei quattro Vangeli. Il testo chiave del suo primato è Matteo 16,18-19: «E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli».

    In queste parole la Chiesa cattolica riconosce e fonda la creazione del papato, perché è Pietro colui che dà stabilità alla comunità dei fedeli, testimone e guida che vivrà finché esisterà la Chiesa. Su questo testo e sulla sua interpretazione approfondita ed esaltata nel corso dei secoli si fonda la successione e l’importanza dei pontefici romani.

    Sia negli Atti degli Apostoli, sia negli altri scritti evangelici, Pietro è il primo: rappresenta gli apostoli di fronte al popolo e alle autorità, dà testimonianza con la sua parola e la sua prigionia; è un famoso taumaturgo; può scomunicare e castigare; presiede i consigli dei Dodici ed è missionario itinerante.

    La Scrittura non parla esplicitamente della possibilità che il ruolo speciale di Pietro venga trasmesso a un successore; tuttavia, se tale eventualità non fosse stata contemplata, risulterebbe difficile spiegare l’interesse costante per la sua figura espresso nei Vangeli e negli Atti, tutti testi a lui postumi.

    Nulla si sa di come e quando compì la sua missione a Roma. Rimase in Palestina fino alla persecuzione di Erode Agrippa, nel 44, che lo costrinse ad abbandonare Gerusalemme, ma tornò dopo la morte del re, e lì lo troviamo nel 52, quando incontra Paolo e Barnaba di ritorno dal loro primo viaggio apostolico. In seguito si recò ad Antiochia, dove pronunciò il famoso discorso sul comportamento da tenere con i pagani convertiti; stando poi alle sue prime lettere ai fedeli di Ponto, Cappadocia, Asia e Bitinia, deve essersi stabilito in queste regioni per un lungo periodo. Sappiamo quando Pietro si trova a Roma dalle lettere in cui trasmette in Oriente i saluti della «Chiesa riunita di Babilonia».

    La prima testimonianza esplicita offerta dalla storia risale all’anno 95, circa trent’anni dopo la sua morte. Clemente Romano, nella sua Lettera ai Corinzi, ricorda il tempo in cui «Pietro e Paolo stavano con noi», un dato che sarà confermato da Ignazio di Antiochia nel 108, da Ireneo nel 180 e da Tertulliano nel 200.

    Pietro morì probabilmente a Roma nel periodo compreso tra l’incendio del 64 e la morte di Nerone nel 68: secondo la tradizione, la data del suo martirio è il 29 giugno 67. Benché non esistano notizie certe dell’evento, non ci sono motivi per dubitare dell’antichissima tradizione, accolta universalmente dai primi scrittori cristiani, secondo la quale Pietro fu una delle vittime della persecuzione decretata da Nerone in seguito all’incendio della città. Nessun’altra comunità ha mai detto di essere stata testimone della morte dei due apostoli, né mai sono state rivendicate da altri le loro reliquie. Sappiamo poi che a Roma, nel II secolo, si dedicò un culto ai due santi e ai loro «trofei», le loro tombe. Intorno al 200 Gaio, un ecclesiastico di Roma, fa cenno a questi monumenti, e la loro esistenza è stata poi definitivamente confermata dall’archeologia del XX secolo: nel 1939, infatti, fu scoperta una tomba sotto il monumentale altare della Confessione che Costantino fece costruire sopra il trofeo del II secolo, situato in un cimitero romano; nelle vicinanze furono ritrovate numerose pitture ex voto e lodi devote per l’apostolo Pietro.

    Sebbene con il passare dei secoli si sia insistito sulla figura isolata di Pietro, custode della promessa fatta da Cristo, per giustificare il primato del papa, nei primi secoli furono Pietro e Paolo, uniti nella testimonianza della Sua morte, a fondare l’importante comunità romana.

    Tutto quello che sappiamo sulla Chiesa di Roma dei cento anni successivi conferma l’immagine di una cristianità che, pur sentendosi Chiesa, era composta da diverse comunità autonome che si riunivano in case private per celebrare i propri riti, e che erano dirette da anziani o altri che condividevano la responsabilità di tutta la comunità cristiana. Sia il Pastore di Erma sia le lettere di Clemente e di Ignazio di Antiochia rispecchiano questa struttura presbitero-espiscopale della prima metà del II secolo: erano i presbiteri a guidare il governo effettivo della comunità romana.

    Chi sono, allora, questi Lino, Anacleto, Clemente, Evaristo, Alessandro, Sisto, Telesforo, Igino e Pio che compaiono nelle liste dei vescovi di Roma come primi successori di Pietro? Non lo sappiamo con certezza. Benché sicuramente non fossero vescovi unici della città, dato che – come abbiamo ricordato – il governo era collegiale, non si può nemmeno dedurre che si tratti di nomi inventati. Queste prime liste sono molto vicine alla realtà dei fatti, in quanto la memoria storica era fondamentale per le comunità, che vivevano di tradizione e trasmissione. È più probabile che quando la Chiesa si rese conto del valore del concetto di successione apostolica si sia cominciato a compilare liste di vescovi per ogni diocesi, e che per Roma si sia scelto di volta in volta il nome più rappresentativo per ogni epoca a partire dal primo secolo. Di fatto, di nessuno di loro abbiamo concrete notizie.

    I primi vescovi romani conosciuti

    Ai tempi di

    Aniceto (155-166), il prolungato processo di organizzazione gerarchica si era concluso. Non ci sono dubbi che sia lui il vescovo che presiede e dirige con autorità la comunità romana, poiché da lui si recano i capi delle altre diocesi. Il vescovo Policarpo di Smirne, che era stimato e ascoltato per essere stato discepolo dell’ormai anziano san Giovanni apostolo, gli fece visita e discussero amichevolmente sulla data della Pasqua, celebrata secondo due tradizioni diverse. In Oriente si festeggiava il giorno 14 del mese di Nisan, a Roma la domenica seguente. Ciascuno mantenne la propria data: Aniceto non volle che Policarpo abbandonasse quella tradizione che aveva ricevuto direttamente dal discepolo di Cristo, né che i presbiteri romani rompessero con la propria. Non sembra che questa divergenza abbia provocato particolari conflitti fra i due.

    A metà del II secolo Dionisio, vescovo di Corinto, scrisse una lettera di profonda gratitudine per il sostanzioso aiuto economico che papa

    Sotero (166-174), originario della Campania, gli aveva mandato. Tale generosità non era una novità né per il Cristianesimo, né per Roma. Anche se non si riuscì mai a imporre l’uso di una cassa comune, non vi è dubbio che la solidarietà condivisa e una certa comunione dei beni fosse una delle caratteristiche del Cristianesimo primitivo. D’altra parte, fin dagli inizi, la comunità di Roma si era distinta, secondo Dionisio, «per la sua generosità senza limiti verso tutte le Chiese bisognose», facendo così crescere tra i cristiani la venerazione e la stima nei suoi confronti.

    Eleuterio (174-189) ricevette la visita di Ireneo, vescovo di Lione e pensatore profondo, i cui scritti furono letti con rispetto nel corso dei secoli. Nel mondo antico si era soliti elaborare sistemi filosofici che spiegassero il mondo, la divinità e Tessere umano. Il Cristianesimo entrò ben presto in questa spirale di riflessione e di elaborazione intellettuale. Nacquero le scuole teologiche, come quelle di Antiochia e Alessandria, i grandi catechisti come Ireneo, e i teologi e pensatori come Clemente di Alessandria e Origene. Tutti cercavano di conoscere qualcosa di Dio e di spiegare le relazioni esistenti tra Cristo e Dio, e tra Cristo e l’essere umano. Molti di questi pensatori e vescovi visitavano Roma non tanto per fare un pellegrinaggio al sepolcro degli apostoli, quanto per visitare uno dei centri più rappresentativi del Cristianesimo. Tra i viaggiatori non mancavano portatori di idee e dottrine esotiche, poco conformi alla tradizione della comunità romana. Si distinsero in modo particolare i Valentiniani, i Marcioniti e i Montanisti, in generale gnostici che sostenevano un dualismo radicale tra materia e spirito e che pregavano il Dio dell’Antico Testamento. Comparvero anche movimenti carismatici che rifiutavano la progressiva istituzionalizzazione ecclesiale.

    Durante il pontificato di

    Vittore I (189-198) scoppiò un’aspra disputa sulle date della Pasqua. Le Chiese dell’Asia Minore, affidandosi all’autorità dell’apostolo Giovanni, celebravano la Pasqua cristiana nella stessa data di quella ebraica, cioè il giorno 14 dopo il primo novilunio di primavera, indipendentemente dal fatto che il 14 del mese di Nisan fosse domenica. La maggior parte delle comunità romane, invece, celebrava il mistero pasquale della risurrezione di Cristo la domenica successiva alla Pasqua ebraica: Vittore scomunicò le comunità della sua diocesi che si scostavano dall’osservanza occidentale, e in seguito le comunità dell’Asia, mettendo fine al precedente regime di tolleranza. Il vescovo di Lione, Ireneo, gli scrisse una lettera nella quale spiegava che mantenere la data della Pasqua non era tanto importante da costituire fondamento per la scomunica di nessuno, e che questo era stato il parere dei predecessori di Vittore: sia «gli osservanti, sia i non osservanti restano, ciascuno dal suo punto di vista, in comunione con la Chiesa universale».

    Vittore fu il primo vescovo latino e il primo veramente monarchico di Roma, sebbene il potere vescovile fosse ancora poco strutturato. La coincidenza non fu casuale: rappresentò la nascente importanza della lingua latina in una comunità in cui si pregava tradizionalmente in greco e, d’altra parte, la maggiore omogeneità di un gruppo che ormai era sostanzialmente romano per origine e tradizione. Amante della disciplina e deciso a ottenere una Cristianità compatta, concentrò il potere nelle proprie mani e condannò con decisione monarchiani, adozionisti e modalisti, cioè coloro che volendo salvare l’unicità di Dio riducevano Cristo a un essere umano adottato dal Padre.

    La drastica condanna di chi celebrava la Pasqua in una data diversa da quella della tradizione romana sorprese tutti, e infastidì specialmente gli Orientali, che convocarono sinodi nell’area mediterranea nei quali si discusse con fervore sul tema fino al raggiungimento di un accordo. In ogni caso, sorprese la volontà di Vittore di imporre a tutte le Chiese la tradizione romana. Si può capire l’imposizione a tutte le comunità della diocesi di Roma di celebrare la più importante liturgia cristiana nello stesso giorno, ma risulta incomprensibile la sua determinazione a imporla dappertutto, se si accetta l’intima relazione esistente tra la fede e la liturgia, perché il tema non sembrava tanto decisivo.

    In questo senso, l’episcopato di Vittore è una tappa significativa nel processo inarrestabile di conferma del vescovo di Roma nei suoi rapporti con le altre Chiese, anche se, evidentemente, non si può parlare ancora di alcun primato.

    Del pontificato di

    Zefirino (198-217), il più lungo del III secolo, abbiamo scarse notizie, tra le quali spicca però un dato significativo. Il Cristianesimo era afflitto da numerosi disordini che portavano a frequenti divisioni interne causate da dottrine nuove e spesso al limite della tradizione. Tra i gruppi dissidenti al tempo di Zefirino c’erano i teodoziani, seguaci del ricco mercante Teodoto, scomunicato da Vittore, il quale predicava che Gesù era semplicemente un uomo adottato da Dio al momento del battesimo ed elevato alla condizione divina dopo la resurrezione. Le ingenti risorse economiche permisero a Teodoto di formare una Chiesa separata con tanto di vescovi scismatici. L’aspetto più rilevante della questione non era tanto la presentazione della dottrina su Cristo, che in quei tempi subiva un processo di riflessione ed elaborazione teologica, sia da parte di chi affermava che Cristo era esistito da sempre unito al Padre, sia da parte di chi, ammettendo l’assoluta unicità di Dio, cercava di spiegare in maniera sistematica la particolarità del Figlio. Il problema era la potenziale influenza delle risorse economiche sul complesso processo di orientamento della comunità verso l’uno o l’altro tipo di riflessione dottrinale. Lo stesso successe con Marcione e altri eretici. Sebbene in questo caso concreto si abbia l’impressione che Zefirino non si pronunciasse né in un senso né nell’altro, possiamo constatare che, poco dopo, il vescovo cominciò a riservare solo a sé l’esame e la decisione sull’ortodossia delle dottrine, identificandosi con la «sua» Chiesa.

    In questi stessi anni scriveva il sempre appassionato Tertulliano – appartenente alla setta montañista e in polemica con Zefirino –, sostenendo che la Sacra Scrittura fosse un sistema sostanzialmente aperto grazie alla costante azione dello Spirito Santo. È vero che ancora non era stato determinato quali libri concretamente facessero parte del Nuovo Testamento, ma la teoria di Tertulliano lasciava, in un certo senso, la Chiesa alla deriva, in uno stato di costante revisione e instabilità. In seguito si sarebbe stabilito quali libri facessero parte del canone, ovvero quali si consideravano ispirati da Dio. Il Montanismo ebbe importanti ripercussioni in Asia e in Occidente, in modo particolare in Africa: un profetismo fanatico cercò di sostituire l’organizzazione gerarchica con una Chiesa meno istituzionale e più spirituale, che lasciasse più spazio all’azione dello Spirito.

    Callisto I (217-222 ca.) fu linciato a Trastevere da una folla inferocita, con ogni probabilità a causa della straordinaria crescita del numero dei cristiani in questo distretto popolare. Era stato schiavo, ma il suo padrone, appartenente alla famiglia dell’imperatore Commodo e cristiano come lui, lo aveva liberato e messo alla guida di una banca, impresa in cui fallì completamente. Fu per questo condannato, poi rimesso in libertà, poi mandato di nuovo nelle miniere della Sardegna; fu graziato con altri cristiani su richiesta di Marcia, favorita dell’imperatore Commodo. Dalla personalità indubbiamente affascinante, aveva maggior carattere e migliore formazione del suo predecessore, col quale aveva collaborato strettamente come diacono, amministratore del patrimonio ecclesiastico e incaricato di un cimitero sulla via Appia, oggi conosciuto col nome di Catacombe di San Callisto, la prima proprietà comunitaria della Chiesa romana, aperta a tutti i fratelli nella fede indipendentemente dalla loro estrazione sociale.

    In questo e negli altri cimiteri cristiani le lapidi di chi vi era sepolto, a differenza di quelle dei pagani, non riportavano né l’età né l’origine sociale o la professione. Non compare nulla della vita terrena se non, secondo la concezione egualitaria della comunità cristiana del III secolo, insieme al nome, soltanto un augurio di pace eterna (In pace) su tombe tutte uguali tra loro. Le autorità sapevano di questi cimiteri, ma li rispettavano; in ogni caso divennero luoghi di venerazione particolare quando vi furono seppelliti i primi martiri, tanto che spesso vi venivano celebrate cerimonie speciali.

    Callisto affrontò con maggiore decisione le nuove teorie cristologiche che avrebbero comunque complicato e infervorato il pensiero dottrinale cristiano dei secoli successivi. Si trattava di interpretare e comprendere adeguatamente la persona di Cristo in quanto Figlio di Dio e nel suo rapporto con l’unico Dio. Callisto condannò i Sabelliani.

    È per noi particolarmente interessante la sua posizione sul tema della remissione dei peccati. All’inizio i peccati venivano perdonati con il battesimo, e per i peccati gravi non era previsto un perdono successivo, probabilmente a motivo di una visione eccessivamente fiduciosa nei cristiani e nella loro capacità di conservare la purezza battesimale. Di fatto, coloro che peccavano dopo essere stati battezzati venivano esclusi dalla comunità senza che fosse prevista alcuna riconciliazione. Col passare del tempo si sentì la necessità di reintegrarli in qualche modo. Il Pastore di Erma, databile verso la metà del II secolo, è il primo testo a menzionare il potere della Chiesa di perdonare questi peccatori, precisando comunque che ciò era possibile solo una volta nella vita. I cristiani si divisero allora tra due posizioni: una, più elitistica, concepiva la Chiesa come una comunità di eletti e perfetti, e rifiutava la penitenza postbattesimale; l’altra, più aperta, universalista, popolare e realista, che tendeva a offrire la possibilità di reintegrarsi a chi fosse stato debole.

    A Roma prevalse quest’ultima tendenza, ma con grandi difficoltà, suscitate da chi, sostenendo la posizione contraria, sembrava persino disposto a provocare scismi e a far nascere Chiese alternative. Nella vita ecclesiale si incontra con frequenza questo paradosso: coloro che si considerano puri vogliono una Chiesa a loro misura e, non ottenendo ciò che vogliono, arrivano a separarsi da quella istituzionale per crearne una alternativa, a sua volta settaria. È in realtà un confronto tra la concezione di una Chiesa ideale e utopica, non contaminata, non compromessa con il mondo, e una Chiesa reale, più moderata, che cerca un punto d’incontro tra la disciplina ecclesiastica e la vita reale.

    Del pontificato di

    Urbano I (222-230) non si sa nulla, nonostante il periodo del suo pontificato sia stato caratterizzato dal governo sereno dell’imperatore Alessandro Severo e dalla sua benevolenza verso i cristiani, dovuta probabilmente al fatto che la madre, Giulia Mamea, era ben disposta nei loro confronti. Gli unici dati sicuri che abbiamo di questo papa, cioè gli anni del suo pontificato, ci derivano dalla prima storia della Chiesa esistente, quella di Eusebio di Cesarea.

    Ponziano (230-235) morì martire in Sardegna, condannato ai lavori forzati nelle miniere. Il clima politico di Roma era drasticamente cambiato con il nuovo imperatore Massimino il Trace, soldato rozzo e brutale che fu l’istigatore di una rivolta politica cui diede inizio assassinando il suo predecessore ed eliminando gran parte dei membri del suo circolo politico più stretto, compresi i cristiani della corte imperiale.

    Prima di partite per l’esilio, Ponziano rinunciò volontariamente al suo posto perché la diocesi non si trovasse a vivere momenti tanto conflittuali senza un vescovo titolare in città. Fu il primo papa della storia ad abdicare; pochi altri lo faranno nel corso dei secoli.

    In condizioni normali, la vita dei cristiani non era molto diversa da quella degli altri cittadini, ma le circostanze potevano cambiare improvvisamente. I cristiani erano infatti esposti a un elemento sempre destabilizzante nella vita: l’arbitrarietà. Il solo fatto di essere cristiani bastava per essere incarcerati, esiliati o giustiziati, il che peraltro non dipendeva dalla legge, ma da decisioni arbitrarie del potere politico o del fanatismo popolare, sempre propenso a sfogare la propria ira su capri espiatori.

    La Chiesa cresceva rapidamente, e non tutti erano eroi o santi. Il teologo Origene soffriva nel vedere che il numero dei fedeli cresceva a scapito della qualità, ed esortava le comunità a tornare a una vita cristiana pura come nel II secolo. «Se giudichiamo le cose con sincerità», diceva, «dobbiamo riconoscere che non siamo fedeli. Un tempo si era veramente fedeli, quando il martirio ci minacciava dalla nascita […], quando il martirio dei cristiani che confessavano la verità fino all’ultimo era esempio evangelizzante per i catecumeni, ed essi, sopportando le prove, si univano senza timore al Dio vivente. Un tempo i fedeli erano pochi, ma veramente fedeli, e camminavano per la via stretta e aspra che porta alla vita». Origene era figlio di un martire, ed egli stesso subì il martirio. Forse esigeva troppo nel chiedere a tutti i cristiani di vivere secondo un codice tanto elevato, ma oggi sappiamo che il martirio continuò a minacciare i cristiani per tutto il secolo successivo.

    Uno dei papi che seguiranno, Fabiano, ordinò di far trasferire il corpo di Ponziano a Roma, e lo fece seppellire nel cimitero di San Callisto, in un luogo che in seguito verrà venerato con il nome di Cappella dei Papi per il numero di pontefici lì sepolti. Proprio come alcuni secoli più tardi si cercherà di dare lustro a una dinastia e a una storia con i Pantheon di El Escorial, Dreux o Lisbona, così in una semplice cappella sotterranea, alla periferia della città, si decise di dare rilievo alla successione apostolica con una sepoltura collettiva.

    Antero (235-236) doveva essere greco – a giudicare dal nome – e il suo breve pontificato di quaranta giorni si svolse durante l’esilio di Ponziano in Sardegna. Fu il primo papa a preoccuparsi di ricostruire le vite dei martiri precedenti e il primo a essere sepolto nella citata Cappella dei Papi.

    Fabiano (236-250) visse un pontificato sereno ma dal finale tormentato. Il primo storico della Chiesa, Eusebio di Cesarea, dice che la sua elezione avvenne in circostanze straordinarie: «Trovandosi riuniti tutti i fratelli per eleggere colui che avrebbe dovuto ricevere l’episcopato in successione, ed essendo numerosissimi gli uomini illustri e celebri che erano nella mente di molti, nessuno pensò a Fabiano, che era lì presente. Tuttavia, all’improvviso, secondo quanto si racconta, una colomba dall’alto si posò sulla sua testa, imitando chiaramente la discesa dello Spirito Santo in figura di colomba sul Salvatore. Di fronte a questo fatto tutto il popolo, mosso da un’unica ispirazione divina, si mise a gridare con tanto entusiasmo e all’unanimità che questi era degno, e senza tardare ulteriormente lo presero e lo misero sulla cattedra del vescovo».

    Verso il 250 la Chiesa romana contava 46 presbiteri, 7 diaconi, 1.500 vedove e non meno di 50.000 adepti su una popolazione che oscillava tra i 700.000 e il milione di abitanti. Con l’aumentare del numero e delle necessità della comunità, Fabiano organizzò i cimiteri cristiani di Callisto, Priscilla, Domitilla e Pretestato. Compaiono in questi cimiteri i primi esempi di arte funeraria cristiana, che aggiunge alle rappresentazioni tipiche delle tombe immagini della storia della salvezza, con predilezione per quelle dell’Antico Testamento. Era una comunità numerosa, ben strutturata, con forte spirito di corpo e un’organizzazione economica capace di rispondere alle proprie necessità e a quelle di altre comunità meno fortunate. Sembra che questo papa abbia diviso la città in sette diaconie, alla ricerca di un’organizzazione più efficace delle risorse e degli istituti caritatevoli.

    Nel 249, in seguito all’omicidio dell’imperatore Filippo l’Arabo, il Senato elesse come successore il senatore Decio che, come molti altri Romani, pensava che la decadenza dell’impero fosse dovuta all’abbandono dei riti e dei valori tradizionali, e per contrastare la preoccupante situazione decise di imporre a tutti i cittadini i sacrifici e i culti antichi. Tutti i cittadini dovevano rispettare il decreto imperiale e i ribelli venivano incarcerati e torturati, e i loro beni confiscati.

    In realtà, solo i cristiani erano in una situazione disperata, perché tutti gli altri cittadini potevano abbinare senza difficoltà la propria religione personale ai culti imposti. I cristiani, che rifiutavano qualunque sincretismo e adoravano un unico Dio, furono un capro espiatorio ideale. Inoltre, stando alle motivazioni del decreto, faceva comodo incolparli di tutti i mali e pericoli esistenti nell’impero. Fabiano fu arrestato nei primi giorni della persecuzione e morì in carcere, vittima di un trattamento disumano, il 20 gennaio 250. Nel 1915 fu scoperto il suo sarcofago nelle catacombe di San Callisto.

    Vescovi e noti personaggi cristiani furono i primi a essere accusati e incarcerati, col chiaro intento di privare la Chiesa della sua classe dirigente. Il numero dei martiri fu alto, ma lo fu soprattutto quello dei lapsi, cioè degli apostati che cedettero alla paura e fecero sacrifici alle divinità pagane o che, per lo meno, comprarono i documenti (libelli) che attestavano di aver compiuto sacrifici.

    Potevano i lapsi essere comunque considerati membri della Chiesa? Le opinioni al riguardo erano molto discordanti. In Africa la comunità cristiana finì con lo scindersi in seguito alle discussioni su questo tema. Gli intransigenti ritenevano che qualsiasi relazione con il clero apostata contaminasse i credenti e fosse peccaminosa, e non consideravano validi i sacramenti da loro amministrati. I conciliatori pensavano fosse invece necessario trovare il modo di perdonare e recuperare chi aveva peccato.

    Roma visse lo stesso dibattito e la stessa divisione. In seguito alla morte di Fabiano, i cristiani romani decisero di ritardare l’elezione del nuovo vescovo fino a che si placasse la persecuzione. Per quattordici mesi il presbitero Novaziano, brillante ed energico, diresse la comunità agendo con efficacia e decisione, tanto che molti credettero che sarebbe stato il futuro vescovo. La maggioranza degli elettori, tuttavia, scelse

    Cornelio (251-253), un presbitero meno famoso, poco brillante ma forse più equilibrato.

    Novaziano non accettò questa elezione e si fece consacrare da tre vescovi dell’Italia meridionale, diventando il rivale di Cornelio. Sembra che il motivo di questa divergenza e della doppia elezione, oltre alla possibile reciproca antipatia e alle ambizioni personali, fosse proprio il loro diverso atteggiamento nei confronti di chi aveva rinnegato la fede e si era compromesso con le autorità romane durante la persecuzione. Novaziano era un esponente della linea dura e pensava che chi aveva rinnegato la fede una volta non potesse più essere ammesso nella Chiesa, mentre Cornelio, più indulgente, e sicuramente più umile e comprensivo verso la debolezza umana, riunì a Roma un sinodo a cui parteciparono sessanta vescovi della regione. Lì si decise di favorire la riammissione dei lapsi previa penitenza pubblica decisa dalla gerarchia caso per caso, a seconda della gravità di ciascuna colpa. Questi vescovi cercarono di venire incontro alla maggioranza dei fedeli, di fede sincera ma non votati all’eroismo.

    L’ideale di una comunità di puri, di atteggiamento radicale e intransigente, che rifiutava ogni mondanizzazione e ogni compromesso, rinascerà nel monacato che farà la sua comparsa un secolo più tardi, e si riproporrà nella storia della Chiesa nel corso dei secoli.

    In questa difficile situazione Cornelio ricevette l’appoggio di uno dei vescovi di maggior prestigio del III secolo, Cipriano di Cartagine: anch’egli convocò in un sinodo i vescovi africani, sempre disposti a riunirsi per studiare e deliberare sui problemi comuni. In questo sinodo approvarono un metodo di comportamento simile a quello romano. Nel giugno del 253 Cornelio morì in esilio, vittima di un’altra ondata persecutoria, questa volta ad opera di Treboniano Gallo, imperatore provvisorio e insignificante, successore di Decio.

    Anche

    Lucio I (253-254) fu esiliato, ma fu più fortunato degli altri vescovi e poté tornare a Roma, dove mantenne la linea comprensiva e misericordiosa del suo predecessore, concedendo di comunicarsi a coloro che avessero fatto la dovuta penitenza.

    Da una lettera inviatagli da Cipriano di Cartagine si deduce che Lucio fu esiliato, probabilmente, dall’imperatore Gallo, e che poté tornare a Roma sotto il regno dell’imperatore Valeriano. Si apprende anche che questo papa seguì Cornelio nella sua politica di benevolenza e accoglienza nella comunità dei lapsi che avessero fatto penitenza.

    Durante la persecuzione di Decio due vescovi spagnoli, Basilide e Marziale, comprarono il libellum che attestava il sacrificio, e sebbene questo peccato fosse considerato meno grave dell’apostasia pura, furono emarginati dai propri fedeli e deposti, secondo la regola stabilita da un concilio di vescovi spagnoli. Basilide e Marziale si appellarono al nuovo papa,

    Stefano I (254-257). Prima di allora nella Chiesa nessuno si era mai appellato al papa; Stefano però accettò di buon grado, pensando che spettasse alla sua sede risolvere i casi conflittuali, e decretò la riabilitazione dei due vescovi senza ascoltare nessun altro parere. Gli altri vescovi spagnoli, indignati da questo atto che li ignorava e scavalcava, si rivolsero a Cipriano e questi, dopo aver convocato un nuovo concilio di vescovi africani, confermò la deposizione di Marziale e Basilide.

    Non abbiamo altri dati sulla vicenda, ma sappiamo che i vescovi di Roma e di Cartagine ebbero nuovamente occasione di mostrare le proprie differenze alcuni mesi più tardi. Cipriano e in generale i vescovi africani negavano il valore del battesimo amministrato dagli eretici, perché pensavano che gli uomini non potessero ricevere alcuna grazia al di fuori della comunione della Chiesa, che era una sola con un solo battesimo. Gli eretici, in quanto tali, si ponevano ai margini della Chiesa ed erano, di conseguenza, incapaci di amministrare un battesimo valido. Stefano, seguendo la tradizione romana, la pensava diversamente, riteneva cioè che fosse il sacramento in se stesso ad avere la capacità spirituale di concedere la grazia di Dio, e che questa non dipendesse in assoluto dalla virtù di chi amministrava il sacramento. Prepotente e impaziente, disposto ad affermare categoricamente l’antica superiorità della Chiesa romana, pretese di scomunicare quanti non seguissero le pratiche e le decisioni della Chiesa capitolina. In questo confronto Stefano citò per la prima volta il testo di Cristo, «Tu sei Pietro e su questa pietra…» (Mt 16,18), a sostegno del suo primato: è la prima rivendicazione dell’autorità di un papa basata esclusivamente sull’eredità di Pietro e il primo tentativo di affermare la propria autorità su tutti gli altri vescovi.

    Cipriano, appoggiato e seguito da tutti i vescovi africani, rifiutò questa nuova interpretazione perché, pur ammettendo l’autorità particolare della Chiesa romana, pensava che tutti i vescovi in quanto tali partecipassero del potere di Pietro. Per Cipriano la pretesa di Stefano di essere il successore di Pietro era una follia inaccettabile, senza però per questo negare che Roma avesse una speciale autorità. Si trattava, in realtà, della differenza esistente tra auctoritas e potes tas, tra l’autorità data dal prestigio e dalla tradizione e la vera capacità di governo.

    Stefano e Cipriano rappresentano due concezioni sostanzialmente distinte della natura della gerarchia cattolica e della Chiesa, visioni che si contrappongono per la prima volta in questa controversia. Stefano è il primo papa ad avere questa concezione monarchica della Chiesa, mentre Cipriano difende l’esistenza di un vincolo di carità tra i vescovi, solido ma libero, ed è il rappresentante classico della concezione aristocratica ecclesiale, cioè composta da vescovi tra loro uguali.

    Siamo a metà del III secolo. Dal punto di vista organizzativo, il Cristianesimo era composto da un insieme di comunità autonome strutturate gerarchicamente intorno a un vescovo con mandato di governo. Tutte sapevano di far parte della Chiesa cattolica, corpo visibile di Cristo, ma tale convinzione non comportava assolutamente dipendenza o subordinazione degli uni rispetto agli altri. Vero è che alcune sedi, come Roma, Antiochia o Alessandria d’Egitto godevano di maggior prestigio e avevano una storia più antica, ma ciò non implicava autorità né abilitava i suoi vescovi a intromettersi nelle questioni interne delle altre Chiese. Come abbiamo potuto osservare, prima in Asia Minore e poi in Africa nacque l’usanza del concilio provinciale, assemblea in cui i vescovi discutevano e decidevano su questioni regionali o anche locali, per esempio nel caso in cui un vescovo venisse espulso dalla sua comunità. Ciò nonostante, si trattava di un’istituzione che muoveva i suoi primi passi e che non conosceva ancora né le proprie competenze, né i propri limiti.

    La pretesa di Stefano risultò inopportuna e scandalosa, sebbene le frequenti divergenze tra le varie sedi, gli scismi ogni giorno più frequenti, le differenze dottrinali e liturgiche e i disaccordi tra i vescovi e le loro comunità rendessero necessaria la presenza di una figura autorevole che ricomponesse le divergenze. Nel frattempo, come accade nel normale corso della vita, l’autorità personale di alcuni vescovi importanti, come Cipriano, si imponeva in circostanze difficili, e il popolo e i vescovi ne seguivano il pensiero. Per il resto, solo l’autorità di Roma – sede rispettata in Occidente, insieme a quella di Alessandria d’Egitto – era comunemente accettata, oltre al prestigio e all’autorità fondati sulla sua particolare relazione con Pietro e Paolo, sul carisma proprio e intrasferibile della città e sulla rete di rapporti che si intrecciavano progressivamente tra le diocesi occidentali e la capitale dell’impero. Stefano si appropriò personalmente di questo rapporto e della conseguente autorità.

    Sisto II (257-258) fu vittima della persecuzione di Valeriano. Fu catturato mentre stava celebrando una cerimonia con sei diaconi nella catacomba di San Callisto, e in quello stesso luogo furono tutti martirizzati. Poco dopo martirizzarono anche il settimo diacono, Lorenzo, bruciandolo su una graticola. Quest’ultimo è stato per secoli il martire più popolare di Roma, godendo di una speciale devozione.

    Tra il III e il IV secolo molti autori scrissero sulla Chiesa, assegnandole il titolo di «Madre dei fedeli»: si indicava così l’esistenza tra i credenti di una rete di valori religiosi e sociali che finì per acquistare un grande rilievo teologico, tanto da applicare alla Chiesa il concetto di corpo mistico di Cristo, già sviluppato da san Paolo. A partire dal 258 la festa di Pietro e Paolo si celebra lo stesso giorno, il 29 giugno.

    L’imperatore Gallieno, figlio di Valeriano, restituì alla Chiesa molti dei suoi beni, il che fa supporre che l’impero in quegli anni non considerasse il Cristianesimo una religione illecita. Ricordiamo che nel diritto romano esisteva una chiara distinzione tra illecito, tollerato, lecito e ufficiale. Di fatto, per cinquant’anni i cristiani vissero in pace, diffondendo e rafforzando la loro fede.

    Dionisio (259-268) lottò contro l’eresia subordinazionista e richiese al vescovo di Alessandria, anch’egli di nome Dionisio, che si pronunciasse circa l’accusa che gravava su di lui di aver fatto dichiarazioni eretiche in riferimento alla dottrina trinitaria. È bene ricordare l’importanza in tutto l’Egitto della sede episcopale di Alessandria e del suo vescovo Dionisio. Caso unico in tutta la Cristianità, tutti i vescovi di Egitto e Libia erano eletti da lui. Per questa ragione, i suoi avversari si recarono a Roma, che consideravano la prima sede apostolica e la somma autorità. Era la prima volta che dei membri di una Chiesa orientale ricorrevano all’arbitrato della sede romana.

    Non sappiamo nulla del pontificato di

    Felice I (269-274). Gli si attribuisce una disposizione secondo la quale si poteva celebrare la messa solo sopra la memoria dei martiri. Che la storia sia autentica o meno, non c’è dubbio che celebrare «accanto al corpo di un martire» fosse uso liturgico di grande contenuto teologico: la commemorazione del sacrificio di Cristo poteva essere celebrata solo sul corpo di chi aveva dato la vita testimoniando la sua fede.

    Nulla si sa della vita o del pontificato di

    Eutichiano (275-283). Fu l’ultimo papa a essere sepolto nella Cappella dei Papi. Allo stesso modo non ci sono state tramandate notizie affidabili di

    Caio (283-296), nonostante il suo lungo pontificato.

    Durante la seconda metà del III secolo la consistenza dell’Impero andò indebolendosi. Gli imperatori erano incompetenti e le virtù classiche romane sembravano essere scomparse. Si cercò una soluzione con la diarchia, due imperatori che governavano l’Oriente da Costantinopoli e l’Occidente da Roma. Si pensò che la maggior vicinanza del potere ne avrebbe accresciuto l’efficacia, ma spesso provocò solo litigi e maggiore confusione. Milano, più vicina al centro Europa, si prospettò come alternativa a Roma.

    Diocleziano diede inizio a un’altra persecuzione allo scopo di distruggere tutto ciò che non era pagano. Dopo i 3 editti del 303 (le chiese cristiane dovevano essere abbattute, i libri sacri portati alle autorità, e il clero incarcerato o torturato per costringerlo a offrire sacrifici), i cristiani furono estromessi dalle cariche pubbliche e dall’esercito, i templi furono chiusi e il clero neutralizzato. La persecuzione generale cominciò con un quarto editto nel 304.

    Non si conoscono le cause di questa persecuzione. Sorprende ancora di più se si ricorda che Prisca, moglie dell’imperatore, e sua figlia Valeria mostravano simpatia verso i cristiani. Secondo diverse fonti, Diocleziano le obbligò personalmente a offrire sacrifici agli dei pagani, e la caccia ricominciò da Oriente a Occidente. Sembra che

    Marcellino (296-304) abbia consegnato i libri liturgici ai persecutori ma, avuta l’occasione, fece marcia indietro, si pentì della propria debolezza e morì martire. In ogni caso, in molte liste dei vescovi di Roma il suo nome non compare.

    Dopo un interregno di quattro anni, il più lungo della storia, venne eletto

    Marcello I (308-309); alcuni autori, però, pensano che non fosse il vescovo di Roma, ma una specie di reggente della diocesi durante la persecuzione, quando per i cristiani era difficile vivere e, conseguentemente, eleggere un nuovo vescovo. Infatti alcune liste, a partire da quella di san Girolamo, non includono il suo nome. Damaso, al contrario, dice di aver studiato il tema e gli dedica un poema-epitaffio.

    Intorno al 306 Massenzio, figlio dell’imperatore Massimino, sospese la persecuzione. La comunità cristiana si trovò ad affrontare il problema del gran numero di lapsi presenti al suo interno. I magistrati avevano fatto di tutto per ridurre al minimo il numero dei martiri, promuovendo in tutti i modi l’apostasia, sia con argomentazioni, sia con minacce fisiche e psicologiche. I cristiani erano divisi tra chi desiderava l’osservanza della disciplina tradizionale e chi voleva una rapida reintegrazione nella vita della comunità. Massenzio, forse per assecondare i desideri di questa seconda corrente, esiliò Marcello, molto intransigente nei confronti dei lapsi.

    Il Liber Pontificalis, storia dei papi scritta secoli dopo, gli attribuisce la riorganizzazione della Chiesa romana con l’intenzione di meglio rispondere alle esigenze dei tanti penitenti e alle sempre numerose conversioni dal paganesimo. Divise la città in venticinque «titoli» – equivalenti alle attuali parrocchie –, centri in cui si celebravano i riti di riconciliazione con i penitenti e dove avveniva la formazione prebattesimale dei convertiti. Prima della pace del 313, la presenza cristiana a Roma, sebbene consistente dal punto di vista numerico, aveva uno scarso impatto sull’ambiente urbano. Un turista avrebbe ammirato i templi delle antiche divinità, gli edifici amministrativi, i palazzi, i teatri, le grandi case, avrebbe visitato i quartieri delle classi medie o i bassifondi, ma non si sarebbe accorto della presenza delle domus ecclesiae, le case private nelle quali i cristiani assistevano alla celebrazione dell’Eucaristia e della preghiera comunitaria. Non si sarebbe recato nemmeno al trofeo di San Pietro, a meno di non essere cristiano.

    Anche sotto

    Eusebio (309-310) la situazione tesa della comunità perdurò tra problemi e confronti. I lapsi insistevano per essere ammessi senza indugi. Eusebio richiese un adeguato pentimento e il suo atteggiamento scatenò una violenta reazione. I lapsi dovevano indubbiamente essere molti, a giudicare dalla forza della loro protesta. L’ordine pubblico ne risentì, e dovette intervenire l’imperatore Massenzio, che esiliò i capi delle due fazioni: Eusebio fu mandato a Siracusa, in Sicilia, dove morì poco tempo dopo; fu poi sepolto nel cimitero di San Callisto.

    Durante il lungo interregno tra la morte di Eusebio e l’elezione di

    Milziade (311-314) fu raggiunto un compromesso tra le due fazioni, di cui infatti non si sente parlare nel nuovo pontificato.

    Il 28 ottobre 312 ci fu la celebre battaglia del ponte Milvio, in cui Costantino sconfisse Massenzio, diventando unico imperatore. Il suo rapporto con il Cristianesimo era noto: nel 313 emanò l’editto di Milano con il quale proclamava la libertà di culto per tutti i cittadini: «Abbiamo deciso di dare ai cristiani e a tutti gli altri la libertà di scegliere la religione di proprio gradimento». In realtà, sebbene il valore di tale editto fosse universale, furono i cristiani a esserne maggiormente favoriti. Indubbiamente il Cristianesimo offriva a Roma un rilevante patrimonio di valori e un culto comune che poteva diventare l’autentico cemento di un Impero debilitato, sconvolto e disunito. Il Cristianesimo aspirava a essere, nella nuova epoca, quello che erano stati il paganesimo e i valori repubblicani romani.

    L’elezione di Milziade poté avvenire, quindi, in una comunità in pace e con una situazione politico-sociale per la prima volta favorevole al Cristianesimo. Tuttavia, al diminuire delle difficoltà esterne aumentavano quelle interne. In Africa era nato il movimento donatista, che infiammò gli animi e divise gli spiriti. Il nocciolo della nuova questione era il valore delle qualità morali dei credenti: la validità dei sacramenti dipendeva dal valore morale di chi li amministrava? La messa o il battesimo celebrati da un sacerdote peccatore erano da considerarsi non validi?

    I vescovi africani chiesero a Costantino di giudicare Donato, fondatore del movimento, e Costantino girò l’incarico a Milziade. Questi convocò un sinodo a Roma con quindici vescovi italiani e quattro della Gallia, nel quale condannò Donato, ma i Donatisti non accettarono il verdetto e accusarono il papa e il suo predecessore Marcellino di essere stati apostati; Costantino scoprì così, fin dall’inizio, i limiti dell’autorità ecclesiastica. L’imperatore diede a tre vescovi francesi l’incarico di studiare il dogma e la controversia donatista, ma li pose sotto l’autorità di Milziade: il concilio di Arles, pur con vescovi francesi, confermò quanto deciso a Roma.

    Il pontificato di

    Silvestro I (314-335) coincide più o meno con il regno di Costantino. Grazie all’appoggio e all’attività edilizia dell’imperatore, Roma cominciò a cambiare il suo tradizionale aspetto architettonico, caratterizzato ora da una maggiore presenza cristiana, il che progressivamente trasformerà la sua immagine. Costantino fece costruire la basilica di San Giovanni in Laterano – con un battistero e un palazzo per il vescovo, sopra una parte del palazzo di sua moglie Fausta, e sopra le scuderie di un corpo militare d’élite – e la basilica di San Pietro accanto al Circo Vaticano, sopra un importante cimitero pagano. Ordinò anche la costruzione della basilica di Santa Croce in Gerusalemme per venerare parte della croce su cui morì Gesù. Elena, madre dell’imperatore, assicurava di aver trovato questa reliquia a Gerusalemme. Erano segni maestosi dell’importanza del Cristianesimo, una religione che stava acquistando rilevanza sociale con grande rapidità. Tuttavia, questi edifici erano ubicati alla periferia di Roma, e non rivaleggiavano con i monumenti tradizionali. Una era la Roma classica, ancora intatta, l’altra era la Roma nascente, anche se marginale. La ragione dell’ubicazione delle basiliche costantiniane lontano dal centro politico-economico della città era evidente: l’imperatore non voleva offendere la sensibilità pagana degli aristocratici, degli intellettuali e del Senato.

    Tuttavia, la presenza cristiana era già evidente. L’Arco di Costantino, fatto erigere dal Senato e dal popolo romano dopo la vittoria su Massenzio, ed eretto nella parte più nobile della città, riveste una particolare importanza artistica e storica: le varie parti che lo compongono riassumono un vasto periodo dell’arte imperiale, dall’epoca di Domiziano fino a quella di Costantino, mentre l’allusione a una divinità pagana, che compare per la prima volta in una dedica, indica l’affermazione del Cristianesimo al vertice del potere imperiale.

    Costantino visse quasi sempre nella nuova capitale orientale, Bisanzio-Costantinopoli, ma naturalmente Roma continuava a essere la capitale dell’Impero, e conservava gli organi centrali del governo, anche se indubbiamente il potere effettivo era là dove si trovava l’imperatore. Il vescovo di Roma cominciò ad acquisire una rilevanza che andava oltre la sua mera funzione religiosa. Dirigeva la Chiesa in una capitale ancora a maggioranza pagana, che continuava a essere il centro simbolico del mondo mediterraneo, il centro del sentimento di identità del popolo romano, ma non possiamo dimenticare che Costantino si disinteressò di Roma stabilendo la sua corte in Oriente, e da quel momento la configurazione della Roma cristiana diventò compito dei papi. Nel giro di cento anni i papi cominciarono a far costruire chiese che trasformarono o ampliarono i modesti titoli precedenti: la chiesa di San Marco (339) vicina al Campidoglio; la grande basilica di papa Liberio accanto all’Esquilino, oggi Santa Maria Maggiore; Santa Anastasia, accanto al Palatino, fatta costruire da papa Damaso; la chiesa di papa Giulio, su cui oggi sorge Santa Maria in Trastevere; o Santa Pudenziana, accanto alle terme di Diocleziano, la cui costruzione fu ordinata da papa Anastasio I (399).

    Mentre il Cristianesimo occidentale era invischiato in problemi di morale – come quello del Donatismo –, l’Oriente, da sempre maggiormente dedito alla filosofia, si mise a riflettere sul significato della Trinità. La teologia delle verità fondamentali cristiane si sviluppava con fedeltà al Vangelo, ma anche a suon di eresie: man mano che queste sorgevano, i vescovi determinavano quale dottrina fosse concorde con le parole di Gesù.

    Ario, nato in Libia, educato in Egitto e sacerdote ad Alessandria, cominciò a predicare che Gesù non era Dio, ma una creatura unica, simile a Dio ma capace di soffrire, piangere e sentirsi abbandonato. Non era pensabile che Dio si fosse abbassato ad agire e soffrire come un uomo. Peraltro non era nemmeno un uomo, perché non aveva anima umana, ma era qualcosa di unico, una creatura fatta da Dio, posta tra Dio e l’uomo. Si trattava di una dottrina più semplice e facile da capire rispetto a quella tradizionale, ed ebbe molto seguito. Atanasio, vescovo di Alessandria, fu uno dei suoi principali avversari. Se Cristo non fosse Dio, affermava Atanasio, non potrebbe salvare gli uomini, e questi non avrebbero altra speranza che lo sforzo intellettuale, filosofico. Al contrario, dato che Cristo è Dio e uomo, ci si può aspettare da lui la salvezza, e questa salvezza è la vita della Chiesa.

    Costantino era convinto che il Cristianesimo fosse capace di ridare all’Impero l’unità perduta, ma rendendosi conto che anche questa religione era divisa, decise di impegnarsi a rafforzarla e unificarla. Per questo convocò una riunione di trecento vescovi al fine di affrontare e risolvere i problemi. Secondo lo storico Eusebio di Cesarea, Silvestro non partecipò perché ormai anziano, e fu rappresentato da sacerdoti della sua Chiesa. Stiamo parlando del concilio di Nicea (325), il primo dei ventuno concili ecumenici celebrati nel corso dei venti secoli dell’era cristiana. Sin quasi dagli inizi si assegnò a queste riunioni un’autorità vincolante in materia di fede, e da subito chi era deluso dalle delibere del concilio organizzava incontri simili che elaboravano nuove formule. Per questa ragione Nicea segnò l’inizio e non la fine della controversia ariana, che si prolungherà nel tempo, si estenderà dall’Impero ai paesi vicini e complicherà ed esaspererà il Cristianesimo fino a degli estremi difficili da comprendere per la nostra mentalità.

    I figli di Costantino erano cristiani e si divisero pacificamente l’impero. Costanzo si tenne l’Oriente e Costante l’Occidente. La reazione antinicena, appoggiata da Costantino, si estese con rapidità. A Roma,

    Marco (336) e

    Giulio I (337-352) non ebbero dubbi e mantennero la tradizione nicena. Atanasio, vescovo di Alessandria, espulso dalla sua diocesi per la sua fedeltà al dogma definito a Nicea, si trasferì a Roma, dove fu accolto con tutti gli onori dal concilio romano del 341 convocato da Giulio I.

    In occasione di questo incontro Giulio I indirizzò ai vescovi d’Oriente una lettera nella quale definisce chiaramente l’idea del primato del vescovo di Roma: «Se, come voi affermate, è stato commesso un delitto, bisogna emettere una sentenza secondo i canoni ecclesiastici, e non come è avvenuto. Avreste dovuto scrivere a tutti noi, perché fosse determinato da tutti ciò che è giusto. Si trattava di vescovi, e non di una Chiesa qualunque, ma di Chiese che sono state presiedute dagli apostoli. Perché non ci avete scritto della Chiesa alessandrina? Forse non sapete che il diritto consuetudinario esige che prima si scriva a noi, e che così si determini da qui quello che è giusto?».

    I nuovi imperatori erano cristiani osservanti, ma agivano come pagani,

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